Lavoratori americani lo scorso aprile in piazza (qui a Los Angeles): chiedevano un salario minimo di 15 euro l’ora (foto LaPresse)

I fatti e la pancia

Stefano Cingolani
Il vaffa a Hillary e Obama degli operai del Midwest. Sordi ai dati della realtà, hanno finito per votare con Trump un altro establishment. Cos'è successo davvero negli Stati Uniti? E' veramente cominciata “la fine della fine della storia”, come ha scritto sul Washington Post Matt O’Brien?

Findlay in Ohio è una cittadina che circonda una grande fabbrica di pneumatici della Cooper Tire & Rubber dove il sindacato United Steelworkers (lo stesso al quale sono affiliati i siderurgici) ha un forte potere d’influenza politica. Durante la recessione del 2009-2010 ha fatto fuoco e fiamme contro la concorrenza sleale dei cinesi. Fiamme talmente alte che i democratici al Congresso hanno convinto Barack Obama ad alzare dell’88 per cento le tariffe sulle importazioni. Sì, non è un refuso, quasi il doppio, esattamente come ha promesso di fare Donald Trump. La misura protezionistica ha avuto un certo effetto, la Cooper Tire & Rubber ha rinunciato a tagliare posti di lavoro, è vero che così non ha ridotto i costi e non ha aumentato l’efficienza, ma in compenso ha venduto sul mercato domestico spiazzando i cinesi. Nel marzo scorso, il corrispondente dell’Economist, alla ricerca delle radici del trumpismo, ha fatto un viaggio nella nient’affatto ridente cittadina di Findlay e ha scoperto che gli operi dell’impianto erano tutti per il candidato repubblicano. Con un argomento semplice, quanto icastico: “Obama è il peggior pezzo di merda di questo paese, dovrebbe andare affanculo in Cina”. Ma se ha punito i cinesi e vi ha salvato lo stipendio? Niente da fare. Nessuno stava a sentire il compito giornalista inglese che snocciolava i fatti e le cifre; era il loro fucking moment, il vaffaday di Findlay, arrivato fino al voto dell’8 novembre, che si è esteso in tutto il Midwest, su fino al Michigan dove Obama ha ripescato dal fallimento l’industria dell’automobile, la General Motors con i soldi di tutti gli altri contribuenti americani e la Chrysler con i soldi dei sindacati e la guida della Fiat. Niente. Un grande vaffa anche lì, un vaffa globale come ha detto Beppe Grillo. Lo dimostrano gli operai che sono tornati a votare repubblicano dopo quasi un secolo (non dimentichiamo che fino agli anni Trenta del secolo scorso, il partito di Lincoln era sempre stato l’espressione del mondo industriale del nord, mentre i democratici erano gli ex piantatori schiavisti del sud).

 

E i fatti, e le cifre? Tanto peggio per loro. Chissà cosa accadrà quando gli elettori scopriranno che non ha vinto l’onda anti establishment, ma un establishment contro un altro, una coalizione di gruppi di potere contro quella opposta, i petrolieri e Big Pharma contro l’industria delle rinnovabili e l’automobile, tanto per fare dei nomi. Lo scopriranno davvero quelli che hanno votato per lui ma non lo confessavano, come accadeva in Italia per la Democrazia cristiana? O continueranno a rotolarsi nelle loro illusioni? Chissà, forse se ne accorgeranno quando sarà troppo tardi. Ma non arriviamo subito alle conclusioni.

