Jeremy Corbyn (foto LaPresse)

L'estate di Corbyn e di Johnson

Paola Peduzzi

Mesi fatti di corse, canzonette e promesse. Qui si conta sui dettagli

Jeremy Corbyn ha passato un’estate perfetta, lontano da Westminster e in mezzo alla gente, come piace a lui: code per entrare ai suoi eventi, cambi di sala per trovare sedie a tutto il pubblico, discorsi a braccio, ironia, vivacità, il leader e il suo popolo, sintonia assoluta. I giornali erano pieni di analisi e retroscena sulla questione antisemitismo che-sta-facendo-esplodere il Labour britannico, e Corbyn si godeva applausi e canzonette, si rabbuiava soltanto quando era costretto a rilasciare qualche dichiarazione ai giornalisti: lì il leader laburista si mostrava nervoso e infastidito, mi chiedete dell’antisemitismo che interessa soltanto a voi commentatori, ma venite a vedere quando parlo al mio popolo com’è l’atmosfera, altro che critiche, la gente mi ama. Se c’è una rappresentazione possibile del distacco tra Westminster e il resto del paese è proprio il tifo per Corbyn che annulla ogni ambiguità, ogni sbavatura, ogni insolenza ideologica di questo Labour così antico, e si lascia convincere e trascinare da promesse spesso contraddittorie, ma i dettagli non sono materia buona per i leader della strada.

 

I dettagli sono roba da palazzo, numeri e numeretti che se non quadrano è un guaio: al ministero della Brexit, per dire, in un paio d’anni s’è dimessa circa la metà dei funzionari. Troppi dettagli che non tornano, e i tifosi che spingono di qui e di là i grafici, gli istogrammi, gli spicchi delle torte, sperando di ottenere la formula magica da rivendere presto e bene, ché il tempo corre e ancora non si è capito che cosa ne sarà di questo Regno impantanato sulla strada del divorzio. Corbyn è impegnato a costruire il corbynismo, non si cura di molto altro, lascia che il governo vada a sbattere per conto suo e si presenterà, come quegli ospiti che arrivano in ritardo e si sono scordati di portare il gelato, con il suo borsello da salvatore, promettendo di rimettere insieme pezzi che non sa nemmeno dove sono finiti. E quanto corre il governo verso il muro, con questa brama di schiantarsi che i Tory avevano cercato di curare e che ora invece ha di nuovo preso il sopravvento. Per celebrare il rientro, l’inizio dei lavori parlamentari, Boris Johnson ha schiacciato l’acceleratore forte, pare di vederlo mentre graffia l’auto e non ci bada, anzi si diverte: l’ex ministro degli Esteri ha pubblicato un articolo in cui dice che il governo di cui ha fatto parte fino a qualche settimana fa si è arreso all’Europa, si è arreso alle insistenze straniere che dicono che questa Brexit non s’ha da fare, non vuole più combattere, lasciamo che la separazione sia blanda, e scordiamoci tutto questo litigare. Johnson accusa la sua ex datrice di lavoro, la premier Theresa May, di capitolazione: il piano dei Chequers, al quale anche Johnson aveva brindato assieme ai colleghi salvo poi rigettarlo dimettendosi, è una resa. “Stand up 4 Britain” è già un gruppo, un hashtag, una minirivoluzione contro la May, e nessuno bada al fatto che pure a Bruxelles il piano dei Chequers non piace perché è considerato troppo duro – così ha detto il caponegoziatore europeo Michel Barnier – perché quando si corre veloci e indemoniati ogni dettaglio è un ostacolo. Per Johnson persino la questione nordirlandese è tutta un bluff, un modo per ammorbidirsi, un alibi europeista. Non offre alternative naturalmente, Johnson, non fa una proposta concreta, dice soltanto che il governo si arrende e lui prende la guida dell’esercito brexitaro, ci si conterà e si vedrà chi è il più forte. Anche Boris si vuole presentare come il salvatore biondo alla fine della corsa, proprio come Corbyn, due fronti tecnicamente opposti che si ritrovano vicini, un’ammucchiata sovranista in cui si vive di slogan e di promesse e di applausi e di risate sguaiate. Chi resta fuori inizia a sperare nella vendetta del dettaglio, nella sua rivincita, il momento in cui i numeri o tornano o non tornano, tenetevi gli slogan e diteci da che parte si va per non morire isolati. Ci presentiamo con il gelato, promesso.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi