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la migliore fiction della nostra vita

Il funerale di Berlusconi come una rivincita della tv generalista. Forse è fiction, ma fa piangere

Michele Masneri

È il takeover di Mediaset su Milano, questa città in cui Berlusconi è sempre stato un po’ outsider, straniero. Re di Brianza, imperatore del Contado, compresa Roma, ma poco compreso qui

Come sanno ormai tutti una buona serie televisiva da “piattaforma” deve avere il suo colpo di scena fin dai primi minuti mentre il colossale finale di stagione di Berlusconi all’inizio pare un po’ disordinato. All’ombra del Museo del Novecento è schierato lo stato maggiore del Biscione e tutto il reality di questi trent’anni. Le corone di fiori “La Rai”;  “Milan club Paris”; “Belén Rodriguez”, “Il sindaco di Napoli”, e soprattutto  “I residenti di Milano 2”, dove tutto ebbe inizio, spargono profumi nell’aria mentre nei cartelloni elettronici sotto i portici si alternano la vita la morte  e gli spot: “Grazie Silvio”, insieme a Prada, e “Sanders, naturali alleati della tua bellezza, trattamenti di medicina estetica”. Si può entrare in Duomo? “Qui solo azienda Mediaset”, dice una guardia della security privata Securitalia – altro nome che avrebbe funzionato per un partito moderato – e dice “asienda” in brianzolo. Arriva un collega Rai sconsolato: ieri abbiam fatto il briefing, sedici postazioni Mediaset, una sola Rai. Sul retro del Duomo è proiettata Cesara Buonamici, il Tg5. E’ il takeover di Mediaset su Milano, questa città in cui Berlusconi è sempre stato un po’ outsider, straniero. Re di Brianza, imperatore del Contado, compresa Roma, ma poco compreso qui. 

 

Ma ecco invece questo finalone con location perfetta (rivincita tra l’altro su Roma, land of funerale, con specializzazioni, anche: piazza del Popolo per lo show business, San Lorenzo in Lucina per i nobili, San Roberto Bellarmino per le borghesie). E pensare che questo sagrato sembra fatto apposta. Ecco sotto al Museo del Novecento profumi frizzanti, note di lime, grisaglie, doppipetti, cravatte sobrie, lifting moderati. Siamo in “Mad Men”: tutti gli uomini Mediaset, “l’asienda”: Gerry Scotti, Mario Giordano, Paolo Del Debbio, ma soprattutto i manager, Giuliano Adreani, presidente di Publitalia, il potentissimo capo delle risorse umane Giorgio Rastelli, il capo comunicazione e immagine Paolo Calvani. E non siamo ancora entrati, è solo l’una. In cattedrale si entra poi facilmente, i cerimoniali implodono, ce ne sono almeno tre, questura comune presidenza della Repubblica, alla fine come sempre la spunta la Chiesa, comanda la Diocesi, i suoi messi hanno un simbolo tipo quello dell’Ucraina, sono loro che decidono tutto. “Ho chiamato l’arcidiocesi per far entrare Alba Parietti”, dice un signore. “Passatemi il parroco”, intima un altro. Silenzio, entra Mediaset. La navata destra (ma non estrema) è tutta per loro. In secondo banco, accanto a una colonna, arriva per prima Veronica Lario, rimane lì, scortatissima, omaggiata, sola, chissà cosa pensa, si resta lì inebetiti a guardarla, ecco gli occhi della repubblica, chissà che ha passato, chissà se si sarà pentita di quella lettera, delle vergini e del drago (ma Dolcedrago continua a chiamarsi la holding che raduna le case di famiglia. Chissà da dove arriva quel nome, certo da epoche felici, piccoli misteri, assonanze, o forse niente, è solo fiction). 

 

Arriva Gianni Letta che col figlio Giampaolo va a baciarla (Gianni Letta, incredibile dictu, è stato respinto pure lui a uno dei tanti checkpoint, poi fatto entrare, lui è stato ed è “asienda”, e si mette dal lato giusto). Poi arrivano Guy Binns, belloccione, modello ex o attuale compagno di Eleonora, con la figlia, che a un certo punto salta in braccio alla nonna Veronica. Arriva Silvia Toffanin, compagna di Pier Silvio, arriva Maurizio Vanadia ex ballerino, marito di Marina. La seconda fila si riempie. Coniugi e congiunti. Dalla parte sinistra c’è lo stato, ma non interessa a nessuno, una seggiolina di plastica con scritto a penna “enti territoriali”, e poi stormire di fasce tricolori, Giorgio Gori sindaco di Bergamo ex “asienda”, abbronzatissimo, Renzi magro, Draghi che è Draghi.

 

Sindaco, governatore, “c’è un posto per l’emiro del Qatar?”, fa una, trafelata. Poi arriva proprio l’emiro del Qatar che siederà accanto a Mattarella, pazzesco placement, ma il cerimoniale è libero, la cerimonia è porosa, permeabile come in fondo è stato il berlusconismo. Sarà lui, l’emiro, a comprarsi tutto? Perché prima del sacro viene il profano, e qui siamo in piena “Succession”,  in questi mesi il titolo Mediaset è salito del 40 per cento e chissà cosa ne sarà dell’asienda, chissà cosa faranno i figli, e che ne sarà delle holding Prima Seconda e Terza fino a Quattordicesima – niente draghi qui, il berlusconismo nel naming finanziario a differenza di quello edile era senza fantasia, così si chiamano le cassaforti di famiglia. Ma i figli ancora non si vedono, la prima fila è vuota.  Urbano Cairo: comprare tutto io? “Ma no, figuriamoci”. Ma insieme a qualche arabo? Avrebbe senso, Renzi si prende il partito e l’emiro la tv. Le palme sul sagrato ci sono già. Cairo sorride. Siede lato asienda. Arriva il ministro degli Esteri Tajani, che riceve una serie di ambasciatori stranieri e sembra il fratello Connor Roy. L’ambasciatore russo si dilunga, ecco anche il console, de ‘sti tempi, meglio farli accomodare. 

