Contro un grande mostro italiano: l'industria delle emergenze tarocche
Come è possibile che la percezione dell’Italia sia così mostruosamente diversa rispetto alla realtà del paese in cui viviamo? Migranti, economia, sicurezza, femminicidio. Perché serve una battaglia di civiltà contro l’allarmista collettivo
La caratteristica di ogni emergenza è che di solito l’emergenza prescinde del tutto dai dati reali (il numero di sbarchi totali nel 2017, dal primo gennaio al due agosto, è, tenetevi forte, inferiore al numero di sbarchi totali registrati nel 2016 nello stesso periodo, il 2,73 per cento in meno) ma la ragione per cui ogni problema diventa ogni giorno un allarme non è solo una scelta di natura lessicale. E’ qualcosa di più. E’ una scelta politica. E’ una scelta culturale. E’ una scelta che ciascuno di noi fa ogni giorno per alimentare – o, viceversa, per sabotare – la grande industria dell’emergenza nazionale. E l’industria dell’emergenza, come ogni buona fabbrica, funziona in un modo chiaro e lineare. Un problema non può mai essere solo un problema perché di fronte a un problema si cercano semplici e banali soluzioni, mentre di fronte a un’emergenza si cercano grandi e teatrali capri espiatori. Un problema non può mai essere trattato solo come un problema perché un problema appare risolvibile, mentre un’emergenza appare irrisolvibile. Un problema risolvibile non scalda il pubblico. Un’emergenza irrisolvibile, invece, il pubblico lo scalda eccome: lo accende, lo fomenta, lo irrita, lo scuote. E c’è di più. Un problema risolvibile, una volta risolto, non è più un problema. Un’emergenza irrisolvibile, anche se è un problema risolvibile, permette invece di trasformare “il caso” in un business culturale. Politicizzando la questione. E trasformandola in un fenomeno sociale. E quando un problema risolvibile, o comunque circoscrivibile, diventa un devastante fenomeno sociale, è legittimo per tutti chiedere alla politica delle risposte urgenti, che ovviamente la politica non sarà mai in grado di dare fino in fondo. E quando poi lo spazio dedicato all’emergenza sarà diventato saturo – o sarà stato clamorosamente smentito dai fatti (pensate all’emergenza euro, che non lo era; pensate all’emergenza populisti, che non lo era; pensate all’emergenza migranti, che non lo era nei termini descritti da molti finora) – il gioco continuerà con una fase successiva, che potremmo definire come la fase del sì, però. L’economia va bene, però ci sono ancora tanti giovani che se la passano male. L’euro funziona, ma non è detto che potrebbe funzionare meglio. I profughi sono in calo, però bisogna ammettere che i soccorsi sono sempre un caos. La mafia in alcune città non esiste, però non si può abbassare la guardia e dire che in quelle città la mafia non esiste.
L’industria dell’emergenza, che in Italia dà oggettivamente lavoro a molte persone, rappresenta un mondo molto interessante da studiare per molte ragioni, ma per una in particolare. E attraverso l’industria dell’emergenza possiamo capire meglio un fenomeno altrimenti difficile da inquadrare: come è possibile che la percezione del nostro paese sia così mostruosamente diversa rispetto alla realtà del paese in cui viviamo? La ragione è semplice e qualche esempio può aiutarci a capire perché. L’industria delle emergenze tende a trasformare le emergenze fasulle in fatti veri anche se i fatti veri sono altri e di conseguenza, nel circo mediatico, negare quelle emergenze non significa provare a raccontare una verità: significa negare che quel problema esista. Se di fronte al caso di una donna assassinata provi a spiegare che il fenomeno del femminicidio è un fenomeno grave, ma che grazie al cielo è un fenomeno in costante diminuzione, non stai dicendo la verità: stai dicendo che il problema non esiste. E dunque guai a citare i dati. Guai a dire, per esempio, che nei primi cinque mesi di quest’anno si sono registrati il 40 per cento di casi di femminicidio in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Guai a dire che nel 2016, rispetto al 2011, i casi di femminicidio sono diminuiti dell’11 per cento. Guai a dire che gli omicidi in ambito famigliare sono stati 117 nel 2014, 111 nel 2015, 108 nel 2016 e nei primi sei mesi del 2017 sono stati il 33 per cento in meno rispetto ai primi sei mesi del 2016 (i dati sono del Viminale). Lo stesso discorso, naturalmente, si potrebbe fare per molti altri temi. Ma il tema che oggettivamente, in questi giorni, colpisce di più ciascun lettore e ciascun osservatore è quello legato all’impressione chiara e netta che si ha sfogliando le pagine di un qualsiasi quotidiano e seguendo i servizi di un qualsiasi telegiornale: l’emergenza delitti, l’emergenza omicidi. Un dramma. Ma davvero è così un dramma?
