Jukebox (foto di N. Camps via Flickr)

Due canzoni di Natale che fanno piangere, per come eravamo e per come oggi siamo diventati

Paola Peduzzi

Le cose non possono che andare meglio, se siamo capaci di guardarle bene, e questo significa che io e anche tu possiamo stare meglio, insegnamelo, ripetimelo che le cose non possono che andare meglio, partiamo da qui e andiamo, le cose non potranno che migliorare, lo so io, lo sai tu. “Things can only get better” è la canzone del Labour di Tony Blair – cioè, la canzone è dei D:Ream, ma nel 1997 fu utilizzata dal New Labour come canzone elettorale e da allora è il simbolo della rivoluzione blairiana, dell’ottimismo anni Novanta, della possibilità di riformare un partito, un paese, da sinistra: è una canzone antica, insomma, che se l’ascolti oggi rischi di morire di nostalgia.

 



 

Prima del voto di quell’anno, il Labour girò un video elettorale in cui un sacco di inglesi giovani e meno giovani si univano per strada, con la loro scheda elettorale nelle mani e nelle tasche, e qualcuno la perdeva e la inseguiva, e tutti andavano felici a votare. Fiori, palloncini, persone vestite bene, sorrisi, una festa pazzesca, e intanto il ritornello, le cose non possono che andare meglio, e alla fine un Tony Blair così giovane che non ci credi che sia stato anche lui così giovane, con il sorriso rassicurante e la scritta: “Do it”, fallo. Al karaoke di Natale organizzato da una sessantina di parlamentari del Labour la scorsa settimana, c’è stata una ribellione sulle note di “Things can only get better”. Si cantavano le canzoni della tradizione di sinistra, le Bella ciao degli inglesi, e poi all’improvviso è partita la canzone incriminata, molti parlamentari la conoscevano bene, hanno iniziato sicuri, “impara a parlare come me e sii anche tu un angelo”, mentre altri hanno intonato un altro coro, “Vogliamo Tony, vogliamo Tony”, e i corbiniani, legati alla nuova leadership di Jeremy Corbyn che Blair lo vorrebbe in galera, si azzittivano furiosi. Un gruppo dei ribelli pro Blair ha postato la proprio foto con dei sorrisi felicissimi, mentre il parlamentare Mike Gapes intonava un’altra canzone, “Back in The Urss”, dichiarando: “Dedico questa canzone alla caduta dell’Unione sovietica. Non è mai sembrata così esotica”.

 



 

Gapes aveva accusato pubblicamente Corbyn e i colleghi pro Putin di essere stati complici dei bombardamenti in Siria ad Aleppo contro gli obiettivi civili, assieme ai russi e agli assadisti. Jeremy Corbyn ha lasciato la festa, se n’è andato arrabbiatissimo, mentre i laburisti rivoltosi continuavano a ripetere che Corbyn dovrebbe fare come il francese Hollande, dichiarare il fallimento e levarsi di torno, e mentre a Londra l’ineffabile sindaco laburista Sadiq Khan nominava Lord Mandelson, il principe delle tenebre, architetto del blairismo, all’interno di una commissione che darà consigli su come gestire la Brexit facendo gli interessi della capitale britannica. Si canta e si piange, in questo Natale che arriva dopo un anno in cui sono cadute città bellissime e molte certezze. Si ricorda il passato che sembrava così gioioso, e il presente sembra ancora più inaccettabile per via dei nostri colpevoli silenzi.

  



 

Ieri Politico Europe raccontava la storia di una canzone “che ogni arabo rifugiato nel mondo conosce”: si intitola “Safarna Ala Europa”, che significa il nostro viaggio verso l’Europa, ed è stata scritta da Nidal Karam, un rifugiato siriano che ora vive in Olanda. “Abbiamo sofferto così tanto – dice – nel nostro viaggio in Europa, siamo entrati in molti paesi, non li posso contare tutti, da un treno all’altro, gli occhi non si riposano mai. Il mio viaggio è stato tutto a debito, non posso ripagarlo, ho vissuto in Siria, sull’orlo dei miei nervi, mio fratello aveva paura delle bombe che sarebbero cadute e ci avrebbero uccisi. Lui vuole andare in Belgio, lui vuole andare in Germania, io sto andando in Svezia. Oh Siria, riuniscici tutti, siamo stanchi dell’esilio. E’ colpa nostra, ripagheremo i nostri debiti”. In una scuola a Salonicco, in Grecia, l’autore dell’articolo ha sentito i bambini siriani cantare questa canzone tutti insieme, in un’aula di una scuola dentro a un campo profughi. La conoscevano a memoria, non sbagliavano una parola: una bambina ha detto di averla imparata in un altro campo profughi, gliel’aveva insegnata suo zio. Le piace molto la melodia, ha detto, e alla domanda: di che cosa parla la canzone?, la piccola non è si è messa a spiegare, non c’è più nulla da spiegare, ha risposto soltanto: è una canzone triste.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi