“Ho pensato di non uscire mai più di casa”: Hillary Clinton, con il viso tirato, mercoledì scorso a Washington (foto LaPresse)

Lacrime liberali

Paola Peduzzi

“Hai smesso di piangere per Hillary?” è una domanda stupida: è in corso il funerale di una sinistra variamente di successo per vent’anni. Da dove si riparte? Da un fazzoletto

Allora, hai smesso di piangere per Hillary? La questione ricorre in ogni conversazione, in ogni chat, in ogni scambio di email, ma è una domanda francamente stupida. Il groppo alla gola è sceso, certo: basta non guardare mai più foto del Javits Center di New York pronto, la sera dell’8 novembre, per la festa più simbolica del secolo e poi abbandonato in silenzio con i palloncini e le cartacce per terra; basta non inciampare nel video in cui Hillary, vestita di nero e viola, dice, ricacciando giù una delusione senza pari, “I’m sorry” (è bene evitare anche quello di mercoledì a Washington, in cui Hillary, con il viso tirato, dice che ha pensato di non uscire mai più di casa, per nessuna ragione mai), e si può smettere di piagnucolare. Ma ci vorrà tempo per riprendersi dalla sconfitta della Clinton, non tanto perché ha perso lei – ed era una candidata alla presidenza competente, esperta, rassicurante, a tutti quelli che storcevano il naso e cavalcavano l’onda del disamore e della freddezza e della mancanza di empatia si può solo dire: enjoy Trump – ma perché assieme a lei è finita un’idea di sinistra che, tra vicende alterne, eccessi e revisionismi, critiche ed elogi, illusioni e delusioni, ha dominato con un certo successo gli ultimi vent’anni della storia occidentale. La chiamano terza via, lo chiamano clintonismo o blairismo a seconda del paese di appartenenza, si può dire in sostanza che è una sinistra aperta, globalizzata, liberale, impegnata per i diritti di tutti, anche di chi vive in altri paesi, per le riforme e per la crescita.

Hillary Clinton dice, ancora adesso che è stata sconfitta, che bisogna battersi per i propri valori, senza mai distrarsi, senza mai scansarsi, ma fa riferimento a valori di apertura e di mercato che nell’ultima tornata elettorale sono stati battuti, anzi: umiliati. E a nulla servono le statistiche sul benessere globale, che mostrano che dal 1990 a oggi, il mondo sta davvero meglio: nel 1990, il 37,1 per cento della popolazione mondiale viveva nella povertà estrema, nel 2015 la percentuale è al 9,6. C’è la diseguaglianza e c’è l’un per cento, certo, ma il dato è piuttosto impressionante. Eppure, la globalizzazione è morta. In un attimo, tutte le analisi fatte in un anno sull’implosione della destra americana sono venute utili per descrivere la sinistra, in un ribaltamento di prospettiva che pare oggi ridicolo – possibile che non abbiamo mai preso in considerazione la possibilità che Hillary perdesse? – ma che resta doloroso. Prendiamo Barack Obama: prima del voto, il presidente aveva ritrovato il suo tocco magico, tutte le sue mancanze – e non erano poche – erano state messe in un cassetto, era tornato l’Obama dei sogni, quello che passa alla storia come “empatico” pure se abbiamo scoperto negli anni che è freddo come il ghiaccio. Pete Souza, il suo fotografo, ha iniziato a pubblicare su Instagram foto d’archivio sugli otto anni di presidenza e a ogni scatto pigiavamo sul cuoricino e sospiravamo, sapendo che questa “coolness” non ci sarebbe stata più, ma che un pezzetto di quella bellezza, con una presidenza democratica, sarebbe rimasto impigliato nelle tende dello studio ovale.

 

 

Obama aveva già trasformato il clintonismo, soprattutto nella politica estera che, non essendo noi americani, è quella che ci interessa di più, ma in questi mesi di campagna elettorale così polarizzante e misera, il suo simbolismo era tornato sovrano ed emozionante. Poi Hillary ha perso e ora guardiamo Obama in tour per l’Europa – è venuto a rassicurarci: andrà tutto bene, dice, non dimenticatevi che con la globalizzazione siamo stati e staremo tutti meglio, state attenti alla Russia, aggiunge, e abbraccia Angela Merkel per far capire che è un messaggio trasversale – con un occhio diverso, persino un po’ strabico: sembra tesissimo, no? Poi se invece sorride – come ha fatto la mattina della sconfitta elettorale, come ha fatto accogliendo Donald Trump alla Casa Bianca, come ha fatto ammirando il Partenone – subito a infierire: che cosa c’ha da ridere? Nel post mortem ogni piccolo dettaglio diventa intollerabile, come quando ti accorgi che tuo marito non lo reggi più, e dirglielo diventa un’urgenza. Pensavamo che non ci fosse miglior consolatore possibile di questo presidente che ha il talento di trovare le parole giuste per spiegare l’inspiegabile, pensavamo che il suo calore retorico potesse curare il gelo degli errori di previsione e della sconfitta incontrovertibile, ma non era vero. Obama è di quelli che non ha bisogno del fazzoletto, ha già cominciato a dire che ci sono stati molti errori da parte della campagna di Hillary, non c’è stata una presenza sul territorio sufficiente (e la celebre e poderosa macchina elettorale clintoniana?) e non è stata adottata una politica di ascolto inclusiva. Obama non si è sottratto al gioco delle responsabilità, anzi, è stato chirurgico nel prendere le distanze dalle decisioni strategiche di Hillary, dopo averle abbracciate e sostenute sui palchi di mezz’America.

