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(1944-2022)

 Fincantieri ma non solo. Chi è stato Giuseppe Bono, con le sue due vite

Giuseppe De Filippi

È morto il manager che ha segnato la storia delle partecipate pubbliche per più di cinquant'anni, di cui venti alla guida dell'azienda che si occupa di cantieristica navale. Un ritratto 

Giuseppe Bono si è formato quando cominciava l’epoca dei PhD e dei postlaurea all’estero, ma ha seguito un percorso completamente diverso. La laurea in economia a Messina la prese nel 1970 mentre era stato già inserito, da giovanissimo, nei corsi interni della Fiat-Finmeccanica per formare chi doveva occuparsi di pianificazione e controllo. Imparare direttamente in fabbrica e a contatto con chi le cose le fa è stato evidentemente un metodo molto utile e straordinariamente efficace, in quella Fiat in cui era entrato da operaio (ne ha mantenuto, forse come lascito di una specie di seconda e vera famiglia, il tifo juventino). L’ambito, poi, è stato sempre lo stesso, tra meccanica per la grande industria della difesa e della logistica e grandi cantieri. E nella provenienza della formazione iniziale, tra una Fiat che era anche un pezzo di economia pubblica e la Finmeccanica che era anche un pezzo di economia privata, c’era la duttilità della classe di dirigenti bollati, sparando nel mucchio, come boiardi di stato. E Giuseppe Bono non ha fatto nulla per togliersi quell’etichetta, non perché la gradisse, figuriamoci, ma perché non gliene importava niente del giudizio sul suo operato quando non provenisse dagli ambienti cui teneva, dal potere politico inteso strettamente come ristretto gruppo di persone che decidono, dal mondo sindacale, con cui scontrarsi ma nel pieno rispetto reciproco, dal giro di aziende con cui interagiva per questioni di mercato e per rapporti di filiera. Ha fatto talmente poco per non sembrare un dirigente saldamente inserito nella tradizione delle partecipazioni statali, con tutto il portato negativo di quella definizione, da legare il suo nome per molti anni al più scassato dei cosiddetti enti di gestione, l’Efim. Ci arrivò proprio per una di quelle commistioni tra pubblico e privato che hanno caratterizzato, aiutando a sfumare le rispettive rigidità, gli anni dai Sessanta agli Ottanta.

Bono era in una società mista Fiat e Finmeccanica, ma con la nascita dell’Efim, che si prese in carico molte industrie decotte, qualcuna funzionante e perfino un pugno di imprese molto efficienti, finì, per traslazione, a diventare un dirigente Efim, con sempre maggiori responsabilità. Alla liquidazione dell’ente, nel 1993 (la stagione delle privatizzazioni premeva) ne era direttore generale e sembrava segnato dalla leggenda nera dei disastri dell’industria di stato. Da lì, invece, realizzò, senza uscire dal perimetro statale, una ripartenza straordinaria, personale e imprenditoriale. Prima Alenia Difesa e Ansaldo e poi la carica di direttore generale di Finmeccanica (ultimo baluardo rimasto delle partecipazioni statali di tipo industriale, protetto anche a causa dello speciale status dell’industria della difesa). Era partito da Vibo Valentia, in Calabria, senza protezioni e senza forza familiare alle spalle, orfano di padre a 4 anni, cresciuto in collegio. “Calabrese doc - ci dice un imprenditore - rispettoso degli altri e rispettato da colleghi e maestranze, manager di vecchio stampo, attento ai cambiamenti e al progresso”. Sono parole di lode, ma misurate. Non troverete iperboli nella descrizione di una vita dedicata a far funzionare le industrie e far arrivare i prodotti in tempo e di buona qualità. Troverete poche parole ma significative. Che valgono anche per la seconda fase della sua vita di grande manager e per la riscossa di Fincantieri, di cui è stato amministratore delegato dal 2002, reinventandone l’attività e reggendo non tanto a una serie di tornate di nominema a tempeste come la crisi del 2008, durante la quale ebbe il coraggio di far shopping industriale negli Usa, acquisendo impianti che ora producono a pieno ritmo. Ha saputo uscire dalla logica monocliente nelle forniture alle compagnie di crociere e non era uno scherzo, perché servivano forza e duttilità per non restare senza contratti in un settore che programma gli investimenti a lunghissimo termine. Ha saputo trattare con i big della cantieristica francese, per il noto tentativo di alleanza, e tenere a bada la concorrenza coreana prima e cinese poi. Era un uomo di rapporti schietti, a suo modo buono, amava leggere e poi dei libri, che sapeva scegliere, tratteneva un po’ per sé e un po’, senza che si vedesse, per far funzionare sempre meglio quell’impasto tra tecnica, rapporti umani e intelligenza che chiamiamo azienda. 

 

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