 


Alcune prime pagine dei giornali dopo la vittoria di Trump (foto LaPresse)


 

Cosa è successo davvero negli Stati Uniti? E’ cominciata “la fine della fine della storia”, ha scritto l’11 febbraio scorso sul Washington Post Matt O’Brien, già condirettore della rivista liberal The Atlantic. La fine della storia è l’arcifamosa definizione che Francis Fukuyama aveva dato nel 1992 del mondo occidentale dopo la caduta del Muro di Berlino. Parlava della “storia così come l’abbiamo conosciuta” che cedeva il posto, adattando ai tempi moderni la profezia di Hegel, a un universo in cui si propagava la ragione, la libertà dei commerci e delle idee, la democrazia. “Il mondo piatto” lo chiamò il brillante giornalista Thomas Friedman, insomma la globalizzazione. Ebbene, The Donald chiude quel ciclo durato quasi trent’anni, lo chiude politicamente, perché dal punto di vista economico si era concluso con la lunga crisi scoppiata nel 2008. I trumpisti sostengono che il libero scambio ha portato benessere e ricchezza nel Terzo mondo, ma ha messo in ginocchio l’occidente, o meglio la classe media occidentale, comprendendo in essa anche la classe operaia. Altro che società liquida alla Zygmunt Bauman, un’alluvione, un uragano, uno tsunami. E’ vero? Se si allunga lo sguardo agli anni Novanta, quando il processo si è sviluppato in tutta la sua forza, non è così. La stessa finanziarizzazione “selvaggia” ha prodotto un vero capitalismo di massa: profitti e dividendi azionari sono colati giù giù lungo la scala sociale, mutui e prestiti venivano concessi senza chiedere garanzie, gli americani spendevano e spandevano (“al di fuori delle loro possibilità”, secondo la teoria ortodossa austro-germanica), tanto che aumentava il disavanzo nella bilancia con l’estero. Ma viva la faccia, le multinazionali giravano come trottole in ogni parte del globo terracqueo e si espandevano soprattutto in Asia. Era il McWorld, un bengodi per l’America finché è durato, sostanzialmente fino all’11 settembre 2001 quando per la prima volta gli Stati Uniti si sono sentiti fragili, sott’attacco, assediati. Dopo un primo sbandamento, la coppia Bush-Greenspan ha continuato a spalmare il grasso, finché c’era, sostanzialmente fino alla crisi dei mutui subprime e al collasso della Lehman Brothers. L’età dell’oro è finita in America e per colpa degli americani (questa è la tesi prevalente in Europa). I trumpisti ribattono che non è così, è l’ingresso della Cina nell’Organizzazione mondiale dal commercio ad aver cancellato venti milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti.

 

Il libero scambio è stato un pilastro della politica americana dal secondo Dopoguerra in poi, adesso la nuova pastorale americana vuole ripristinare le barriere che negli anni Trenta hanno esteso e prolungato la Grande depressione. Ma chissenefrega della storia. Dal 2010 in poi gli Stati Uniti sono cresciuti senza soluzione di continuità a un tasso medio del 3 per cento. Un ritmo più basso rispetto ad altre riprese economiche, non c’è dubbio, ma comunque doppio rispetto a quello europeo. Ma chissenefrega dell’Europa e delle cifre. La disoccupazione è scesa dal 10 al 5 per cento della forza lavoro, ma i salari sono diminuiti, i nuovi impieghi sono precari e le buste paga si assottigliano. Non è pura propaganda, è stato così per molti anni, ma dal 2014 in poi le retribuzioni sono cresciute anche grazie all’aumento del salario base che invece Trump intende bloccare. Negli ultimi due anni sono migliorati in modo consistente i redditi della classe media, non lo dicono gli economisti obamiani, risulta dai dati dell’ufficio federale di statistica. Ma chissenefrega della statistica. Gli esperti di distribuzione del reddito dividono la popolazione in dieci fasce (decili). Secondo la Banca mondiale il reddito medio pro capite in termini reali per il secondo decile, che rappresenta gli americani poveri, è passato da seimila a settemila euro tra il 1988 e il 2010; quello dell’ottavo decile (dove si concentrano i ricchi) in Cina è passato da mille a cinquemila nello stesso periodo. Insomma un cinese benestante non ha ancora raggiunto le condizioni economiche di un americano povero. Ma chissenefrega dei numeri.

