Piercamillo Davigo (foto LaPresse)

Tortora tradito dai Davigo

Piero Tony
Da Mannino a Capua, da Errani a Sollecito. Le parole del capo dell’Anm dimostrano che la magistratura non intende estirpare alla radice l’orrore della gogna mediatica.

In una delle “Lettere a Francesca”, pubblicate recentemente a cura di Francesca Scopelliti, nel commentare la vicenda processuale in cui si sentiva drammaticamente intrappolato, il detenuto Enzo Tortora esclamava che con quel sistema processuale così poco garantito “tutto” poteva accadere a qualsiasi persona, proprio “tutto”. A difesa di Tortora e della civiltà giudiziaria, sempre in quei giorni, le stesse parole vennero scritte da Enzo Biagi in un’accorata lettera al presidente Pertini. Era l’anno 1983. Quando intervenne la sua definitiva assoluzione, il 13 giugno 1987, e dunque a quattro anni dall’arresto, l’allora presidente dell’Associazione nazionale magistrati Alessandro Criscuolo tentò di rassicurare l’opinione pubblica proclamando che quanto successo era frutto di norme “di tempi bui e autoritari” ma che l’imminente nuovo codice di procedura penale non avrebbe più consentito il ripetersi di drammi del genere, evidentemente perché avrebbe riallineato la giustizia a canoni trasparenti e democratici. Ciò accadeva quasi 30 anni fa.

 


Enzo Tortora (foto LaPresse)


 

Il consuntivo che si può fare oggi – cioè a distanza di quasi ben 30 anni dall’intervento di Criscuolo – è terribile, perché consente di annoverare centinaia di analoghi casi di imperterrita malagiustizia, tutti caratterizzati non da sfortunata casualità, non dall’ineludibile eccezionalità di quell’errore giudiziario che entro certi limiti piace a molti definire fisiologico, bensì da condotte e dinamiche bene individuate e denunciate e ormai ripetute a ritornello: obbligatorietà dell’azione penale (articolo 112 della Costituzione) di fatto impraticabile e divenuta solo alibi o paravento o scusa per via di un arretrato ingovernabile; una esiziale lentezza del procedimento (tipo respira ma non troppo) con conseguente centralità delle indagini preliminari; investigazioni di polizia tanto vaste e complesse da non poter non sfuggire a un attento controllo e perfino a una completa conoscenza da parte dei magistrati; sostanziale abolizione del modello 45 (atti relativi a fatto da approfondire) e iscrizione automatica del malcapitato di turno – come atto dovuto, al modello 21 del registro degli indagati – per qualsiasi corbelleria denunciata da qualsiasi soggetto; intercettazioni degli spasmi viscerali più profondi e impunita pubblicazione di atti per legge non pubblicabili; diritto del pm di non acquietarsi di fronte ad una sentenza di assoluzione che sconfessa le sue tesi e di impugnarla anche per rinviare la definitività dello smacco subito; amore dei pm per visibilità e notizie gustose da prima pagina e conseguente immediata gogna mediatica (per fortuna destinata a sbiadire rapidamente nel dimenticatoio in quanto fagocitata da quella successiva) per lo sventurato di turno; abuso della custodia cautelare anche per anticipazione della pena nel senso che intanto paga per le sue malefatte e poi si vedrà; minuetto con cortocircuito finale tra media, politica e magistratura; pm e giudici accomunati nello stesso ufficio dalla stessa carriera. E così via.

 

Per non parlare ancora del così detto concorso esterno di cui agli articoli. 110, 416 bis cp c (volo pindarico, concorso esterno… in concorso interno) o dei dibattimenti dialettizzati non più in maniera diretta immediata orale e concentrata come prevede il codice ma in videoconferenza. Consuntivo terribile per tante ragioni. Perché a distanza di quei quasi 30 anni l’ex senatore e ex assessore del comune di Firenze Graziano Cioni ha pubblicamente raccontato qualche giorno fa, in occasione di un convegno presso il Consiglio regionale della Toscana sul tema “Giustizia, politica ed informazione”, che l’assoluzione dal reato di corruzione, intervenuta dopo otto anni di calvario giudiziario, non lo aveva ripagato né della grave malattia che lo aveva nel frattempo colpito né del fatto che ben due volte aveva pensato al suicidio fino “a mettersi la canna della pistola in bocca”. Si riferiva alla stessa inchiesta Fondiaria-Sai che il 5 dicembre 2008 portò il sindaco di Firenze Leonardo Domenici ad incatenarsi a Roma per disperata protesta davanti alla sede di Repubblica.

 

Ancora. A distanza di quei quasi 30 anni dalle dichiarazioni ottimistiche del presidente Anm Alessandro Criscuolo, pressappoco le stesse parole, “quello che è successo a me in Italia accade troppo spesso e può succedere a chiunque”, sono state dette qualche giorno fa anche dalla nota virologa Ilaria Capua nel rassegnare le dimissioni da deputato della Repubblica italiana. Crocifissa per oltre due anni quale “trafficante di virus” imputata di reati gravissimi (naturalmente immancabile l’associazione per delinquere) e poi completamente prosciolta dai giudici di Verona se ne è andata sbattendo la porta; infatti Ilaria Capua ha annunciato alla Camera sia le dimissioni sia di essere in procinto di lasciare l’Italia per un importante incarico direttivo all’università della Florida e, soprattutto… udite udite… per proteggere la famiglia dal vigente sistema giudiziario italiano.

