Piercamillo Davigo (foto LaPresse)

Il sintomatico tic di Davigo sugli avvocati

Redazione
Presentando a Bologna il libro che ha scritto insieme a Gherardo Colombo, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, ha fornito una ricetta infallibile per far funzionare la giustizia in Italia: mettere il numero chiuso nelle facoltà di Giurisprudenza.

Presentando a Bologna il libro che ha scritto insieme a Gherardo Colombo, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, ha fornito una ricetta infallibile per far funzionare la giustizia in Italia: mettere il numero chiuso nelle facoltà di Giurisprudenza, con l’obiettivo di dimezzare il numero degli avvocati e poi dimezzare i loro guadagni. Ha anche accennato, bontà sua, all’esigenza di depenalizzare molti reati, il che però non toglie che si possano irrogare condanne, anche se con sanzioni non detentive. Sarebbe la “lobby degli avvocati” a causare il cattivo funzionamento della giustizia, che viene rallentata dalla loro mania di difendere gli imputati. Questo riduce la possibilità per i magistrati di “prendere a sberle” i cittadini, che sempre secondo l’ineffabile Davigo è l’unico modo per costringerli a rispettare le leggi.

 

Se gli avvocati sono molti di più in Italia che in altri paesi è perché i procedimenti giudiziari sono troppi, troppo lunghi e troppo tortuosi, ma anche e soprattutto perché c’è uno squilibrio evidente tra i poteri dell’accusa e della difesa, che invece secondo i princìpi del processo accusatorio dovrebbero essere messi sullo stesso piano. Per reggere a questo squilibrio, perpetuato dall’assenza di una separazione delle carriere tra inquirenti e giudicanti, l’avvocatura non può che utilizzare tutti i cavilli procedurali per impedire o ritardare che scatti la trappola giustizialista.

 

Anche se messa in queste condizioni di palese inferiorità, la difesa dà fastidio a Davigo, che siccome parte dall’idea che siamo tutti in qualche modo colpevoli, visto che, come dice “gli esseri umani agiscono in base alle loro convenienze e in Italia rispettare la legge non conviene”, trae da questa sua visione pessimistica dell’umanità la conseguenza che il diritto alla difesa è un inutile orpello che serve solo a ritardare o impedire l’inevitabile condanna che tutti ci meritiamo.

 

Persino Colombo si è reso conto di quanto sia radicalmente illiberale tale  visione, e ha obiettato che “secondo Davigo la giustizia dovrebbe essere repressiva, io credo che dovrebbe essere inclusiva, dovrebbe cioè far sì che le persone siano recuperate a vivere positivamente con gli altri”. Si può obiettare che la tutela della convivenza civile è un compito dell’insieme delle istituzioni e della cultura civile, non specificamente dell’amministrazione della giustizia, ma naturalmente il suo approccio è almeno formalmente più umanitario. Che cosa capiterebbe se gli avvocati chiedessero di dimezzare il numero e lo stipendio dei magistrati? Le reazioni sarebbero di scandalo e di riprovazione. Se invece Davigo propone la stessa cosa nei confronti dei titolari della difesa nessuno quasi se ne accorge. Basta questo per far capire come sia elevato lo squilibrio non solo tra i poteri ma anche nella percezione dei ruoli dell’accusa e della difesa e quanto un’opinione pubblica intossicata dal kombinat mediatico-giudiziario su cui si fonda lo strapotere del giustizialismo non sia più in grado di reagire nemmeno a provocazioni così evidentemente squilibrate.

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