Pamela Prati

I fantasmi del trash

Andrea Minuz

Liala riscritta con le fake news. Pamela Prati e l’inesistente Caltagirone, una storia che ha inghiottito e risputato il peggio della tv di questi anni

La trama di fondo è quella dei romanzi di Liala riscritti nell’epoca della post-verità, dei troll russi e delle fake news. Una ex soubrette di successo, sempre sfortunata con gli uomini, vive ormai lontano dai riflettori e non crede più al grande amore finché un giorno il destino le fa incontrare Marco Caltagirone, detto “Mark”, stimato “imprenditore di successo”. I due si innamorano perdutamente, decidono si sposarsi, prenderanno due bambini in affido e andranno a vivere all’estero “tra la Costa Azzurra e l’America”, ma quando tutto sembra perfetto una tragica notizia spezza per sempre la promessa di una nuova felicità: Mark non esiste. Mark non è mai esistito.

 

Un fantasy molto italiano. La vicenda delle presunte nozze si è gonfiata a dismisura, divorando per mesi programmi e rotocalchi

Si dischiude così un mondo di oscure agenzie di spettacolo, feroci influencer, ex tronisti, ricatti, invidie, tatuaggi dell’amore dedicati a un fantasma e sfrenato sexting con mariti e fidanzati inesistenti. Ma quanta Liala già in questo formidabile nome de plume: “Mark Caltagirone”; da non confondere, si capisce, con l’omonima saga immobiliare (fu precisato subito per evitare querele), quindi capace di scatenare ancora di più la fantasia, come una rivisitazione in salsa imprenditoriale di tutti gli aviatori e ufficiali e piloti di motoscafi e “brillanti cardiologi e stimati endocrinologi” che in quei romanzi si chiamavano Nelson Graziani, Renato Iori, Adolfo Brea, Vik Gildas, fantasmi anche loro, ma del rango della letteratura. Sembrano in effetti uscite dalle pagine di “Passione lontana” o “Un altare per il mio sogno”, le prime notizie sul bel Mark, “affarista conosciuto in tutta Roma e con imprese in giro per il mondo”: “Cinquantatré anni e un cognome importante, Marco Caltagirone è nato nella capitale e quando aveva solamente vent’anni si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha conseguito la laurea e iniziato a fare carriera; la svolta però è arrivata con l’apertura di cantieri in Corsica e in Cina, dove ha realizzato ospedali e centri commerciali e soprattutto con la costruzione di alcuni oleodotti in Libia”; tocco esotico e coloniale che tanto piaceva alle sartine lettrici di Liala: la trasvolata in America, le imprese d’Africa, Tripoli bel suol d’amore, di mille cuori ardenti di passion!

 

  

Nella sua dilatazione mostruosa, via via sempre più improbabile, la vicenda “Mark Caltagirone” ha ormai inghiottito e risputato tutte le idee televisive di questi anni in una specie di condensato del trash: c’è il filone del plagio psicologico à la Michelle Hunziker, c’è la linea “Mi manda Lubrano” delle truffe telefoniche, dei debiti del bingo e dei profili fake; c’è il “Lessico amoroso” di Recalcati con la versione burina del “fantasma feticistico del desiderio”, il doppio o triplo gioco lesbo, la trama “minacce con l’acido” (ricevute su Instagram) in quota Jessica Notaro, il pentimento di “C’è posta per te”, l’invidia di “Uomini e donne”, i bimbi in affido, un po’ di fiction “crime” (la pista ’Ndrangheta del “clan dei Perricciolo”) e “l’antimafia minorile”, qualsiasi cosa possa voler dire. La storia delle inesistenti nozze di Pamela Prati con l’inesistente Mark Caltagirone sembrava destinata a esaurirsi dopo poche settimane, come una roba da archiviare tra le bizzarrie della cronaca rosa da saldi di fine stagione. Si è invece gonfiata a dismisura, divorando programmi e rotocalchi per mesi e mesi con un colpo di scena dietro l’altro, fino all’epilogo di questa settimana, tecnicamente un “plot twist” o se preferite un finale col botto, che ha tutta l’aria di essere un rilancio per una seconda stagione: “Game of Caltagirone”, come sfrenata replica dei bassifondi della televisione popolare al rito collettivo di “Game of Thrones”. E’ un fantasy molto italiano, psicodrammatico, ferocemente familista, costruito pezzo dopo pezzo con gli avanzi del gossip; un Frankenstein televisivo che ha preso vita nel laboratorio di Maria De Filippi prima e Barbara D’Urso poi, che ha aggredito come un virus tutto il sistema dei rotocalchi, inanellando fantasmi, plagi, ricatti, persino il coinvolgimento di una deputata calabrese di Fratelli d’Italia (Wanda Ferro), sempre sullo sfondo della “Mark Caltagirone Holding”, società che avrebbe eseguito lavori e progetti faraonici in tutto il mondo, ma di cui si è riusciti a trovare solo il bozzetto della scala di un appartamentino.

