L'inutile cornice

“Inventing Anna” è la serie del momento, peccato per quella coprotagonista fuori posto

Mariarosa Mancuso

La materia raccontata nella serie Netflix poteva reggere benissimo da sola: senza il bisogno degli occhi sgranati, la delusione e le facce della classica reporter vecchio stile

Guilty pleasure. Di prima categoria. Era tanto che una serie non risucchiava gli spettatori. Non tanto per sapere come va a finire (c’è stato un processo e relativa condanna, i lettori del Foglio e della Review sanno quasi tutto di Anna Delvey, nata Sorokin) ma per godersi case lussuose, yacht, vestiti e arte della truffa. Qualche mostra d’arte, sullo sfondo, e un po’ di architetti: la misteriosa ereditiera arrivata a New York dall’Europa voleva una fondazione modestamente intitolata a se stessa. Al prestigioso indirizzo di Park Avenue: uno spazio per l’arte, camere d’albergo con servizio di maggiordomo, quei due o tre ristoranti senza i quali un polo d’attrazione per il bel mondo non può dirsi tale. 

“Inventing Anna” racconta una grande truffatrice, capace di intrappolare nella sua rete la meglio società di New York, e la più ricca (resta sempre il sospetto che molti non abbiano denunciato gli ammanchi per difendere almeno l’onore). 25 anni, e un talento per l’inganno smascherato perché la cenerentola giocava continuamente al rialzo – se non paghi gli alberghi a cinque stelle dove alloggi per un mese prima o poi le voci corrono. Per ottenere soldi fingeva di averne moltissimi, in un fondo fiduciario che il ricco genitore aveva vincolato fino al compimento dei 26 anni. 

Materia preziosa per una serie, e per Shonda Rhimes che nel 2017 aveva lasciato la Abc – dove si era distinta con “Grey’s Anatomy” e “Scandal” – per firmare un sostanzioso contratto con Netflix (dopo il successo di “Bridgerton” e “Inventing Anna” il patto è stato rinnovato, si suppone a fronte di altri zeri). Materia che poteva reggere benissimo da sola, senza bisogno di inventare per Anna una coprotagonista. Fin dal primo episodio – paradossalmente il più lento, tra il carcere di Rikers Island e la parte della redazione chiamata Scriberia dove sono confinati i giornalisti d’inchiesta vecchio stile – Anna Delvey viene affiancata (meglio sarebbe dire “tampinata”) da una reporter che nella serie Netflix si chiama Vivian Kent. Nella realtà, Jessica Pressler: in un articolo uscito sul New York Magazine raccontò le gesta delle truffatrice, allora sotto processo. Vivian occupa la scena anche negli episodi successivi, mentre speravamo che fosse soltanto una cornice per la storia di Anna, e fa le facce.

E’ il dramma dei piani d’ascolto. Quando il regista non inquadra chi parla, ma chi ascolta (per esempio, in certe interviste televisive montate malissimo: un primo piano di chi ha fatto la domanda serve a camuffare i tagli, e a soddisfare la vanità del giornalista che non vuole sparire nel nulla). Vivian ascolta le parole di Anna – e poi degli altri intervistati, più o meno loquaci– e fa le facce: sgrana gli occhi, aggrotta la fronte. Mostra la rabbia, la delusione, e un po’ di rivalsa sociale, quando Anna le dice “ti vesti da poveraccia”, e chiede in regalo mutande firmate, fuori budget per una giornalista non al massimo della carriera.

Le porterà invece il vestito bianco virginale da indossare sul banco degli imputati per suggerire innocenza. Una come Vivian – l’attrice è Anna Chlumsky, malissimo diretta – sarebbe esagerata ovunque, tranne che in una pagina del manuale “giornalisti al cinema, cose da evitare”). In “Inventing Anna”, oltre a rubare spazio che sarebbe spettato alla grande truffatrice – davvero la mitica Shonda, che ha reinventato Jane Austen come una soap multietnica, pensa che a noi spettatori interessi qualcun altro oltre a Anna? – deve vedersela con un’attrice sublime come Julia Garner. Una che sembra non muovere un muscolo, ed è tanto brava che non riusciamo a staccarle gli occhi di dosso.

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