 

Eppure, la fonte è al di sopra di ogni sospetto, perché si tratta di Branko Milanovic, americano di origine serba, a lungo capo economista alla World Bank, lo stesso che, con i suoi studi, ha denunciato l’aumento della disparità tra super-ricchi e super-poveri, colui il quale ha introdotto negli Stati Uniti Thomas Piketty e lo ha fatto entrare nel dibattito a sinistra, fornendo legna da ardere sull’altare di Bernie Sanders e dei neo-socialisti tra le fila dei repubblicani. I ragazzi di Occupy Wall Street innalzavano come un vessillo il grafico di Branko che assomiglia a una proboscide di elefante secondo il quale i redditi della classe media precipitano al punto limite nel 1980, poi risalgono a rotta di collo ma solo per gli ultraricchi. Insomma, Milanovic è uno di sinistra che ha offerto argomenti anche alla destra. E lo stesso trumpismo, così come i fenomeni populisti europei ai quali assomiglia (anche se non è la stessa cosa) ha una forte componente trasversale.

 

La via maestra per ridurre le disparità in America, un paese dove la redistribuzione non ha mai attecchito neppure culturalmente, è produrre di più. Qui Trump ha una carta forte: stimolare l’economia spendendo e tagliando le tasse, non solo ai poveri, anzi a cominciare dai ricchi perché con The Donald siamo entrati nel mondo del Plutopopulismo. Ma anche la riduzione delle imposte ha un limite, ammette Charlie Dent, un deputato repubblicano della Pennsylvania che conosce i conti pubblici: “Mai dopo Harry Truman un nuovo presidente era entrato in carica con un debito pubblico tanto alto rispetto al prodotto lordo. Trump vuole investire in deficit (275 miliardi per le infrastrutture nei primi cento giorni) e ridurre le imposte di dieci punti in media senza copertura. Keynesismo di stampo reaganiano, ma l’arsenale keynesiano oggi si è ridotto come riconosce Timothy Geithner, ex segretario al Tesoro nel primo mandato di Obama, l’uomo che ha salvato gli Usa dalla grande recessione. Ma anche lui dimentica un fatto evidente: più che l’economia, poté la pancia.

 

Questo ventre molle, quello dei dimenticati, i dannati della terra americana, insomma la nuova constituency di Trump, è un nuovo blocco politico-sociale, compatto e duraturo? E’ presto per dirlo, ma la delusione arriverà prima che non si dica. Chissà cosa dirà Beppe Grillo che è saltato sul carro del vincitore, quando scoprirà che il grande vaffa alla vecchia classe dirigente è stato salutato con un triplice urrà dai petrolieri del Texas, gli stessi che avevano finanziato la famiglia Bush. Il balzo delle loro azioni lo dimostra. Al contrario, soffrono i baroni delle rinnovabili, il titolo di Vestas, il colosso danese delle turbine a vento, ha preso un bagno a Wall Street. Trump sostiene che il riscaldamento globale è una bufala e vuole dare spazio alla lobby dell’oil & gas, i John Wayne che spaccano le rocce e trivellano i sette mari, quelli che i grillini in Italia vorrebbero mettere al muro. Contraddizioni in seno al popolo, direbbero i maoisti. Pura demagogia. Anche Putin dovrebbe rendersi conto che le cose non fileranno lisce. Può darsi che ci sia una buona chimica personale con Trump, ma gli interessi di fondo li dividono, a cominciare da quelli energetici e dalla guerra del gas. Una partita complessa anche dal punto di vista geopolitico. Prendiamo la Cina. A mano a mano che gli Stati Uniti diventano autosufficienti, i petrolieri esporteranno sempre di più nel resto del mondo, in Europa, il maggior consumatore di energia, e in Cina. Se Trump davvero innalzerà le barriere contro i prodotti cinesi, Pechino potrà reagire comprando petrolio e gas altrove, dall’Australia per esempio, diventato grande produttore, o dal Golfo Persico. Gli idrocarburi resteranno abbondanti e a buon prezzo ancora a lungo, dunque il potere è dalla parte del consumatore.