 

Il tatuaggio come “significante” e “traccia”, prova ultima e suprema dell’esistenza di mariti e fidanzati, visto che tutto il resto si cancella

Difficile fare ordine nel groviglio di una storia più oscura e squinternata di un film di David Lynch visto al contrario, col nome “Caltagirone” che nel frattempo migra dagli imperi immobiliari verso il pantheon dei grandi personaggi fantasmatici del cinema, come il diabolico Keyser Söze dei “Soliti sospetti” o il Brad Pitt/Tyler Durden di “Fight Club”. Una storia che però andrebbe anzitutto letta come esperimento sociale in cui si ridisegnano i confini delle fake news, lasciandoci intravedere i contorni di un mondo di pseudo-eventi sempre più inafferrabili e ingovernabili, un mondo in cui il fact-checking lo fa Dagospia (come peraltro nell’affaire Elena Ferrante, fantasma upper class svelato anch’esso dal sito di D’Agostino). Mesi di dibattiti e inchieste e risse tra opinionisti sulle prove dell’esistenza di “Mark” che fu messa in dubbio sin da subito (“Mark Caltagirone non esiste è tutta una copertura, qui a Roma lo sanno tutti”). Discussioni estenuanti sulle sue reliquie televisive: una foto in penombra, una storia su Instagram, un like, una chat, un braccialetto donato a Pamela Prati, poi le comparazioni vocaliche tra messaggi audio, poi l’infarto di Mark a pochi giorni dalle nozze, fino al dramma del tatuaggio col suo nome; “è sul costato, me l’ha fatto vedere Pamela”, rivelava a “Mattino Cinque” l’“influencer” Federica Benincà. Si scopre quindi che non esiste neanche “Simone Coppi”, marito di Eliana Michelazzo, amica “più intima”, nonché agente di Pamela Prati, nonché socia, sodale e forse compagna dell’altra agente, Pamela Perricciolo. Ex corteggiatrice di “Uomini e donne”, ex ricostruttrice di unghie, oggi “manager”, Eliana Michelazzo illustrava in tv i dettagli e i cavilli del matrimonio della soubrette, il contratto con la wedding planner, la lista degli invitati, i tulipani in arrivo da Amsterdam, spiegando che le nozze si sarebbero svolte in chiesa e le avrebbe celebrate “un cardinale” con diretta esclusiva su Mediaset. Anche lei, la Michelazzo, col nome del marito fantasma tatuato (“Simone fa un lavoro di responsabilità, preferisce non apparire sui giornali, ma per zittire la gente mi sono tatuata il suo nome sul braccio, questa è la prova che il nostro amore è pulito”). Viene da pensare più a una setta che a una truffa e ci si interroga sul tatuaggio come “significante” e “traccia”, prova ultima e suprema dell’esistenza di mariti e fidanzati, visto che tutto il resto ormai si cancella o sparisce, come le storie di Instagram. Mark Caltagirone, Simone Coppi e il “cugino” Danny Coppi (quanta Liala!) diventano l’apice di una miriade di fidanzati e promessi sposi e profili fake venuti a galla uno dopo l’altro, come un esercito di zombie televisivi. Partono da qui le “scottanti rivelazioni” di Eliana che si presenta da Barbara D’Urso col vestito bianco del pentimento e della confessione, il Tommaso Buscetta di questa faida tra mariti fantasma. “Eliana è crollata alle cinque del mattino e ha raccontato tutto davanti alle telecamere”, perché, come spiegava la conduttrice, “qui non stiamo parlando di gossip, stiamo parlando di una roba brutta”. La “roba brutta” è un fiume in piena di nonsense e rivelazioni scomposte e orribili dubbi sull’essere e il nulla e formidabili scambi à la Age & Scarpelli (“è sempre lo stesso modus operandis”; “è tutta una situazione kaftana”, spiegano gli analisti, Eva Henger, Giovanni Ciacci e la testimone, Georgette Polizzi). Dopo aver ammesso che “Mark Caltagirone non esiste” o “probabilmente non esiste”, l’ex corteggiatrice “confessa” di aver avuto per dieci anni un fidanzato, anzi un “marito” fantasma (Simone Coppi); dice di averlo visto forse una volta a Fontana di Trevi (“mi ha guardata e se n’è andato”), forse un’altra ancora in motocicletta in cui le avrebbe addirittura “sorriso”; in mezzo, fiumi di parole e sogni e progetti per il futuro fatti insieme su Messenger, Facebook, WhatsApp, ripercorrendo quindi tutti i salti di piattaforma del dating e del sexting. “Mi scriveva cose bellissime, mi diceva che ci saremmo sposati presto e io a un certo punto mi sono sentita sposata”. Vacanze finte nelle spa più burine con l’aperiterme, tragiche foto ricordo di viaggetti a Capri spacciando la guida turistica per suo marito, quel marito che “prima o poi sarebbe venuto per portarmi via, perché per me eravamo come una famiglia, una famiglia social”.