 


Il discorso di Ilaria Capua


 

Sarebbe utile elencarli tutti, o almeno gli esempi di malagiustizia più eclatanti dell’ultimo trentennio, ma occorrerebbe un trattato e questa non è la sede adatta. Mi limito a ricordare gli analoghi casi di Mannino (24 anni di gogna), Carnevale, Mori, Errani, Sollecito, Sabani, Antonelli, Luttazzi, Ciancio e, negli ultimi giorni, di Vincenzo De Luca, Guido Bertolaso, Ignazio Marino, Roberto Cota, dei 116 di Mafia Capitale e delle decine di consiglieri regionali archiviati o prosciolti.

 

Tutti casi che non sarebbero nati o al più sarebbero stati archiviati a tamburo battente, e non dopo anni, se fossero state svolte indagini non solo verificazioniste dell’iniziale ipotesi accusatoria ma anche falsificazioniste ovvero controfattuali. Se fosse stato ben governato quel benedetto articolo 358 cpp che impone al pm di svolgere anche indagini a favore dell’indagato. Se – infine – il sapere e l’esperienza, professionali e di vita fossero stati tali da consentire una ragionevole prognosi degli sviluppi e soprattutto dei risultati delle indagini. Sapere ed esperienza di cui non è possibile fare a meno visto che indizi, dichiarazioni e ipotesi vanno valutati, soppesati, confrontati e non solo conteggiati in proposizioni di stile più o meno calligrafiche. Prognosi peraltro pretesa dall’articolo 125 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, norma che come è noto impone al pm di richiedere l’archiviazione degli atti anche quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non appaiono “idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. Ci si chiederà perché io scriva cose ormai trite e ritrite, più che ovvie e risapute.

 

E’ che sono rimasto fortemente colpito dalle ultime esternazioni dell’attuale presidente dell’Anm, insomma l’omologo di quel magistrato Criscuolo dalle cui rassicurazioni sono partito per questa mia riflessione. Mi riferisco a Piercamillo Davigo, quell’ottimo ed esperto magistrato supernoto sia per l’esperienza acquisita in importanti processi sia per un temperamento visibilmente ardente anzi focoso che gli rende saltellante il passo e che nelle interviste lo fa saltabeccare da witz in witz o meglio da frizzo in frizzo, tutti gustosissimi. Orbene, nell’ultimo convegno di Autonomia e Indipendenza si è parlato anche della legge di riforma del processo penale che sta bollendo in pentola. Riforma che si dovrebbe aggiungere ai numerosi aggiustamenti finora operati dagli attuali governanti – ne va dato atto – nel tentativo di migliorare il funzionamento della giustizia; mi riferisco ad esempio al decollo della digitalizzazione e del processo telematico, al regolamento di attuazione sulla banca dati del Dna, alla legge sulla responsabilità civile, al nuovo istituto della sospensione con messa alla prova (art, 168 bis cp), all’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131 bis cp), all’opportuna depenalizzazione di circa 40 reati davvero bagatellari, all’incremento dell’esecuzione delle pene lievi all’esterno del carcere e così via. Novità frammentarie ma sicuramente utili viste le drammatiche disfunzioni del sistema giudiziario. Come per le stesse ragioni non può che prospettarsi sicuramente utile la ventilata riforma del processo penale, utile seppure non esauriente perché non strutturale. Ciononostante pare, per quanto ha riportato la stampa, che il presidente Davigo a codesto convegno sia focosamente andato in bestia obiettando che le norme di detta riforma “nell’ipotesi migliore sono inutili se non dannose”, che il problema della politica “non è quello che i politici fanno ma quello che non fanno”, che il problema della giustizia in Italia “è che è sommersa da una domanda patologica” e così via. Chissà perché mi è tornata subito in mente la rassicurazione di Criscuolo. Quella di 30 anni fa… è un macello ma tra poco tutto cambierà. Oggi questa… le disfunzioni sono colpa di una domanda patologica e quei tentativi di riforma migliorativa nel migliore dei casi sono inutili. Ma come, inutili se non dannosi? E’ bene lasciare le cose così come stanno e come stavano 30 anni fa, con la cultura della giurisdizione sempre più vicina al precipizio dell’incertezza e della sfiducia? E risentire tra 30 anni le stesse parole di conforto del presidente Anm pro tempore? E continuare a pazientare su calvari e gogne mediatiche nell’attesa che la domanda di giustizia ed il relativo carico di lavoro diminuiscano per via delle solite manovre deflattive?

 

C’è da restare esterrefatti. Per tutto ciò. Ma soprattutto perché continua il silenzio delle istituzioni – la solita censura del silenzio? paura di far innervosire la cd casta? – sul problema più importante della giustizia penale, quello strutturale relativo alle sue fondamenta ossia alla separazione delle carriere. E’ codesta la causa principale delle accennate gravi disfunzioni ossia dei ricordati mostri giudiziari. Perché senza separazione – stessa carriera di appartenenza, stessa casa ed organizzazione, stesso Csm, stessa autorità disciplinare, stessa quotidiana familiarità – viene spesso a mancare la necessaria equidistanza e terzietà del giudice (art. 111 Cost.) e il procedimento – con il difensore spesso relegato nel ruolo di convitato di pietra – non può non restare altamente inquisitorio con buona pace per l’etichetta accusatoria. Con gip e tribunale della libertà sempre meno incisivi nella loro funzione di organi di garanzia. Con indagini che, più che ricostruire orizzontalmente il puzzle dell’accaduto, con sinergiche disinvolture non poche volte edificano verticalmente il fascicolo, rimpolpando pazientemente l’iniziale ipotesi accusatoria. Insomma con giudici e pm che, avvinti in un appassionato abbraccio per via di tanti comuni interessi, non possono disinteressarsi dell’immagine della categoria. E’ poco? Si può non gioire per una qualsiasi riforma, una qualsiasi che rompa il ghiaccio della diffusa inefficienza? Vogliamo restare tutti in silenzio per altri 30 anni? 30+30 fa 60, forse troppo per un sistema che langue a discapito delle persone.