Un tempo, come ricordano i cronisti più navigati, un omicidio conquistava le prime pagine dei giornali se intorno a quell’omicidio esisteva un qualche tipo di mistero. Oggi, invece, un omicidio, anche se di quell’omicidio si conoscono quasi in tempo reale il movente, l’assassino e le modalità, tende a essere valorizzato sui giornali non in quanto simbolo di un grande giallo da chiarire ma in quanto spia di un problema sociale da approfondire. E così ogni piccolo delitto, ogni piccola infrazione, diventa il segnale di un’emergenza nazionale e i risultati prodotto dall’allarmista collettivo si vedono nelle varie classifiche stilate ogni anno sulla percezione della sicurezza italiana. L’ultima, molto significativa, è stata resa nota due giorni fa ed è stata compilata dalla Gallup. La ricerca è ampia e misura la percezione di sicurezza dei cittadini europei. Si parte da una domanda chiara: do you feel safe walking alone at night in the city or area where you live? Si sente sicuro di camminare da solo di notte nella città o nell’area in cui vive? Dal sondaggio Gallup risulta che in tutta Europa, dopo la Russia, l’Italia è il paese con la più alta percezione di insicurezza. Questo, nonostante l’ultimo rapporto Istat, quello del novembre 2016, dica che “in Europa l’Italia si colloca tra i paesi con la più bassa incidenza di omicidi”. E questo nonostante alcuni dati che guai a citarli e guai a ricercarli. Sapete qual è la serie storica di omicidi in Italia? Nel 2013 sono stati 479. Nel 2014, 466. Nel 2015, 450. Nel 2016, 424. Nei primi sei mesi del 2017 (i dati saranno comunicati a metà agosto) sono stati l’8,7 per cento in meno rispetto all’anno precedente. Stessa storia per i reati, sapete quanti sono stati? Non pochi, ma sempre meno. 2.892.155 nel 2013. 2.812.936 nel 2014. 2.687.249 nel 2015; 2.485.050 nel 2016. Meno 3,6 per cento nei primi sei mesi del 2017 rispetto all’anno precedente.
L’estate delle grandi emergenze, come ha raccontato ieri Marianna Rizzini sul Foglio, è dunque un’estate in cui le grandi emergenze, almeno finora, sono state prima di ogni altra cosa le finte emergenze. E se vi chiedete qual è la ragione per cui l’industria dell’allarmismo tende a difendere con grande tenacia le proprie post verità è perché quell’industria è diventata un business, che da un lato produce fatturato e dall’altro produce leadership. Dare una rappresentazione dello stato in cui si vive per quello che è – combattendo le storture di un paese percepito più per quello che non è che per quello che è – dovrebbe essere una piccola ma importante battaglia di civiltà per ciascuno di noi. Ma in un contesto in cui in molti (politici, magistrati, giornalisti, sociologi) hanno costruito carriere sulle finte emergenze – e in un paese in cui l’anti politica cresce evidentemente in modo proporzionale rispetto al numero di allarmi inventati – è più probabile che si faccia di tutto non per sgonfiare il paese virtuale che abbiamo creato, ma per dimostrare che le finte emergenze sono vere anche se sono false. Diceva un tale che è più facile ingannare le masse con una fandonia esagerata che con una piccola bugia. Provate a cercare su Google come si chiamava quel tale (indizio: il nome è Adolf) e scoprirete perché combattere l’industria delle finte emergenze non è una battaglia folcloristica, ma è una piccola battaglia di civiltà, in difesa non solo della corretta informazione ma più semplicemente della democrazia.