Ugo Intini - foto LaPresse

1941 - 2024

Ugo Intini, il socialista malinconico di fronte alla fine delle ideologie

Giuseppe De Filippi

La sua carriera politica, contrassegnata da alleanze e divergenze, lo ha visto assumere ruoli governativi e giornalistici. Aveva detto in una recente intervista: "un’economia di mercato, che porta ricchezza, ma non per una società di mercato, perché i diritti di donne e uomini possono essere più importanti del mercato"

Negli anni Ottanta bastava tirare appena un po’ tardi ed era facile imbattersi, guardando un po’ assonnati qualche tg serale o notturno, in quel socialista dalla faccia da funzionario di partito e dalla parlata controllata. Ugo Intini, sebbene spesso relegato a orari da appassionati in Tv e in virgolettati non da prima pagina sui giornali, prendeva posizione per conto del Psi e di Bettino Craxi solo su temi pesanti, quelli per i quali passavano i cambiamenti storici di quel decennio segnato dalla forza del suo partito e dall’alleanza che coinvolse stabilmente i socialisti con i democristiani e i laici. Era fermo nelle sue convinzioni, ma ci metteva un po’ di quella malinconia che poteva prendere, senza strumenti per difendersi, di fronte alla consapevolezza che la storia delle ideologie era davvero finita. Vedeva il socialismo, quello che aveva imparato seguendo e ascoltando Pietro Nenni, come prospettiva certa e inevitabile, talmente forte da poter sopportare qualunque commistione, a partire dagli inserimenti di iniziativa privata e libertà economica, cioè delle cose che facevano funzionare il mercato e arricchivano tutti.

 

 

Aveva detto, in una recente intervista, di essersi sempre impegnato avere “un’economia di mercato, che porta ricchezza, ma non per una società di mercato, perché i diritti di donne e uomini possono essere più importanti del mercato”. Si era battuto, e lo scontro fu davvero epico, per il dispiegamento anche in Italia e quindi in Europa dei missili Nato con cui contrastare il rafforzamento militare sovietico, ultimo tentativo di sopravvivenza del regime comunista. Fu una delle decisioni caratterizzanti del craxismo e fu una delle ragioni della svolta storica di cui ancora adesso non abbiamo chiare tutte le conseguenze, ma della quale dobbiamo essere grati ai politici che ebbero il coraggio di resistere alla suadente e potente propaganda del pacifismo filosovietico. Con un po’ di snobismo intellettuale Intini, recentemente, aveva tenuto più volte a ricordare che dell’Unione sovietica, forte del controllo dei paesi del patto di Varsavia, bisognava sì avere paura e che servivano coraggio e determinazione per contrastarla, come era doveroso di fronte a un gigante imperialista e militarista. Mentre, e qui c’è la punta di snobismo, sosteneva che non ci si dovesse impressionare troppo (e perciò non serviva una forte iniziativa militare di contrasto) della Russia cleptocratica, autoritaria e violentemente espansionista di Vladimir Putin. È un po’ il normale atteggiamento di chi si è impegnato in un’epica battaglia e dopo vede tutto un po’ sbiadito, una faccenda perdonabile, si direbbe. Anche perché Intini non è mai stato, nella sua assiduità con il potere craxiano, un consigliere del principe, si direbbe piuttosto un commissario politico, senza la protervia burocratica tipica di quelle figure, ma con una forte strumentazione ideologica. E questo gli permetteva di poter essere, nell’Italia che omaggia a prescindere le organizzazioni da cui emana qualche forma di potere, serenamente e determinatamente anticomunista. Il soprannome caricaturale di “Ugo Palmiro” faceva leva sulla sua incrollabile appartenenza ideologica, ma serviva anche a rimarcare, per contrasto, il suo anticomunismo. Si è occupato tanto di comunicazione. Quando era tutto più facile e c’erano, come dire, gli spazi, soprattutto nella Tv pubblica, per occupare posizioni di potere.

 

 

Lo faceva, ancora, ideologicamente, fino a scontrarsi perfino con Craxi (ma vinceva quest’ultimo) di fronte all’inserimento di giornalisti non proprio fedeli alla linea e frequentatori assidui di sezioni. Ha rappresentato per anni il Psi nell’internazionale socialista, quando c’era potere e peso politico nelle organizzazioni multinazionali dei partiti. Racconta di aver visto la prima scintilla degli accordi di Camp David quando, accompagnando Craxi a Washington, riuscirono a convincere gli americani a trattare direttamente con Yasser Arafat. Ha attraversato la stagione della caccia al socialista e delle inchieste milanesi senza avvisi di garanzia e con pochi, forse troppo pochi, traumi personali. Dopo ha tenuto sempre a restare in ciò che ancora esisteva del partito socialista, con qualche diversione e alleanza occasionale col mondo radicale e liberale. Ha fatto il sottosegretario e il viceministro degli esteri negli anni Novanta, con Giuliano Amato e Romano Prodi, in due governi crepuscolari. Nell’era dell’impolitica, per paradosso, portando la sua visione ideologica e la sua esperienza di governo, sembrava quasi un tecnico. Ha fatto il giornalista con capacità e con il gusto delle scelte capaci di svegliare il lettore dal torpore. E non era facile per uno che sentiva e sapeva di avere la storia delle ideologie dalla sua parte.

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