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l'intervista

Caiazza: “Dai giornalisti silenzio sulle querele temerarie dei magistrati”

Ermes Antonucci

L'ex presidente dei penalisti: “Nel dibattito sui limiti alle querele temerarie c’è un grande assente: il potere giudiziario. Per il giornalismo italiano la magistratura è solo una fonte di notizie, alle quali viene garantito un carattere di inconfutabilità"

“Quando si parla del potere che intimidisce i giornalisti si parla di qualsiasi potere fuorché di quello giudiziario”. Intervistato dal Foglio, Gian Domenico Caiazza, avvocato penalista e già presidente dell’Unione camere penali, individua il grande assente nei richiami alla difesa della libertà di stampa lanciati dalla manifestazione tenutasi a Roma dopo il caso Ranucci. Tutti uniti contro le querele temerarie dei “potenti”, identificati però esclusivamente nei politici. Nessun cenno alla valanga di diffide, querele e azioni civili che ogni giorno piove sulle teste dei cronisti da parte dei magistrati

 

“Per una stampa libera serve una politica responsabile. Le istituzioni devono fare in modo che i giornalisti possano fare il loro lavoro”, ha detto per esempio il leader del M5s Giuseppe Conte. Come se le “istituzioni” siano rappresentate soltanto dalla politica. Anche Marco Travaglio, nel rilanciare la proposta di una legge che possa limitare le querele temerarie contro i giornalisti, ha detto che “non ci deve essere immunità per i giornalisti, ma nemmeno per i politici che querelano quando si scrive di loro ma poi diffamano i giornalisti”. Eppure, nota Caiazza, “non c’è ragione di escludere dall’uso temerario della querela e dell’azione civile un potere come quello giudiziario, che fa un uso importante di questi strumenti con un peso specifico superiore a qualunque altro cittadino: essere raggiunti da una querela di un magistrato,  che sarà valutata da colleghi del magistrato stesso, naturalmente porta con sé un peso non indifferente”.

 

Per l’ex presidente dei penalisti, tutto ciò “è la conseguenza di un gravissimo limite culturale, secondo cui i giornalisti sono i cani da guardia del potere, ma in questa nozione di potere non rientra il potere giudiziario”. Un paradosso, visto che parliamo del potere potenzialmente più incisivo di tutti sulla libertà dei cittadini. “Le grandi inchieste non riguardano mai l’operato di un magistrato, di un ufficio di procura o di un giudice, se non in casi coraggiosi ed eccezionali”, dice Caiazza. “Per il giornalismo italiano il potere giudiziario è solo una fonte di notizie, alle quali viene garantito un carattere di inconfutabilità. E’ impensabile, infatti, che il beneficiario di informazioni riservate su indagini in corso si interroghi sulla fondatezza o sulla correttezza di quelle indagini. Così, ciò che sostengono i magistrati diventa il Verbo”. 

 

Non a caso, chi si permette di rintracciare aspetti contraddittori negli atti di indagine o di mettere in risalto l’esito, molte volte fallimentare, ottenuto sul piano processuale da certe indagini roboanti, viene sempre più spesso raggiunto da diffide o querele da parte dei pubblici ministeri titolari di quelle indagini.  “Chi osa fare inchieste sui magistrati e sui risultati delle loro indagini si becca una querela e viene visto come un nemico della magistratura”, afferma Caiazza.

 

Il diritto di cronaca e di critica sembra non valere soprattutto per i pm, che si sentono diffamati persino se un giornalista, di fronte a una sfilza di assoluzioni, si permette di parlare di fallimento dell’impianto accusatorio. “Il pm è considerato la cosiddetta ‘parte imparziale’, un’assurdità tipica della cultura inquisitoria. Si sostiene che il cittadino deve sentirsi garantito dal pm, che essendo pubblico ufficiale è tenuto a fare un vaglio preventivo della fondatezza delle indagini. Sono discorsi che sentiamo fare pure da presidenti dell’Anm. Tanto che uno si chiede a cosa servano mai il giudice delle indagini preliminari e il giudice dell’udienza preliminare, che sono le due figure deputate a controllare la legittimità dell’operato del pm. Purtroppo sappiamo che il vero motivo per il quale è necessaria la separazione delle carriere è proprio il fallimento dell’ufficio gip/gup”, conclude Caiazza. 
     

  • Ermes Antonucci
  • Classe 1991, abruzzese d’origine e romano d’adozione. E’ giornalista di cronaca giudiziaria e studioso della magistratura. Ha scritto "I dannati della gogna" (Liberilibri, 2021) e "La repubblica giudiziaria" (Marsilio, 2023). Su Twitter è @ErmesAntonucci. Per segnalazioni: [email protected]