I carabinieri al Poligono di tiro di Tor di Quinto (Foto ANSA/ANGELO CARCONI) 

il racconto

Un amante dei poligoni spiega cos'è andato storto in quello da cui è nata la tragedia di Fidene

Massimo Lugli

Quella di Claudio Campiti non è la prima volta in cui una pistola esce dall'area di tiro di Tor di Quinto. L'attenzione per la sicurezza nella struttura è maniacale, ma c'è un buco: il percorso che va dall'armeria alle linee di fuoco. La ricostruzione di chi conosce quel luogo

Armi in libertà, pistole che dovrebbero essere rigorosamente custodite e che prendono il volo senza che nessuno se ne accorga. Un paradosso che ha provocato la tragedia di Fidene: Claudio Campiti è sgusciato facilmente attraverso la (inesistente) rete di controlli approfittando di una situazione che chiunque frequenti il Tiro a segno nazionale di viale di Tor di Quinto, a Roma, conosce benissimo. Come chi scrive, che va a sparare con regolarità ed è iscritto al Poligono da undici anni. Eppure almeno un precedente noto c’era già stato.

Qualche tempo fa, un tizio venne beccato in piena azione, durante una rapina, con la pistola in pugno e ammanettato: la semiautomatica proveniva dall’armeria del Tiro a segno, dove sarebbe tornata quanto l’arrestato l’avrebbe riconsegnata. Nessuno ha mai scoperto quante volte l’avesse già fatto in precedenza. Eppure l’attenzione per la sicurezza, a Tor di Quinto, è quasi maniacale. “Non esistono le armi scariche”, è il mantra che viene inculcato ai novellini fin dal primo minuto del corso di abilitazione alle armi da fuoco e, sulla linea di tiro, non si sgarra. Gli istruttori sono attentissimi e onnipresenti: guai a muovere un passo verso la postazione se la luce verde non è accesa. Guai a lasciare sul banco una pistola carica o con la canna non rivolta verso il bersaglio. Guai a presentarsi con un’arma di un calibro non accettato, dal .357 magnum in su. E allora? Il problema è lungo circa trecento metri: il percorso che dall’armeria dove chi non ha una pistola personale e il porto d’armi può noleggiare semiautomatiche, revolver, fucili o carabine fino alle linee di fuoco. L’arma viene consegnata in una cassetta di plastica chiusa da una fascetta e aperta solo alla postazione ma è l’iscritto a compilare la registrazione. Meticolosa: modello, marca, matricola, numero, calibro e fabbricazione delle pallottole da sparare, orario di entrata e di uscita. Tutto autocertificato. Nessuno controlla. Finito di sparare, il tiratore si riprende l’arma, la rimette nella sua custodia e va a riportarla in armeria. Nessuno lo guarda o lo segue e, a questo punto, può svignarsela in tutta tranquillità visto che l’uscita, chiusa da una sbarra automatica, non è presenziata. Se non la riporta indietro, il furto verrà scoperto solo all’ora di chiusura. La soluzione sarebbe semplicissima: basterebbe che la riconsegna avvenisse sulla linea di tiro ma, evidentemente, nessuno ci ha pensato.

Impossibili da evitare, invece, i suicidi che avvengono a distanza di anni. Almeno due o tre persone che, dopo aver sparato al bersaglio da 10 o 25 metri, hanno rivolto la canna verso sé stessi e premuto il grilletto. Ma in questo caso una soluzione non esiste. La normativa sulle armi da fuoco, nel nostro paese, è tanto puntigliosa quanto complicata, esattamente come quella fiscale e, proprio come quando si parla di tasse, la scappatoia è sempre a portata di mano. Chi entra per la prima volta dal cancello di ferro battuto che si affaccia sul viale ha due scelte. Può presentare un certificato medico firmato da un qualunque dottore (il cronista l’ha avuto da una ginecologa), iscriversi al corso di abilitazione che dura circa tre ore, ottenere l’attestato e, a questo punto, prendere la tessera e sparare con le armi a noleggio. L’alternativa è andare in questura, presentare attestato, doppio certificato medico (in questo caso anche quello sigillato di un medico militare o della Asl), autocertificazione sui precedenti penali e i carichi pendenti e chiedere un porto d’armi sportivo (il Tav) o, dopo aver superato esami molto severi, la licenza di caccia. I permessi di porto d’armi per difesa personale sono in via di estinzione. Gli iscritti senza alcuna licenza sono una minoranza visto che chi ama le armi di solito, se le compra e questa potrebbe essere una spiegazione del lassismo nei controlli interni. Dopo la tragedia di Fidene e il sequestro di parte della struttura non escludono eventuali complicità. Non ne troveranno di certo. Non ce n’è alcun bisogno. 

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