Il Foglio del Weekend

Rubare la vita di un altro

Michele Masneri

C’è l’assassino che risponde fingendosi la sua vittima e c’è “Inventing Anna”. E poi ancora Mark Caltagirone: fingersi ciò che non siamo è diventata un’arte, a volte drammatica. Tutti figli di Mr.Ripley  

C’è un dettaglio micidiale nella storia (già micidiale di suo) della povera ragazza massacrata dal suo ex compagno e vicino di casa, una storia che interpreta lo spirito dei tempi come poche. Lei, Carol Maltesi, da commessa diventa travet del porno online, sex worker anzi smartworker causa crisi, e lui bancario ma già con identità secondaria di food blogger, e poi anche pornodivo part time pure lui. Già, col Covid non solo gli anziani hanno imparato a usare la app Esselunga, ma tanti si sono buttati su lavori e lavoretti online che favoriscono narrazioni parallele. Come su Onlyfans, dove operavano la povera vittima e il disgraziato carnefice. Una prosecuzione di Instagram con altri mezzi. Lui, Davide Fontana, bancario evidentemente irrequieto, turnista del porno da telefonino e pure food influencer. Giuseppe Pontiggia un tempo raccontava la smania di un bancario che voleva cambiare mestiere, e in “La morte in banca”, metteva in chiaro, esiste qualcosa di più noioso di una banca? Esiste qualcosa che eccita di più la smania di cambiare tutto? Certo, dopo questa storia ogni volta che si andrà allo sportello si terrà in tutt’altra considerazione il placido commesso che sta dall’altra parte.

 

Il Fontana è autobiografia del nostro tempo, un tragico dizionario dei luoghi comuni. C’è tutto, il cibo, l’astrologia, i social. Nel suo profilo  si descrive: “nato a Milano in Aprile, ariete atipico, calmo e razionale ma testardo e determinato a raggiungere gli obiettivi prefissati”. Citazioni: “posso resistere a tutto tranne alle tentazioni”, un classicone, Oscar Wilde. E poi: “Uno non può pensare bene, amare bene, dormire bene, se non ha mangiato bene” (Virginia Woolf), questa abbastanza smentita dai fatti. Lui evidentemente mangiava benissimo e pensava piuttosto male. Ma l’assassino bancario-reo confesso-gourmet è figlio di questo secolo: dunque mentre già aveva ucciso la povera vicina di casa continuava a fare recensioni.

 

 

L’ultima è del 28 febbraio, col suo profilo “uomoallacoque”, al ristorante “Saporè”, in piazza del Duomo a Milano. “Il menù degustazione termina con il ‘mozzamisú’, una vera bomba di gusto e dolcezza rimanendo sempre nel tema dell’esperienza sui lievitati. Un menù degustazione da 23€ a persona che consiglio di fare come esperienza per scoprire diverse consistenze e sapori (per arrivare alla fine serve tanta tanta fame”. Da Zio Ninì, 14 febbraio, “Il mio consiglio è di andare in più persone in modo da poter dividere i piatti e le varie portate sul menù, i primi ad esempio sono maxi porzioni di pasta assolutamente da condividere con i propri commensali (occhio e croce saranno almeno 250 grammi di pasta)”. Il dettaglio suona tremendo non solo per la patina di tragico velleitarismo (i menu da 20 euro, da wannabe influencer, nell’epoca del recensore diffuso, con l’aspirazione di chi vorrebbe andare da Cracco e finisce da “Zio Ninì”). Ben più tragico, il fatto che all’epoca della recensione il Fontana-uomo alla coque aveva già ammazzato e dissezionato la povera ragazza oltre ad aver acquistato (online, si è detto che è una storia di questi tempi) tutto il necessario per far sparire il corpo della disgraziata: seghe e martelli, su Amazon un freezer per conservarlo. E anche, su AirBnb, in affitto una casa dotata di barbecue, per bruciarlo (chissà se avrà lasciato una recensione, e quante stelle).

 

Ma nell’allucinante storia c’è anche il fatto che a lungo ha risposto al telefono della ragazza fingendosi lei. “Per oltre due mesi — scrive il gip — escogitava, preparava e attuava una complessa strategia per occultare l’orrendo delitto commesso, compiendo ogni azione possibile per simulare l’esistenza di Carol in vita”. Approfittando del fatto che nessuno ormai telefona più, ma passiamo le nostre vite messaggiandoci, Fontana tra una recensione e l’altra ha potuto conversare via WhatsApp e messaggi con una serie di persone anche intimissime della poveretta, che non se ne sono accorte. Mentre il corpo era già buttato in una scarpata, lui parlava col padre di lei. “Un mostro, quell’uomo è un mostro...”, ha detto lui al Corriere. “In queste settimane io scrivevo a mia figlia e lui mi rispondeva facendo finta di essere la mia Carol. Credevo che lei stesse bene invece l’aveva già ammazzata, ci siamo mandati messaggi anche per il mio compleanno, ma ora ho scoperto che era lui a farmi gli auguri, non mia figlia”. Da quanto tempo non la sentiva, gli chiedono. “Ecco, io in verità credevo di sentirla sempre. La chiamavo, ma trovavo spento, allora le scrivevo e lei mi rispondeva. Almeno, credevo fosse lei ma ora ho scoperto che era il suo assassino. Dicono che l’abbia uccisa a gennaio, ma io anche dopo ho continuato a scriverle, ci siamo sentiti per il compleanno, o meglio io avrei voluto sentirla perché gli auguri ce li facevamo sempre a voce, ma ho trovato spento così ci siamo scritti, o meglio mi sono scritto con il suo assassino”. Qualcosa lo aveva insospettito: “mi scriveva solo dopo uno-due giorni. E poi, mi ero accorto che spesso mi mandava dei messaggi copia-incolla con i precedenti e questo non era da lei. Allora le ho chiesto il perché e lei, anzi il suo assassino, mi ha risposto di essere a Dubai. Invece era già in cielo”. Alla fine l’assassino è stato messo in crisi da un giornalista che cominciando a sospettare ha chiesto un messaggio vocale per sentire la voce di lei. A quel punto Fontana era perduto.

 

Il caso ricorda il  progenitore di tutti gli impersonatori, quel Mr. Ripley nato dalla fantasia di Patricia Highsmith nel 1955 che talmente ha colpito la fantasia da aver generato un indotto di sequel romanzeschi -  “Il sepolto vivo”, “L’amico americano”, “Il ragazzo di Tom Ripley” e “Ripley sott’acqua” – e cinematografici: l’ultimo derivato è l’immancabile serie televisiva, che si sta girando a Venezia in questi giorni, con protagonista Andrew Scott, già star di “Sherlock” e “Fleabag”, e Dakota Jonhnson che fa la fidanzata, per la regia di Steven Zaillian. Ma già aveva generato il capolavoro di Anthony Minghella del 1999. E prima ancora  “Delitto in pieno sole” del 1960 con Alain Delon a interpretare l’inquietante bravo ragazzo che decide di prendersi il suo migliore amico, ucciderlo e impersonarlo. Poi “L’amico americano” del 1977 di Wim Wenders, e infine “Il gioco di Ripley” di Liliana Cavani del 2002 con John Malkovich a interpretarlo. Ripley è il più grande “con man”, e “impersonator” della storia, è il borghese piccolo piccolo che uccide il suo idolo, il ricco ereditiero Dickie Greenleaf, che se la sta spassando in costiera amalfitana, prima fingendosi suo amico e ottenendo dal padre magnate l’incarico di andarlo a riprendere, poi prendendo direttamente il suo posto e, anche lì, scrivendo lettere e riscuotendo assegni al suo posto. Forse Mr. Ripley è entrato talmente tanto nell’immaginario perché era un personaggio del futuro: lui aveva a disposizione solo lettere, cartoline, telegrammi, ma in realtà già postava, si instagrammava, si rappresentava in un modo, vivendo in un altro, ciò che in qualche misura facciamo tutti oggi sui social.


Se nella rappresentazione cinematografica più di successo, quella di Minghella, Ripley è il bonazzo Matt Damon, nell’originale era una faccia come un’altra. “Il viso più spento del mondo, un viso completamente dimenticabile con uno sguardo di docilità che non riusciva a capire... Un viso da vero conformista”.   Una faccia né bella né brutta è anche quella di Anna Sorokin o, nome d’arte, Anna Delvey, protagonista prima delle cronache mondane, poi giudiziarie, poi televisive grazie alla serie Netflix di massimo successo “Inventing Anna” realizzata da Shonda Rhimes. Basata sulla ricostruzione quasi letterale delle avventure di una scombinata ragazza russa che si finge ricchissima ereditiera tedesca, ingannando tutti. Il caso è completamente vero ed è la fedele riproposizione dell’inchiesta del “New York Magazine” che si mise sulle tracce di quella ragazzina che aveva un sogno, conquistare New York con un business model peraltro sensatissimo: aprire una specie di Soho House però più esclusiva e collegata all’unico trampolino delle scalate sociali odierne, la pietra filosofale che può trasformare arricchiti in élite: l’arte contemporanea. 

 

Fregando tutti e non pagando nessuno. Anna Sorokin rivela le debolezze delle élite capitalistiche di oggi. Anna Sorokin mette in luce come la crisi dei mutui del 2007 il disturbo della personalità del capitalismo: Anna Sorokin era palesemente una sòla, ma piaceva a tutti pensare che non lo fosse. Anna Sorokin è un mutuo subprime aggiornato all’epoca del personal branding. Nessuno oggi infatti ha più tempo per impacchettare obbligazioni complicate in prodotti finanziari tossici. Il prodotto tossico da vendere sei tu. 