Ma se questo tatticismo è comprensibile – Obama pensava di trovare nella vittoria di Hillary una conferma della propria scintillante eredità, mentre ora gli tocca il ruolo istituzionale del passaggio di consegne a Trump – è anche piuttosto evidente che un presidente democratico in carica da otto anni non sia del tutto incolpevole per la sconfitta di una candidata democratica. Se non si ricomincia da qui, dalla constatazione di un fallimento che non è delle persone, è delle idee, sarà difficile ripartire con qualche base solida. Il problema come si sa non è esclusivamente americano. Anzi, il Regno Unito che è diventato in modo forse inconsapevole un campanello di allarme di movimenti globali – vedi la Brexit – ha già assistito alla trasformazione della sua sinistra e al funerale del blairismo. La nomina di Jeremy Corbyn – doppia: è stato riconfermato dopo un anno e dopo un referendum perduto – alla leadership del Labour ha cambiato la natura del partito e delle sue priorità, riportandola indietro nel tempo, prima della rivoluzione blairiana, prima di quella thatcheriana, prima che l’istinto globalizzante e di libero mercato ispirasse le politiche dell’occidente, anche delle sinistre. Il tuffo nel passato, che ispira anche molta della retorica trumpiana, è una risposta all’instabilità, alla globalizzazione-che-ha-creato-diseguaglianza, ma risponde anche a un cambiamento culturale importante. William Davies, autore britannico, ha pubblicato sul New Statesman un piccolo saggio dal titolo “L’età del dolore”.

Davies è un sociologo – ha pubblicato quest’anno “L’industria della felicità” (Einaudi) in cui spiega come le aziende e i governi si siano messi a studiare gli indici di benessere delle persone per sfruttarle nel business delle emozioni – e si occupa della tendenza al piagnisteo e al vittimismo che permea soprattutto le nuove generazioni, ma segnala anche un elemento rilevante per comprendere quali sono le richieste dell’elettorato. Secondo Davies, la politica delle emozioni oggi è contraria a quella degli anni Sessanta: “Allora le persone si definivano sulla base dei loro piaceri: i desideri sessuali, le preferenze di consumo, le scelte di vita. Oggi molti si definiscono sulla base delle proprie sofferenze”, le paure e le insicurezze. Per questo un leader più anziano, più rassicurante, disposto a chiudere la porta al mondo per far stare bene chi ha in casa, e alle presunte opportunità ci penseremo un’altra volta, diventa molto appetibile. Non solo Trump risponde a questa logica: lo fa anche Bernie Sanders.

Avrete sentito da molte parti l’idea che se il Partito democratico non avesse deciso di posizionarsi con la macchina clintoniana e avesse invece favorito l’ascesa dell’outsider Sanders, le cose sarebbero andate in modo molto diverso. Insomma Sanders avrebbe battuto Trump. Non si capisce come mai la presunzione di formulare previsioni azzeccate continui a essere tanto forte dopo che l’intero sistema statistico americano è crollato sotto la più grande cantonata del secolo, ma certo oggi il senatore del Vermont non ostenta fazzoletti e anzi vuole indietro quel che gli è stato tolto. Al gioco delle responsabilità non si sottrae nemmeno Sanders, che anzi si intesta la battaglia per la ricomposizione del partito, denunciando l’incapacità dei democratici di parlare a persone come lui e posizionandosi sullo stesso terreno caro a Trump, quello dei “dimenticati” che chiedono protezione. Come si diceva: il tuffo nel passato non è di destra o di sinistra, in questo 2016, è trasversale. Non si tratta nemmeno di nostalgia da parte di leader tutto sommato non giovanissimi: Yanis Varoufakis, cinquantacinquenne ex ministro del governo greco che sta federando le sinistre antiliberali d’Europa, ha spiegato che “la soluzione alla vittoria di Trump dovrebbe essere un movimento progressista internazionale e umanista. E’ necessario opporsi sia all’establishment liberal sia a Trump”. Mentre buona parte del mondo di sinistra tende ad avere un occhio di riguardo per il popolarissimo Obama, Varoufakis è senza appello: “Il problema di Obama è che molti a sinistra hanno proiettato su di lui quel che volevano vedere, che era diverso da quel che lui veramente è. E lui è un ‘social climber’, che voleva diventare un membro dell’establishment, non uno che sfida l’establishment. I suoi sforzi per ingraziarsi le attenzioni hanno determinato l’arrivo di Trump”.

