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Il vasto mondo di Alain Elkann

Michele Masneri

L’orgoglio di essere ebreo, i romanzi, le donne  e una vita da flâneur. Le storie e le tragedie di  famiglia tra Torino, l’Europa e l’America. C’è la civiltà “della riparazione”, ma ogni tanto siamo tutti lanzichenecchi 

Un maglione di cachemire blu, sotto una giacca spigata con dei bordini ricamati di velluto, sotto un  cappottone da commodoro, in mano una svolazzante borsina di plastica con dentro il Financial Times del weekend, Alain Elkann, autore di quaranta libri, di migliaia di interviste e di tre figli fatali alla patria, spunta tra i velluti di un hotel romano sotto Natale. “Mi hanno preso tutti in giro con questa cosa dei lanzichenecchi nel treno, non capisco perché. Stavo andando in puglia  per un festival letterario e c’erano questi giovani... Han detto che prendevo in giro la povera gente del Sud, ma era il contrario, parlavo di questi giovani in prima classe. Tutti tatuati… scosciati… sdraiati. L’ho raccontato al direttore della Repubblica Maurizio Molinari e lui mi ha detto: scrivi un racconto, io non sapevo neanche che sarebbe finito sul giornale”.  Vero che poi ha fatto ritorno alla civiltà con un aereo privato? “Macché. Ma guardi, bisogna démystifier anche tutta questa idea del lusso. Io faccio una vita molto semplice, vengo da una civiltà delle riparazioni, guardi questo bordo della giacca, e poi i colletti delle camicie che venivano cambiati…”.  Il mondo lanzichenecco, simmetrico della civiltà della riparazione, non è solo ferroviario.  “E’ un mondo in cui i genitori non educano più i figli ma li inseguono sperando di farsi amare, dove se a scuola vai male i genitori se la prendono con i professori, l’ignoranza di oggi, la tecnologia senza l’umanesimo, senza preparazione, eccesso tecnologico… i genitori che a tavola stanno tutti scosciati…”.  È un mondo al contrario quello di Elkann, come un Vannacci però nato a New York e affinato in barrique a Villar Perosa. 

 

La cosa più lanzichenecca che fa? “Mah… non so… Adesso ho scoperto YouTube, non riesco a smettere, sto su tutta la notte”, dice con la sua voce di cachemire. Qualcosa di trash? “Mah, non saprei”. Chiara Ferragni? “Non conosco, no, no” (Elkann ha un modo molto chic di fuggire le domande. La prima volta fa finta di non aver sentito. La seconda fa una pausa lunghissima. La terza si schernisce tirando su il collo spumoso del cachemire, come a nascondersi). Se permette parliamo di donne (su il maglione, direttamente). In un mondo di uomini che si accompagnano a ventenni, lui è sempre stato una consolazione.  Nel suo romanzo “Piazza Carignano” il protagonista dice: “mi attiravano solo le donne più vecchie perché avevano i seni molli”. “Ma sa…”, risponde Elkann, “io non è che non ci pensi alle giovani”. Ci pensa? “Ci penso”. Però? “Un po’ ho il senso del ridicolo. Un po’ non vorrei sentirmi un dinosauro, se discuto del ‘68 francese vorrei che la mia girlfriend sapesse di cosa parlo”. Deve avervi partecipato? “Be’ no, non esageriamo”. Le donne più importanti? “Ah, no, non posso rispondere”. Romina Power? “Ma no, niente”. L’antiquaria Alessandra Di Castro, Jacqueline Schnabel, stilista, Rosy Greco, imprenditrice, Franca Sozzani, direttrice di Vogue, adesso la attuale è Osanna Rebecchini Visconti, designer. Niente. Su il collo del maglione.  Si parla con le donne, non di donne, motto della famiglia acquisita. E’ vero che esiste un modulo Elkann? Dicono che lei proponga a tutte di scrivere un libro, di sposarle, e poi regali sempre un cane. “Ah, il cane! Un tempo, ora non più. Ma non regalavo il cane che piace a me”, ride sornione da sotto il maglione. Che cane piace a lei? “Il bulldog, così brutto! Lo adoro. A loro regalavo invece quei cani che piacciono in genere, i Labrador, i Terrier…”. Ma ha un allevamento convenzionato, che è lì pronto col cucciolo, quando lei si fidanza? “Ma, no, cosa dice!  però lo trovo gentile da lasciare, un cane”. Quando lei è già sulla nuova preda. E poi però promette che le sposa e poi non le sposa (quasi) mai. “Ma non vorrei mettere in difficoltà i miei figli, sa. Io sono cresciuto in una casa in cui sia mia madre che mio padre si erano risposati e avevano fatto altri figli, a cui voglio molto bene peraltro, mia sorella Brigitte Elkann vive in Svizzera e mio fratello Giorgio Barba-Navaretti lo vedo sempre nella nostra casa di famiglia a Moncalieri. Però ho sempre promesso ai miei figli che non avrebbero avuto altri fratelli”. 

 

Sua madre, Carla Ovazza, è stata un personaggio notevole, pilastro della comunità ebraica torinese, e col triste primato di essere la prima donna a essere rapita in Italia. Fu un fatto che fece epoca, Elkann aveva 25 anni e si era appena sposato con Margherita Agnelli figlia dell’Avvocato. “Il sequestro durò cinquanta giorni, i rapitori si spostavano di continuo  e minacciavano al telefono che se avessimo fatto i furbi ci avrebbero rimandato mia madre un pezzo alla volta”. Chi trattava? “Io, fu una cosa abbastanza traumatizzante”.  Alain Elkann a sua madre ha dedicato un libro, “Nonna Carla”, che ne racconta gli ultimi giorni di vita. Ma non è il suo diario segreto. “No, quelli li leggeranno un giorno i miei figli quando io non ci sarò più, come io ho fatto con quello di mia madre”. Quei diari materni saranno fantastici. “Da mia madre passava Carlo Mollino, che mi faceva paura, con quei baffetti e quelle bretelle rosse. Ci mandava dei suoi mobili che noi regalavamo via immediatamente, alle suore, chissà oggi che valore. E poi Primo Levi che era di casa, che regala Se questo è un uomo con la dedica: A Carla, che mi ha insegnato a pattinare sul ghiaccio”. Primo Levi è anche vicino di tomba, “così quando vado a salutare mia madre metto un sasso anche per lui”, e la vicinanza di tomba per Elkann ha una sua logica e una sua poesia anche per via paterna. Jean Paul Elkann invece è sepolto nel bellissimo cimitero ebraico di Montparnasse accanto a Roland Topor, artista e scrittore di Le sang la merde et le sexe, “un fricchettone dalla vita sregolata, è buffo che sia sepolto accanto a mio padre”, il protagonista di “Il padre francese” altro romanzo molto autobiografico di Elkann. Che oggi dice: “Era un imprenditore, un uomo di industria. Gli Elkann erano ebrei alsaziani, dediti all’acciaio. Lui nella vita fu soprattutto un filantropo, amico di politici come Pompidou e della causa israeliana, presidente dei profumi Givenchy, nel consiglio di amministrazione di Dior”. Uomo di granitiche certezze e pieno di manie. “Abbastanza. Elegantissimo, molto bello ma non magro, a un certo punto si mise in testa di perdere peso, era fissato, verso i cinquant’anni cominciò a mangiare pochissimo perché voleva conservarsi, e girava con una bilancia appresso. Detestava il fatto che io volessi diventare scrittore, un lavoro che trovava disdicevole, deplorava che a trent’anni non avessi un ufficio e un autista. Che io volessi abbandonare la sua classe sociale”. 

 