 

Vera truffatrice o vera psicopatica? La serie gioca molto su quest’ambiguità, con un’epigrafe: “Tutta questa storia è completamente vera. Tranne che per le parti assolutamente inventate”, che ricalca il flaianesco “tutti i nomi sono fittizi, tranne quelli inventati che sono rigorosamente veri”. La famiglia della truffatrice-psicopatica, come spesso succede, non ha colpe peculiari, è una normale famiglia, colpevole forse d’esser povera, e lei non ha subito particolari vessazioni. Semplicemente non le andava di essere povera e russa e non miliardaria e tedesca. Oggi Anna Sorokin è stata estradata, Anna Sorokin comunque ce l’ha fatta. “Quando in un’intervista alla Bbc mi hanno chiesto se il crimine paga ho risposto di sì. Non potevo dire di no. Io sono stata pagata da Netflix”, dice lei, chissà se è vero, “320 mila dollari”, che andranno a ripagare i debiti lasciati in giro. Ma soprattutto voleva essere famosa, e lo è di certo:  tutto della sua storia è diventato già culto, l’hotel dove alloggiava senza pagare i conti, l’11 Howard, e la sua faccia per prima, la sua faccia che, ha deciso, dal carcere,  diventerà un Nft, cioè l’ultima frontiera della sòla digitale. Dalla fondazione per l’arte a diventare arte lei stessa, il passo è breve.

 

 

Una storia che poteva accadere solo a New York, si dice: forse perché lì girano troppi soldi e c’è troppo poco tempo per controllare (e però, in versione siliconvallica, un’altra grande sòla è Elizabeth Holmes, che truffò i maggiori investitori con un finto sistema di analisi del sangue, Theranos, poi rivelatosi fasullo).  A New York compì la sua performance anche il leggendario Alessandro Proto, il finto immobiliarista lombardo che disse di fare affari con Donald Trump, che quasi comprò La7 e il Torino calcio, che si candidò alla presidenza di Unicredit e tentò di scalare Rcs e Fiat. Era diventato l’immobiliarista delle star di Hollywood in Italia; tra i suoi clienti c’erano sono George Clooney e Leonardo di Caprio. La sua vita ha ispirato il personaggio di Christian Grey, l’imprenditore erotomane protagonista di “Cinquanta sfumature di grigio”. Tutto finto. Non era vero niente: e avrebbe continuato all’infinito se non avesse deciso inopinatamente di scendere in campo con la politica, candidandosi nel 2012 con il Pdl: lì qualcuno si insospettì e finalmente lo arrestarono (a volte la politica è provvidenziale).
  

A parte questo caso clamoroso, in Italia, forse perché girano pochi capitali, ci sono storie generalmente minori: ogni estate c’è il finto sceicco che si fa una settimana a Capri e non paga, a Milano qualche finta ereditiera che scrocca durante la fashion week, ma niente di così sistematico. Forse, così abituati alle sòle, siamo più guardinghi. O, comunque, si scade sempre in Totòtruffa. E in vari Madoff “dei Parioli”, o in Sordi edicolante che si finge nobile al Miramonti di Cortina ma finisce fidanzato con la cameriera. Di solito non va a finire malissimo. Sono più clamorose le truffe amorose, forse perché il sentimento è il nostro core business, in mancanza di liquidità: ecco allora la storia di Mark Caltagirone, finto spasimante dal cognome liquido che tenne col fiato sospeso (ma rilanciò anche programmi e intrattenitrici in crisi) a partire dal 2019. Era il 31 marzo quando Pamela Prati apparve nel programma di Mara Venier, dove raccontò della sua nuova relazione, prossima al matrimonio. Poi sono sopraggiunte le crisi: Barbara d’Urso si è occupata a lungo della vicenda che, dopo un po’, si è rivelata essere completamente falsa: Mark Caltagirone non esiste. Seguono denunce, controdenunce, altri scandali (e tirature, e fatturati, e rilancio di carriere decotte). Chissà come finirà l’intrigante faccenda.

 

Ma quand’è, ci si chiede, che siamo diventati così accomodanti (o fragili) con le panzane? Forse l’inizio del secolo in cui abbiamo cominciato a credere a tutto è il 22 gennaio 2017, quando la consigliera del Trump appena eletto, Kellyanne Conway, di fronte alla stampa che li accusava di aver gonfiato a dismisura i numeri dell’affluenza alla cerimonia di inaugurazione presidenziale, disse che i numeri inventati non erano bugie ma “alternative facts”. Poi ci sono le vite alternative: i social hanno moltiplicato i “canali” su cui ognuno mostra solo un lato di noi, quindi possiamo vivere tantissime esistenze parallele, potenzialmente infinite.  “Adesso sei fritto, non alla coque”, scrive un follower sotto il profilo di Fontana, bancario, pornodivo e, nel tempo libero, assassino. Tutti hanno un talento, dice Dickie Greenleaf a Mr. Ripley: qual è il tuo? “Be’, sono tanti: imitare praticamente chiunque, falsificare una firma, dire bugie”. Quell’altro, giustamente inquietato, risponde, forse ormai rassegnato al peggio: “nessuno dovrebbe avere più di un talento”.  

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  • Michele Masneri
  • Michele Masneri (1974) è nato a Brescia e vive prevalentemente a Roma. Scrive di cultura, design e altro sul Foglio. I suoi ultimi libri sono “Steve Jobs non abita più qui”, una raccolta di reportage dalla Silicon Valley e dalla California nell’èra Trump (Adelphi, 2020) e il saggio-biografia “Stile Alberto”, attorno alla figura di Alberto Arbasino, per Quodlibet (2021).