Quindi l’identikit di un leader della sinistra che verrà è quello di un outsider che abbia un pensiero pre anni Ottanta, quando il virus della globalizzazione, del liberalismo, ha deturpato generazioni di leader di sinistra. Nemmeno Obama avrebbe i requisiti giusti, ma questo non è più un problema. Martedì Sanders ha pubblicato un libro, che si chiama “la nostra rivoluzione” (“Our Revolution: A Future to Believe In”): è stato naturalmente scritto prima della vittoria di Trump, con la presunzione che Hillary avrebbe vinto, e con l’obiettivo di ricordare alla futura presidente – e alle sinistre liberali – i messaggi sandersiani lanciati durante la campagna elettorale. Ora che Hillary non vorrebbe più uscire di casa, queste 450 pagine diventano un manifesto per la rifondazione di una nuova sinistra: “L’approccio clintoniano pretendeva di fondere gli interessi di Wall Street con i bisogni della middle class americana – scrive Sanders – Un compito impossibile”. Sanders individua una strategia per riconquistare la classe media, di cui lui stesso fa parte, che si sostanzia sulla scuola gratis per tutti e sulla sanità per tutti, oltre che nella lotta al corporativismo di Wall Street.

Hillary Clinton e Bernie Sanders (foto LaPresse)

A questa battaglia che Sanders definisce “progressista” partecipa anche Elizabeth Warren, la senatrice che ha raccolto le piazze Occupy Wall Street e ha portato la battaglia al Congresso e che ha stretto un’alleanza tattico-elettorale con Hillary in nome delle “nasty women”. In realtà le due non condividono granché della visione del mondo e ora che il clintonismo è entrato nel proprio inverno, anche la Warren può evitare di fingere tasche piene di fazzoletti: così si posiziona per avere un ruolo nella ridefinizione del partito. Le conseguenze di questi movimenti non sono poche, e soprattutto non riguardano le persone, ma le idee. Prima di tutto: la piazza. Nelle città si protesta da giorni contro Trump, al grido “not my president”, mentre la leadership dei democratici incontra il nuovo presidente – necessariamente – e inizia un dialogo, e tra questi è compreso anche un altro cantore della sinistra più radicale, il sindaco di New York Bill De Blasio. La protesta è destinata a esaurirsi, ma potrebbe reagire male nei confronti di chi, pur a sinistra e pur antitrumpiano, non ha voluto ascoltarla. Circola già la dicitura “Trump democrats”, che vale per ex senatori come Jim Webb che ha esplicitamente detto che Trump è un buon segnale per il paese, ma anche per chi vuole fidarsi della possibilità di normalizzazione del presidente, e aprire una discussione con lui. Durante la campagna elettorale Trump ha corteggiato Sanders, non soltanto perché erano entrambi rivali di Hillary, ma anche perché vedeva delle somiglianze in questo senatore “socialista”: oggi il neopresidente ha intenzione di insistere con l’abboccamento.

Sulla fine del libero scambio e sugli investimenti pubblici il piano è comune. Mentre il corteggiamento ha inizio, bisogna sistemare i leader esistenti – più di tutti: Nancy Pelosi, che guida la minoranza democratica alla Camera – e provare a dotarsi di un nuovo apparato dirigente. Ma il Partito democratico si sta accorgendo di non avere grandi sostituti, di non avere giovani da lanciare, ma nemmeno di meno giovani: s’è tormentato lungamente sul clintonismo e il ricambio e i limiti di una formula vecchia vent’anni, e oggi s’accorge che attorno non è rimasto granché. Se non una proposta che, fa male dirlo, assomiglia a quella trumpiana. Così nel rimettere insieme i cocci, il partito un po’ confida nella volontà di Obama di farsi carico di un processo di pacificazione e rifondazione – cioè di un presidente che al partito ha pensato pochissimo per otto anni – e un po’ in quello che lo stesso Sanders chiama “gap d’entusiasmo”. L’attivismo, la mobilitazione: troviamo quello – e il senatore del Vermont ce l’ha a portata di mano – e possiamo tornare a essere competitivi. Il Washington Post, quotidiano liberal che ha fatto una campagna estrema contro Trump e che in questi anni si è distinto molto nella critica a Obama soprattutto per la sua sciagurata politica siriana, si è interrogato in questi giorni su una domanda, questa non stupida: chi è progressista, oggi? E’ giunto alla conclusione che è riduttivo inquadrare la risposta a una semplice opposizione a Trump con “promesse altrettanto irrealizzabili”. I democratici avranno bisogno “di una versione del progressismo costruttiva e moderna, che abbracci crescita, equità e opportunità per tutti”, tenendo conto che in fondo il mondo, con la globalizzazione, non è andato poi così male. L’obiettivo è ambizioso, ma nell’èra del dolore, e della delusione, resta soltanto la speranza che bastino i fazzoletti per superare quest’inverno del liberalismo.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi