Addio a Eugenio Scalfari
È morto il fondatore di Repubblica, aveva 98 anni. Lui che non ha mai aggiustato la propria biografia, non dimentica niente di sé
Scalfari che non ha mai aggiustato la propria biografia, non dimentica niente di sé, anzi.
Dall’arte delle carte dove lui sa sedere al tavolo impara la fatica del gioco, dunque fa sua la messa in pratica dei trucchi, i calcoli, le finte e infatti fa i gran soldi col giornale che chiama La Repubblica essendo, di suo, convintamente monarchico. Non foss’altro perché lui, di suo, è un monarca.
Eugenio che ha per compagni di gioco Eros, il Destino, Edipo e Thanatos, nulla di nulla cancella della sua smagliante esistenza. Figurarsi rinnegare l’alalà che lo riporta alla sua Giovinezza.
Figlio di un eroe fiumano Scalfari ha quel che ha donato, compresa la spericolata malinconia quando a un certo punto, preso da un pizzicorino all’indice, con la mossa sul grilletto fa cucù sulla tempia. Ma per naufragare subito dopo, in due dita di whiskey, al chiuso di una stanza – nel buio – gettandosi alle spalle tutto e così mettersi tra parentesi e ricominciare. Con Thanatos. E con Edipo. Per il Destino. E per Eros.
Scalfari che è piovuto nel mare grande di Roma dalla grande nuvola della provincia bruzia fa ingresso in società – l’ostrica che lo assorbe e lo fa perla, preziosissima – sperimentando il libertinismo dei bon vivant e l’apertura mentale dei radicali per comandare al meglio.
L’acquolina sua è il potere ed Eugenio che – innamorato del piacere – dà del tu a Machiavelli a ogni travet in transito a Palazzo dice il come e il come altro ancora, per non dire dei tomi che immancabilmente assegna loro, tutti libri giusti da studiare per vincere l’Italia.
Il telefono è la sua cattedra. Scalfari parla e comincia da “Etica e Politica” di don Benedetto Croce, quindi ci mette “Il Mezzogiorno e lo Stato italiano” di Giustino Fortunato e – manco a dirlo – “Il Principe”.
Eugenio che è un marchio – uno stile – è l’incommensurabile egolatra cui tutto si concede. Stringe la mano al capo redattore com’è proprio dei direttori d’orchestra col primo violino quando sale sul podio e così lui alla riunione di redazione quotidiana, per preparare il giornale, senza che nessuno si osi di ridere perché – maschera tragica qual è – solo lui, con Io, ride. E se la ride.
Il nome Eugenio significa “ben nato” doveva essere il nome al supplemento culturale di Repubblica che, invece, naufraga nella banalità di Robinson. Con la codardia tipica degli epigoni, i successori, sottraendosi al riferirsi alla radice prima, l’Io-penso, l’Io-faccio, l’Io-voglio, si sono illusi di sfuggire all’imprinting primigenio imposto da Eugenio, quel “sono Io che vi ho fatti tutti quanti”, tutti quanti incapaci di ridere. E di ridersela.
Scalfari che ha il piedistallo abita la storia nostra e scorge in Indro Montanelli la statua della piazza accanto, quella degli italiani estranei alla sua barba. Il 2 giugno 1977, a Milano, Indro Montanelli esce dal Giornale – il quotidiano nemico del Corriere, nonché avverso a Repubblica – ed è beccato alle gambe con otto colpi di 7,65 sparati dalle Brigate Rosse.
Trafitto nelle carni, Indro che si chiama Cilindro, rischia di morire dissanguato ma s’aggrappa a un’inferriata e così, dritto, rallenta l’emorragia: “Fu la mia educazione di balilla a salvarmi la vita, in quel frangente mi ricordai il primo insegnamento dato ai piccoli italiani, morire in piedi”.
Grande com’è suo solito, Eugenio Scalfari, commissiona una vignetta a Giorgio Forattini. Si fa ritrarre nel momento in cui da solo si spara al piede temendo il dilagare della popolarità di Indro il cui nome – ricordiamolo – deriva da una divinità guerriera d’India.
Ride Scalfari, se la ride, e ancor più sghignazza Indro. Il supremo bluff che consegna Eugenio a una certa idea della storia di tutti è quello della sua magnanima licenziosità – sempre generosa – ben nascosta sotto una spessa coltre di razionalità e giacobinismo. Gli eredi dell’azionismo, i cattolici adulti – la centrale di tutte le etiche maiuscole – non gliel’avrebbero mai perdonata altrimenti.
Ed Eugenio che pure ci ha fatto i gran soldi con lo gnao-gnao dei cicisbei col ditino alzato a tutti questi dà di sé solo la rappresentazione. Perfino la Filosofia porge a tutti loro. Giammai la sua più cocciuta volontà, il voler per sé tutto se stesso.
Altrimenti, come viversi quale inimitabile romanzo?
Altrimenti, come fare il verso al Vate – andare verso la vita – con sotto il braccio “I morti vivono”, il libro scritto da Pietro Scalfari, suo padre?
Come, dunque, cantare – come canta sempre, tra sé e sé, Eugenio – col Trio Lescano, senza più whiskey, sorseggiando al più un bicchiere di Coca Cola, “Maramao perché sei morto?”.
E i morti, infatti, per dirla con Pietro – eroe fiumano, poeta al comando – i morti vivono.
Scrittori del novecento