Però, Elkann, diciamo che nella classe sociale poi lei è rientrato abbastanza bene. Si ritrae nel maglione spumoso. Com’era essere sposato all’infanta d’Italia? Pausona. “Ma sa, gli Agnelli a Torino facevano parte del tessuto sociale, della città, non era una cosa così strana. Torino è una città difficile da capire per chi non c’è nato. E’ una città dove tutto è semplice, dove tutti si conoscono. Io a 18 anni andai alla Einaudi con i primi racconti in mano e chiesi di Italo Calvino, e l’uscere in doppiopetto – perché allora gli usceri vestivano in doppiopetto - rispondeva: oggi non c’è, ripassi domani. Mia madre era in classe con Susanna Agnelli, al liceo d’Azeglio, scuola pubblica”. Come presero i suoi il fatto che abbia sposato una donna non ebrea, interrompendo l’ebraismo che si trasmette per parte appunto materna? “In Italia era abbastanza scontato, gli ebrei qui son pochissimi, io ero sempre l’unico della situazione. Così mio padre mi aveva spedito in Israele per trovare una girlfriend, ero andato a stare in un kibbutz, e finalmente ne trovo una a Gerusalemme, ma poi scopro che questa Penny era cristiana!”.  Com’era il rapporto con suo padre? “Lui faceva la sua vita. Al massimo viaggiavi con lui, ma non è che ti insegnava qualcosa. Non è che avessimo un brutto rapporto. Semplicemente non avevamo un rapporto”. Lei invece coi suoi figli? “Abbiamo sempre viaggiato molto, perché volevo che, qualunque cosa sarebbero diventati da grandi, avrebbero comunque visto il mondo, prima, con me. Magari uno di loro avrebbe fatto il dentista a Milano…”. O l’operaio… “No, operaio no, perché studiavano all’università”. A proposito, lei l’università dove l’ha fatta? “A Ginevra”. Città noiosissima. “Dipende”. Donne? “Non solo. Poker. Sci. Tanto altro”. Ah. “E il primo articolo della mia vita. Una notte vidi un cartellone illuminato con la scritta La Suisse, che era un giornale, entrai, c’era il proprietario, alla fine mi chiesero di scrivere per loro. Per cominciare, un articolo su Venezia”. Tutto accade senza sforzo nella vita e nell’opera di Elkann, per una strana bonomia del destino. Alla fine qualunque tragedia si risolve sempre con un drink al café Flore o da Lipp. Come quando ci va con Alberto Moravia, uno dei suoi maestri. “Cominciai a frequentarlo a Parigi, all’Istituto di cultura italiano.  Da Lipp incontrammo l’editore Christian Bourgois che era appena stato condannato a morte con la fatwa islamica dell’Ayatollah Khomeini, per i Versetti satanici di Rushdie, mentre Moravia aveva pure lui la scorta perché dopo l’assassinio di Pasolini era stato fatto oggetto di minacce di morte. La discussione era così: ‘ma chèr Moravia, lei come si trova con la sua condanna a morte? Ah, guardi, sto pensando di andare a Venezia per stare più tranquillo, e lei, caro editore? Ah, io mi trovo benissimo con la scorta’, mentre intorno i parigini bevevano il loro pastis e mangiavano le loro tartine”.  


Con Moravia Elkann fa un famoso libro-intervista .“Sì, due anni di lavoro, tra alti e bassi, tra Capri, Sabaudia, Milano, Roma. Lui ogni tanto si stufava e voleva smettere, allora io dicevo: ma non possiamo, ci hanno pagato l’anticipo! Come facciamo con l’anticipo! Allora ricominciavamo e alla fine l’abbiamo portato a termine, il libro. Per scoprire che l’anticipo non era mai stato pagato. Alla fine Dacia Maraini non era molto contenta che a Elsa Morante Alberto avesse dedicato trecento pagine, e a lei solo due. ‘Ma che devo dire di più, Elsa non la amavo ma te, Dacia, sì’, diceva Moravia. Però sempre trecento pagine contro due. Moravia non fece in tempo a vedere il libro finito ma solo le copertine, e in quella tedesca il mio nome veniva prima del suo. Disse: ricordati che tu sei noto, ma io sono famoso”. 

 

Dopo quella a Moravia Elkann si è appassionato alle interviste, che ha prodotto in numero esorbitante, si trovano in varie lingue sul sito Alain Elkann Interviews, anche sotto forma di podcast. “Ma non necessariamente rilasciate da persone famose, a me piace soprattutto il métier, i lavori che le persone fanno. Qualcuno mi raccontò che Calvino morì anche sotto il peso dei troppi saggi e articoli. Fare le interviste invece è perfetto se sei scrittore, non ti disturba la creatività e non sei tu al centro dell’attenzione. Non mi piace fare domande aggressive, non mi interessa svelare segreti”.   Le fa generalmente in inglese, “e ho un assistente che svolge anche funzione di editor, tiene i rapporti con gli intervistati, accende i microfoni, quelle cose lì, sa, io non sono molto pratico”. 

 

Tutto è facile e soft nel mondo elkanniano, e i rovesci della storia sono foderati dal solito never explain e never complain delle classi altissime.  Ecco “I soldi devono rimanere in famiglia”, romanzo delle sue due famiglie. Ebrei francesi gli Elkann ed ebrei italiani gli Ovazza che tutto d’un tratto devono andarsene dall’Europa in fiamme per non essere risucchiati nel male assoluto, l’olocausto. Entrambe le famiglie emigreranno a New York con viaggi avventurosi. “Mio padre via Marsiglia, poi, Lisbona, dove venne arrestato, poi da lì nave per Ellis Island, dove viene arrestato nuovamente. Gli Ovazza, altre peripezie. Avevano uno zio,  Ettore Ovazza, che era “allo stesso tempo ebreo e fondatore di un’orrenda rivista fascista, La nostra bandiera, e scriveva dei libri schifosi. Fece tagliare i fondi al resto della famiglia che così scappò a New York senza soldi. Poi verrà fucilato dai tedeschi. Perché una cosa che in pochi ricordano è che il 90 per cento degli ebrei avevano aderito al fascismo, in Italia”. Fascisti e non, ebrei e non, credevano nel loro paese e confidavano che mai Mussolini avrebbe seguito Hitler. “La cosa più incredibile è che tutto avvenne nell’indifferenza generale”.  

 

La madre con le sorelle si iscrive alla Columbia University dove fanno fatica però a fare amicizia. “A New York gli  italiani vengono guardati con sospetto, considerati tutti fascisti e traditori. Scoprono però un mondo nuovo, più moderno e aperto, dove le ragazze vanno da sole a mangiare nelle cafeteria, e il nonno è sconvolto, impone che tornino invece a casa alle dodici e tre quarti”.  Le due famiglie si installano ai due lati di Central Park, i più abbienti Elkann  nell’Upper East Side, i meno Ovazza dall’altra parte, Central Park West. Queste pagine sono molto belle, a metà tra The Gilded Age e un romanzo fitzgeraldiano.


Elkann, lei serie tv americane le guarda o è troppo lanzichenecca come cosa? “Sì, quella di quei pubblicitari americani…”. Mad Men. “Ecco, bravissimo!”. Lei ha ancora passaporto americano? “No, da molto tempo”. E’ anche lei diventato antiamericano? E’ molto di moda. “No, anzi, solo mi fa un po’ paura un paese che probabilmente vedrà candidarsi un politico che ha fatto un colpo di stato. E dall’altra parte c’è un uomo vecchissimo. Mi sembra che l’Italia in questo, con due candidate donne e giovani come Meloni e Schlein sia messa meglio”. Quale preferisce delle due? Su il maglione. 


Oggi come vanno le cose per gli ebrei? “Oggi percepisco  qualcosa di simile agli anni Trenta. A Milano mi son ritrovato recentemente in una situazione spiacevole. Ero in un supermercato…”. Scusi, ma lei in un supermercato? “Sì, certo, cosa c’è di strano, adoro fare la spesa”. Diceva? “Ero in un supermercato e fuori c’era una manifestazione pro-Palestina. “Fuori dunque c’era la gente per la Palestina. Nel supermercato la gente indifferente. Io, l’ebreo, dentro, solo. Mi spaventa l’indifferenza oggi come ieri”. L’ebraismo è una dimensione importante nella sua vita.  “La mia famiglia è anche imparentata coi Dreyfus del caso Dreyfus, io ho scritto molto sull’ebraismo, e vado, anzi andavo spesso a Gerusalemme, la città più bella del mondo, dove sembrava possibile la convivenza di tutte le grandi religioni. Adesso gli ebrei per l’ennesima volta devono difendersi. E’ difficile da capire per un non ebreo. L’idea che prima o poi troverai qualcuno che ti insulta e ti mette in pericolo”. 

 

Nella sua vita apparentemente senza sforzo Elkann fa un sacco di cose, anche insegnare di tanto in tanto in qualche college americano “letteratura ebraica italiana, è un filone molto importante e poco conosciuto. C’è la moda degli autori napoletani e di quelli siciliani, ma pensiamo a Svevo, Morante, Moravia, i Levi, Fortini, i Ginzburg, Bassani fino a Piperno e Trevi, ebrei o di origine ebraica, o solo mezzi ebrei, sono una componente molto presente e importante nella cultura italiana”.  Ma alla fine lei si sente più italiano, ebreo o francese? “Mi sento uno scrittore ebreo di lingua italiana”. 


