(foto Ansa)

L'alloro del patriarca

Pietrangelo Buttafuoco

Lui è quello che io vorrei diventare da vecchio. E’ un generoso, è uno curioso, non sta fermo mai, viaggia, lavora, studia, ingaggia polemiche, apre discussioni e non è un trombone perché, infine, non è un bollito di nessun brodo, anzi: scatena invidie, insulti e gelosie nel frattempo che detta, a questa Italia, l’agenda della politica e pure il codice di vita sociale. Non c’è pezzo della storia di questa nostra fetta di storia che non l’abbia visto protagonista.

Lui è quello che io vorrei diventare da vecchio. E’ un generoso, è uno curioso, non sta fermo mai, viaggia, lavora, studia, ingaggia polemiche, apre discussioni e non è un trombone perché, infine, non è un bollito di nessun brodo, anzi: scatena invidie, insulti e gelosie nel frattempo che detta, a questa Italia, l’agenda della politica e pure il codice di vita sociale.

Non c’è pezzo della storia di questa nostra fetta di storia che non l’abbia visto protagonista. Figlio di un legionario fiumano, è stato croupier, bancario, deputato, giornalista, direttore, Fondatore e, adesso, è anche lo Scalfari, che è, come dire, il Leopardi, il Devoto-Oli, il Cencelli, il Dante, il Rostand. Insomma, basta la parola. 

Lui è quello che tutti noi non riusciamo a diventare. Diventare giovane com’è lui oggi. Va in tivù. Esce la sera. Protegge il Quirinale. Ed è molto più di un Meridiano. A dispetto delle stagioni trascorse, che sono tante, è una figura di vitalità e tutti i suoi anni non gli affollano il deposito delle tristezze piuttosto il birbante bagaglio di un grande avvenire.

Eugenio Scalfari – è di lui che qui si parla – ha inzeppato tutte le sue stagioni in uno zaino che si porta dietro per tenersi le mani libere con cui acchiappare la bellissima vita fatta e quella tutta ancora da fare.

I monumenti non si sa mai dove metterli ma Scalfari, con quella barba, è il più morbido e il più agile dei monumenti. Non ha mai fatto sport nella sua vita, ha nuotato e basta ed è più in forma di un Giovanni Malagò. E’ elegante senza mai essere di tutto punto. Ha la barba, lui è la sua barba che non gli serve a nascondere il viso ma a sorridere e ridere in forza di un’autorità tutta affinata nel tempo che con quella sua apparenza di alterigia e carisma, pax ieratica e spiritosa saggezza rivelatrice di una qualità speciale. E la notte, lui, dorme come un bimbo.

Altro che il Meridiano. E diciamolo, infine: è il Meridiano ad alzarsi di livello pubblicando Scalfari e se serve ancora ricordare che essere in quel volume non è come avere un busto al Pincio, forse è opportuno sottolineare che certe operazioni editoriali – come la Pléiade, in Francia, con Céline e con Sartre – si fanno coi vivi, non con i morti e quello che c’è dentro il cofanetto di Scalfari è giornalismo, dunque la giornata: la vita.

Non c’è ragazzo che non abbia visto in lui un maestro. Giorgio Caruso, il giovanissimo reporter che raccoglie i suoi appuntamenti video settimanali se ne ritorna ogni volta ubriaco di allegria perché una mezz’ora passata con Scalfari è sempre un corpo a corpo di sentimenti e profondità. Lui – a dispetto di Io e ancora Io – non è un egomaniaco, non è uno che celebra le proprie stanchezze come se fossero vittorie. E non è snob. Lo si capisce da come lo trattano gli altri che è cameratesco, vigoroso e svelto al punto che nessuno si sente in dovere di alzarsi se per caso entra in una stanza mentre gli altri lavorano.

Non è, insomma, come quei direttori di una volta, uno Stille per dire, che quando incrociava qualcuno nei corridoi di via Solferino chiedeva solo per forma – “come va, allo sport?” – per sentirsi dire, “veramente non sono lì, sono alla cronaca”, Scalfari ascolta sempre interessato tutti, si fa spugna e gli importa della vita degli altri e di quella di ognuno che si affaccia al mestiere della giornata che è il giornalismo.

Nella storia della carta stampata dire “mi vuole Scalfari” è come una volta si diceva “mi vuole Strehler”. Peli della sua barba si trovano nella prosa di Vittorio Feltri come in quella di Paolo Mieli perché se c’è stato uno che ha tolto al giornalismo la puzza al naso è proprio Scalfari. E’ lui che ha saputo mettere le cose alte accanto a quelle basse. Lui che è ghiotto della lettura del Foglio, ha inventato stilemi e alfabeti presi a prestito da tutti, compreso da chi, per criticarlo, usa (imita), il suo stesso linguaggio per restituire pane alla focaccia. Tutta una fragranza di preziosa farina a suo tempo forgiata da quelle mani le cui dita, levigate dalla dolcezza del tempo, officiano delle fumate di Muratti degne dell’Olimpo, altro che Meridiani.