 

Chissà che dirà Stefano Fassina secondo il quale The Donald ha suonato la campana a morto per il neoliberismo, leggendo che il candidato alla poltrona di segretario al Tesoro è (fino a questo momento) Steven Mnuchin, ex banchiere di Goldman Sachs (sì la piovra-vampiro, quella del complotto pluto-giudaico-massonico) che gli ha fatto da consigliere finanziario oppure Jeb Hensarling, deputato del Texas, grande sostenitore della finanza senza troppe regole. Per non parlare di Big Pharma, l’altro bersaglio mobile dei populisti di tutti i continenti. Hillary Clinton voleva che l’industria farmaceutica tagliasse i prezzi, Trump no. I titoli di alcuni gruppi importanti hanno fatto un balzo di quattro-cinque punti percentuali. Soffrono, invece, i grandi gruppi automobilistici che hanno impianti importanti in Messico, come Daimler o Fiat-Chrysler perché forse Trump non costruirà il muro contro gli immigrati (sembra troppo costo e complicato), ma imporrà pesanti tariffe alle auto prodotte fuori confine. Agli operai del Michigan è stato fatto credere che chiuderanno gli impianti in Messico, così Fiat Chrysler produrrà la 500 a Detroit. Davvero? O magari Marchionne raddoppierà gli impianti in Serbia e in Polonia? La Jeep Renegade viene dall’Italia. E certo Bersani, Fassina e Grillo (absit iniuria verbis) non vogliono che i posti di lavoro vadano in America. L’internazionalismo proletario sognato da Marx nella realtà è un nazionalismo da guerra tra poveri, tra proletari disuniti. Oggi lo è ancora di più.

 

E i banksters, dove li mettiamo? Trump vuole cancellare la regulation introdotta dal 2009 con la legge Dodd-Frank, il che vuol dire dare margini di manovra alle banche e ai banchieri. Da questo punto di vista è un de-regolatore più che un liberalizzatore. Peccato che con tutti i suoi limiti quella legge ha reso le banche americane le più forti al mondo e le meglio capitalizzate, quindi le più solide. Il neopresidente promette che così daranno più prestiti alla gente. Omette di aggiungere che in questi anni hanno finanziato il boom dell’automobile senza guardare il capello, hanno dispensato quattrini anche a chi non aveva nessuna garanzia né possibilità di restituirli, tanto che si è creata una bolla nell’auto molto simile a quella immobiliare. Insomma, ci sono i subprime anche nel credito al consumo. Non hanno creato gli stessi problemi (finora) perché le banche sono più liquide e più solide, mentre i tassi d’interesse restano inchiodati al pavimento. The Donald non lo dice, anzi la sua trumpnomics, per quel che si capisce, rischia di far scoppiare anche questa bolla, colpendo non i super-ricchi, ma proprio quella classe media che ha riposto tante speranze nel magnate pel-di-carota.

 

Veniamo così al nocciolo della questione. Il candidato dell’anti establishment, quello che avrebbe lanciato un gigantesco vaffa al mondo intero, in realtà si scopre essere il rappresentante di un certo establishment schierato contro l’altro establishment, quello clintoniano. Da questo punto di vista, niente di nuovo sotto il sole. E tutta la sociologia liquida e trasversale versata dai guru del neopopulismo? Gli interessi che sostengono Trump sono solidi e ben individuabili, a loro dovrà rendere conto; non c’è solo la lobby delle armi, ma altre ancor più potenti. Ecco l’inganno estremo che The Donald è riuscito a vendere al mondo intero. Prima o poi verrà svelato, più presto che non si creda, e allora, direbbe il poeta, anche quell’inganno perirà.

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