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Scalfari muore nel giorno che amava di più, il 14 luglio

Michele Masneri

La sera andavamo a Velletri. I festeggiamenti nella casa di campagna, e il regno di Rep. 

E’ curioso che sia morto proprio oggi, Eugenio Scalfari. Il 14 luglio, infatti, presa della Bastiglia, si festeggiava sempre, più che il compleanno, in grande nel pratone a Velletri, la casa di campagna vicino Roma che amava; e in certi anni essere o non essere invitati a quella ricorrenza era significativo. 

   

A Velletri, reggia di campagna, ci si recava in pellegrinaggio (ci andò per esempio Tommaso Cerno, fugace condirettore, portando in dono scritti di Italo Calvino, compagno di banco scalfariano a Sanremo negli anni Quaranta, che pare furono graditi). La casa che era cresciuta nel tempo era stata comprata dal padre di Scalfari, calabrese di Vibo, direttore del Casinò della città dei fiori e gran pokerista, con la vincita a una lotteria, il che riporta a una dimensione d’avventura dimenticata eppure ben presente, sotto l’immagine a un certo punto santificata di Scalfari figlio.

 

Si festeggiava il 14 luglio ma era un sovrano che altrimenti veniva celebrato di continuo (anche dalla necrologistica: si narra che il primo “coccodrillo” girasse già dagli anni Novanta). “Io sono uno di voi”, ha detto alla redazione di Repubblica che gli faceva gli auguri, i penultimi, i novantasettesimi, via Skype, ai tempi del lockdown. Si vede nel documentario “A Sentimental Journey”, fatto dalle figlie Enrica e Donata. “Sono nato a Civitavecchia il 6 aprile del 1924 alle ore 10.30, all’ultimo piano di un palazzo costruito nei primi dell’Ottocento nella piazza centrale della città”, si legge invece in “Racconto autobiografico”, uno degli innumerevoli volumi che hanno raccolto lo Scalfari-pensiero (dalla poesia alla religione, poi tutto riunito in un doppio Meridiano, onore editoriale riservato a pochissimi). Il pezzo in questione veniva anche letto da un emozionato Silvio Orlando nel 2014 al teatro Argentina per le solenni celebrazioni dei Novant’anni scalfariani. 

 

Eugenio Scalfari era il sovrano di Rep. e come insegna Kantorovicz aveva due corpi, uno sacro e uno profano, uno mistico e uno fisico. Anche, doppia famiglia coi doppi Natali tipo De Sica, le prime nozze con Simonetta De Benedetti figlia del direttore della Stampa, e poi con Serena Rossetti figlia di una celebre libreria di via Veneto protagonista di un sogno nel “Male oscuro” di Berto, oggi “nail studio”. 

 

Il sovrano, Rep. lo celebrava il di continuo, col carattere “Eugenio”, il font introdotto col grande restyling del 2017, ma anche rispettando riti scaramantici e propiziatori cari al Re: le grandi novità aziendali avvenivano il 14 gennaio, giorno del Sommo Compleanno ma non del sovrano, di Rep. medesima (nata il 14 gennaio 1976). Mentre nulla doveva accadere di martedì e venerdì (rito borbonico che aveva lasciato sconfortato il milanese pragmatico Carlo Verdelli, in occasione del lancio del restyling e del sito).
  

Il regno scalfariano aveva oltre alle sue scaramanzie i suoi simboli: la campagna, la barba, il pianoforte, le sigarette. Era un tutt’uno con una certa estetica di Repubblica, che prevedeva i completi di Sandro Viola, ma anche un’idea molto precisa di come dovesse essere graficamente un giornale, dai primi schizzi che si ispiravano a un tempio greco disegnati da  Sergio Ruffolo, designer e scultore e fratello dell’ economista Giorgio, dinastia molto Rep (a Rep. si formavano e disfacevano famiglie, si tramandava la professione, tra rami cadetti e collaterali, come titoli nobiliari, si coltivava anche l'affettuosa appartenenza). 

 

Le quinte di questo reame furono neoclassiche, in carattere Bodoni, utilizzato normalmente nei libri, e loro per  primi lo applicarono a un giornale; anche, sei colonne invece che nove: l’estetica Rep. del resto era un design totale, dal tempio greco di Ruffolo ai Ruffolo stessi con gli Scalfari a a Port’Ercole (sul gozzo di Roberto Olivetti). Era un regno sicuro. Come scrive Stefan Zweig, cantore della nostalgia absurgica, “Ogni cosa, nella nostra monarchia austriaca quasi millenaria, sembrava essere stata fondata per durare nel tempo. Ognuno sapeva quanto possedeva o quanto gli spettava, cos’era permesso e cos’era proibito”.

 

Anche, nella kakania scalfariana, una biforcazione estetica e mondana: da una parte le contesse e le principesse romane, le Verusio, e poi un’estetica da lettrici, le leggendarie professoresse democratiche. C’era il lato “entrepreneur”, visto che Rep fu anche e soprattutto la maggior startup del giornalismo del Dopoguerra, e poi ancora il lato decadente. E Carlo Caracciolo che univa i due “layers” (aggiungendo ulteriore prestanza fisica al pacchetto). Il Principe, casato napoletano, nome da lungomare, amava frequentare i bassifondi, come il faccendiere Carboni, e Ciarrapico, il Ciarra, mediatore in quel fatidico momento in cui Berlusconi avrebbe potuto conquistare Rep. (sliding door!). Coinvolgeva in leggendari poker il giornalista-fondatore Gigi Melega e il concessionario Malagò, e convocava il compianto avvocato Oreste Flamminii-Minuto, principe del Foro, anche per questioni non proprio “core” come un’antenna condominiale - ci raccontò – nel palazzo di Trastevere che doveva essere spostata su un tetto anziché su un altro. 

 

Caracciolo poi con la vasta prole pre e post mortem (quella sì sarebbe una serie Tv) portava l’eleganza libertina e il legame con la Real Casa foderata in midollino e con giardini Russell Page.  Ma a Torino c’era poi anche CdB, l’azionista, l’Ingegnere, altra figura di spicco della saga, che pure arrivò solo nel secondo tempo, e che però su questa fondò la sua nuova identità. Sotto il Fondatore, il Principe e l’Editore, c’era poi un’aristocrazia di corte, con Mario Pirani, Sandro Viola, Bernardo Valli e tanti altri che o non ci sono più o hanno abbandonato il regno cascante negli ultimi anni.

 

Da Velletri a Torino, quella “certa idea dell’Italia”, come sosteneva Ezio Mauro, glorioso direttore nell’èra Seconda (1996-2016), successiva a quella scalfariana (1976-1996), era la costituzione materiale di un regno peculiare, che teneva insieme tutto, il giornale della sinistra occidental-democratica in gessato torinese-napoletano, e le suddette professoresse, le “dieci domande”, il dialogo coi Papi, i post-it per le adunate popolari, e “RepIdee”. 

 

Il tutto ha definito le nostre infanzie, e il bianco e nero bodoniano costituiva le quinte di un mondo più facile e più gradevole di oggi, in cui per essere a posto in fondo bastava deprecare il simmetrico politico-esistenziale del mondo-Rep, il Cav., in realtà forse anche clamoroso “specchio” (col gusto per la conquista muliebre e il pianoforte, e un certo vitalismo; Cav. che oggi gli ha reso l’onore delle armi, con una foto di loro due in bianco e nero). Insomma, un mondo tutto finito; un mondo tutto maschile, anche. Nel documentario, racconta Donata, Scalfari spedì lei e la sorella a lezione di stenografia, “perché battere a macchina a una ragazza torna sempre utile”. E in questo, era davvero un regno di un altro secolo. 

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).