 

Lato “asienda”, arriva Maria De Filippi, in bianco, più di una von der Leyen. Si alzano tutti in piedi. Giunge Giovanni Malagò che  fa un curtsy profondissimo davanti all’altare, e si rialza atletico che neanche Kate Middleton. Entra Aimone di Savoia-Aosta, secondo gli esperti vero erede al trono d’Italia (anvedi). Siamo in “The Crown”. Alle due e mezza i corazzieri si posizionano.  Nel frattempo ecco che dai monitor interni, perfettamente sincronizzati coi canti che nel frattempo sono cominciati, e coi colpi di tromba che arrivano da non si sa dove – ma chi è il regista, Scorsese? –  partono in diretta “le esterne”, col carro funebre che percorre Milano verso il Duomo, ecco in helivision viale Monza, scortato dai poliziotti motociclisti, come a Balmoral, ma siamo a NoLo, North of Loreto


“Presto, tutti dietro i gonfaloni”, intimano le guardie dell’asienda. I gonfaloni non sono quelli del Galles e del Sussex e dei regni, ma del Monza, dell’Inter, del Milan, delle squadre di calcio. All’estrema destra stanno infatti gli sportivi. In mezzo Malagò, poi De Laurentiis, e poi Franco Carraro, e Umberto Bossi in sedia a rotelle.  Arriva Mattarella e “lato asienda” incredibilmente le seconde file non si alzano in piedi, sono due mondi che non si parlano. Siamo tutti lì, imbambolati, a guardare la televisione, a testa insù. 


Quando il feretro sta per entrare in chiesa, come nel momento dell’unzione, quello che per la chiesa anglicana è troppo sacro  per essere mostrato in tv, quello che Elisabetta non mostrò, chiedendo alla Bbc di astenersi, quello che per l’incoronazione di Carlo, una cafonata rispetto a questo rito qui, rito barocco targato Mediaset, è stato protetto con dei paravento bizzarramente istoriati – in questo momento, dicevamo, dove dopotutto è in ballo, l’ultimo ballo,  l’unto del signore,    mentre siamo distratti col naso all’insù, ambasciatori e sportivi e presidenti e suore e pompieri, a guardare la tv come negli ultimi cinquant’anni, puf, la prima fila è riempita. Non si sa da dove sono entrati, o planati, ecco Marta Fascina, col papà Orazio e la mamma Angela Della Morte, ecco Pier Silvio e Marina, ognuno una holding, ognuno un destino. Prima, Seconda, Terza holding… Siamo di nuovo in “Succession”. Che faranno, venderanno, non venderanno? Si compreranno Repubblica, come i figli di Logan Roy, andando a negoziare nelle Langhe da dei Pierce immaginari? Luigino è serio, ineffabile, in grigio, con la moglie Federica Fumagalli. Aria da capofamiglia. 

 

“Vivere”, attacca l’omelia – non dev’essere stato facile, chissà che writing room – l’arcivescovo Delpini, e siamo in Sorrentino (ma anche un po’ in Bellocchio, lui è uguale a papa Montini; con un incipit che è anche il titolo di una vecchia serie Mediaset, “Vivere”, ripete l’arcivescovo,  e appunto, “Vivere” andava in onda dopo “Beautiful”, era ambientata a Como). L’omelia è veloce, scattante, intensa, non si interrompe un’emozione. Alba Parietti rimane in piedi tutto il tempo, come Cesare Romiti al funerale di Agnelli. Chissà dove saranno i Rovagnati, i Foppa Pedretti e i Ferrero che hanno messo i necrologi sul Corriere in questi giorni, inserzionisti in vita e in morte, la provincia grassa, la provincia americana a cui Berlusconi ha sempre parlato con voce dolcissima. “Succession” meets “the Crown” meets “Vivere”, isole comprese. 

 

Alla fine, incredibilmente, si piange. Cazzo, non si vorrebbe, non si dovrebbe, non era previsto. E’ solo fiction, è stato quel che è stato, non lo si è mai votato, lo si è detestato, macché. Sarà stanchezza, sarà il caldo, ma si piange. Si piange forse come gli inglesi anche più repubblicani piansero la regina Elisabetta, perché è stato la nostra giovinezza, perché non tornerà, perché quelle immagini coi canti, perché Milano, perché ti ricordi dov’eravamo? Perché, come nelle serie ben fatte delle piattaforme, la continuity è tutto. Si piange soprattutto dopo. La messa è finita, son già tutti fuori, ma alcuni rimangono lì. Umberto Bossi, un fantasma, un reduce, portato dal figlio, già Trota, attraversa lentamente la navata, e van lì tutti a salutarlo. Va lì Confalonieri affettuoso, a dirgli in milanese “cosa fet in césa”, e gli accarezza la testa, poi “madonna che momenti che abbiamo passato io e te... son stati gli anni più belli della nostra vita”. E va lì pure Gianni Letta, vecchietto pure lui, e va lì Marcello Dell’Utri, fragile, col bastone. Goodfellas. “Sono rimasto orfano”, dice Adriano Galliani. Mica si piange solo per i buoni, nelle serie migliori si piange anche e soprattutto per i cattivi, “i Sopranos”.  Piangiamo tutti, o forse non piange nessuno, guardo  il Trota, che spinge la carrozzella, ha gli occhi umidi, lui sì. Chi l’avrebbe detto, piangere col Trota. Vi faccio vedere come si muore su una generalista.

  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).