Tornando agli Elkann e gli Ovazza, le due famiglie a New York non si piacciono. “Gli Ovazza erano una vecchia famiglia torinese, molto sobria, tutti i maschi avevano fatto la prima guerra nel Pinerolo cavalleria, erano ufficiali sabaudi che frequentavano casa reale. Gli Elkann invece erano industriali e avevano combattuto da soldati semplici”.  L’amore tra i due giovani scoppia lo stesso, e poi a un certo punto finirà. Sia il padre che la madre ritornano rispettivamente in Francia e in Italia e anni dopo si risposano con altre persone. E’ molto letterario il racconto di quel periodo americano così assurdo, come una strana vacanza, mentre l’Europa conosce lo sconquasso e lo sterminio. Per il bambino Elkann comincia quella vita tra esilio e cosmopolitismo che lo consegna al mito del flâneur. “A quattro anni vengo mollato a Torino alla Pensione Europa, con una governante, senza sapere una parola di italiano”. L’italiano diventerà  la lingua letteraria, quella che sceglie per scrivere tutti i suoi libri. Che nascono dai famosi taccuini, che compra in posti segreti. “Non glielo dico dove li prendo”. Su Amazon? Inorridisce. “Ne ho centinaia. Poi li dono alla Cornell University, dove c’è un fondo Elkann. Ma questo naturalmente non toglie diritti d’autore ai miei figli”. Be’ ma non penso che ci facciano conto per tirare avanti, ecco.  Il metodo Elkann prevede poi che gli appunti vengano dettati “a una signora al telefono, come una volta ai dimafonisti dei giornali, che non ci sono più, che peccato”.  Come si fa a non adorarlo? Cosa si deve fare per prendere tutti la cittadinanza nel Mondo della riparazione elkanniana, fuggendo dall’epoca lanzichenecca? 

 

Nei suoi libri c’è sempre un personaggio maschile che è appena arrivato pigramente da Londra o da Parigi o da New York e chiama al telefono delle donne che invece si seccano a stare al telefono. Anche nell'ultimo, “Adriana e le altre” (Bompiani come tutti gli altri), si telefona molto.“ Ah, sì, adoro telefonare, mi manca l’epoca dei telefoni fissi, non come adesso, dove tutti telefonano a tutti, per non parlare degli orrendi messaggi vocali. Perché è  gratis.  Una volta invece bisognava stare attenti, soprattutto in albergo, ti poteva costare di più la telefonata della stanza”. L’hotel come dimensione esistenziale. “Gli alberghi sono sempre stati la mia casa. In albergo mi son sempre sentito protetto, non mi sento mai solo”. I suoi preferiti? “A Roma il Locarno, dove siamo adesso, a Parigi un piccolo hotel che si chiama Duc de Saint Simon vicino all’Istituto italiano di Cultura. A New York il Carlyle. Che ha il vantaggio di essere di fronte a un’ottima farmacia”. Ah, mi dicevano che è molto ipocondriaco. “Sì, mia sorella Brigitte sostiene che tutti noi Elkann siamo ipocondriaci. Dice che gli Elkann amano le farmacie”. A proposito di hotel, qualcuno l’ha criticata nuovamente per un articolo ancora in chiave anti lanzichenecca apparso recentemente, e sul tema del decoro in albergo. “Ah sì, hanno criticato me per quello che dice il mio intervistato, un manager di hotel di lusso. Siamo alla follia. Ma una volta non si poteva andare in albergo senza cravatta. E poi senta questa. Quando vivevo a New York e lavoravo in casa editrice, la Bantham Books, parliamo degli anni Settanta, un venerdì, era estate, andai in ufficio con le scarpe da tennis pronto a partire per il fine settimana. Il lunedì venni convocato dal direttore nel suo ufficio, sotto una grande bandiera americana. Lei in che paese crede di essere, mi chiese. In un grande paese, rispondo. Appunto. Lei lo sa in questo paese che molte persone non hanno i soldi per delle vere scarpe di cuoio? Non si vergogna di essere venuto con le scarpe da tennis?”. Tutti siamo stati lanzichenecchi una volta nella vita.

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).