Zeus, a questo punto, è un lapsus rivelatore perché Scalfari, in punto di teologia, non è cardinalizio, né sacerdotale, piuttosto (è mia opinione) dovrebbe sbrigarsela direttamente con Dio o con lo scaccino perché forse è solo per marketing che si regala a Vito Mancuso. Passi il cardinale Martini, che era un quasi Papa, ma non si può perdere tempo con Mancuso che è un quasi solamente, un don Quasi. E Scalfari, in punto di teofania, è degno della religio vera che è quella della luminosa paganitas i cui bagliori, accecanti, sono vivi rispetto agli illuminismi e ai teismi di chi pratica la profana pochezza dei cristianismi. Zarathustra, altro che don Quasi.

Il giornalismo non è come molti credono una variante del varietà, ma in fase stanca, un qualcosa cui fare il solletico sotto la pianta dei piedi perché si risolva a ridere. Il giornalismo è la sede della nostra vita sociale a maggior ragione in questi giorni dove la politica è assente, la magistratura è faziosa e la cultura – così asservita al conformismo – è l’ultima delle periferie. Oggi che la tradizione è rotta lo spettacolo può essere divertente solo per gli ignoranti, si seguono i fatti – anche chi li ha creati – e i grandi fatti vanno oltre le speranze e le disperazioni ed è perciò che lo Scalfari ci vuole, altro che solo con un Meridiano, fosse solo per immaginarne la giornata del sabato quando tanti lo cercano al telefono nella speranza di fare – come si dice? – una soave moral suasion a colpi di “basterebbe una tua parola!”.

Non bastano, dunque, tutte le parole stampate sulla pagina delicata del Meridiano per raccontare il romanzo di questo straordinario giornalista che cercando più la festa che il successo, con quel suo impasto di fascismo, antifascismo, fronda e azionismo, con quella sua magia di trasformare gli amici al punto di plasmarli, tanto da far di Raffaele Mattioli un Maurice Chevalier, plana nell’album dei nostri tempi da gran signore. A me, personalmente, a me che nel novantesimo della Marcia su Roma mi vogliono dare l’onorificenza dell’Aquila romana (quella riservata alle Sciarpe Littorie!), durante un’intervista mi ha spiritosamente insegnato la perfezione trigonometrica del saluto romano. Siccome nel suo spiritaccio non c’è l’azzurro fievole e svenevole delle ipocrisie, ma l’allegra severità dell’intelligenza, siccome il riafferrarsi alla vita in lui non è abitudine, luogo comune e comoda rendita ideologica, ma una continua prova d’interesse e desiderio di libertinismo, mi dico: se non la racconto a lui questa storia dolce e grottesca di milizia e federali a chi la racconto visto che tutti hanno lo spavento del paradosso?

Scalfari, lo Scalfari del Meridiano, c’entra sempre su tutto. E’ come un Giulio Andreotti a voler immaginare un suo antagonista nella scena della commedia italiana che forse, è finita, ma che è giusto descrivere (nel loro caso) col ritmo serrato delle terzine di un Dante. E’ stato fondamentale anche nel passaggio dal monopolio Rai alle tivù private, Scalfari. Scrisse l’editoriale dal titolo “E ora libertà d’antenna” e lui che è venuto fuori dalla pagine di Conrad, ricorda – anche se ci litigò non poco – i personaggi di Leonardo Sciascia, quelli macerati dal rovello della parola fatta carne e tumulto. E a proposito di Sciascia con cui incrociò le lame, in Scalfari che c’entra su tutto, c’entra soprattutto il bisogno di far le guerre, di trovare ogni giorno – per dirla col don Ferdinando Russo di Francesco Palmieri, in quel gioiello che è il “Libro napoletano dei morti” – un avversario contro cui combattere. E i grandi, si sa, hanno sempre bisogno di un nemico, tanto più forte quanto più meritato per il paladino che, trovandolo, ingaggia la tenzone.

Poco è un Meridiano, ci vuole un romanzo. Per quel filo di malinconia che non dilaga nella tristezza. Per arrivare a sera, con gli amici, tenendo per mano la propria donna, e disporsi a tavola mentre lui, conoscitore di musica, osserva i convenuti per indovinarne le sensibilità e così decidere l’alchimia del convivio. Fin nella scelta dei brani. Tocca a lui, infatti, decidere sul sottofondo: dalle pagine di Mozart, se è il caso, a quelle di Chopin. All’andante quasi pop di un Satie. Sempre se è il caso. E se la compagnia degli amici – che ne corona il sorriso, più della barba – lo richiede.  Perché la sua è storia di una festa. E chi lo odia ha solo invidia della vita.

  • Pietrangelo Buttafuoco
  • Nato a Catania – originario di Leonforte e di Nissoria – è di Agira. Scrive per il Foglio.