 

“Voglio andare al Grande Fratello”. Quello che una volta era il centro nevralgico del degrado morale, oggi è un luogo di riparo

Ecco l’incantesimo, ecco l’inganno del maschio bianco delle élite (“Simone è magistrato”) che sfrutta il cuore semplice delle estetiste di periferia e le lascia nell’abisso della solitudine e “cosa ne farò di quelle frasi scritte sul telefono”, come cantava giustamente Anna Tatangelo. Si snocciola tutta un’architettura di fotografie e testi allestiti per dare corpo a esistenze fantasmatiche, come nei lavori di Sophie Call; c’è il clamoroso sdoganamento del sexting che mai vedremo sulla Rai (“quindi hai fatto l’amore per dieci anni solo virtualmente, senza mai tradirlo?”), dieci anni di sexting, neanche in una performance di Marina Abramovic; si sfodera il meglio del lessico familistico (“quando sento una situazione di amore, di bambini, di matrimonio, io ci credo”) ma ci si smarrisce dentro dettagli impazziti, evidentemente sfuggiti di mano agli autori travolti dall’eccesso di materiale (“il bambino adottivo di Mark aveva uno spiccato accento romano però è un tifoso della Lazio e italo-spagnolo, non c’era qualcosa che non ti tornava?” messo giù col tono di chi ha capito l’inghippo).

  

Espulsa dalla letteratura e dal cinema, la costruzione di trame improbabili e ricche di colpi di scena ritorna furiosamente nel trash televisivo, ormai trapassato alla sua fase più agonizzante, esoterica, “kaftana”: quella della produzione di fantasmi (la televisione non imita la vita imita la televisione, se la televisione inizia a scomparire restano solo i fantasmi). Ma la tv di Barbara D’Urso ha anche slanci pedagogici, perché, spiega, “Eliana ha capito che suo marito non esiste a furia di venire qui”, altro che il “Lessico amoroso” di Recalcati e le aporie del desiderio: “Ci sono tante donne che sono fidanzate con persone che non esistono”. Così, con suprema, inarrivabile perfidia si fa largo la voragine dell’identificazione collettiva: quanti Mark e Simone ci hanno illuso, quanti hanno promesso di venirci a prendere, ci hanno guardato e poi sono andati via. “Ho tante amiche che sono convinte di avere un fidanzato solo perché ci parlano su Facebook”, prosegue la D’Urso, parlando ormai non più di Eliana o di Pamela e neanche delle amiche ma di noi tutti, perché “ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”. All’apice del teatro dell’assurdo, al culmine della farneticazione trash e dello sputtanamento collettivo, si risale alla spirale originaria, allo scheletro di tutte le Bovary; come dice Alfonso Signorini: “Anch’io sono stato Pamela Prati!”, #jesuispamelaprati.

 

C’è il clamoroso sdoganamento del sexting: “Quindi hai fatto l’amore per dieci anni solo virtualmente, senza mai tradirlo?”

“Adesso ho paura, voglio andare all’estero, in convento o al Grande Fratello”, ha confessato Eliana Michelazzo. Quello che fino a un paio di generazioni fa era il centro nevralgico del degrado morale, all’epoca indicato da tutti come il punto più basso mai raggiunto dalla televisione è oggi un luogo di riparo, un “ambiente sicuro”, un’oasi di pace e relax. Si va al “Grande Fratello” come una volta si andava in India (lo disse anche Lory Del Santo, “vado al GF per ritrovare me stessa e superare il dolore per la perdita di mio figlio”). C’è poco da fare delle ironie. Dietro l’iperbole farneticante del “cura televisiva dello spirito”, dietro il paradosso di una visibilità terapeutica, si intravede pur sempre il senso di un passaggio epocale: di qua, la drammaturgia televisiva, la sicurezza di essere comunque e ancora dentro i suoi corpi intermedi, vale a dire un programma, uno script, una produzione, un controllo più o meno concordato della propria immagine; di là la ferocia incontrollabile, ingestibile e ingovernabile dei social media, degli haters e dei profili fake.