Contro mastro ciliegia
Toto Cutugno, il fratello d'Italia che temevamo di avere
"L’italiano" è stato il vero inno nazionale melo-sgangherato, un medley dell’italianità prima che esistessero i medley. Ma in fondo ci ha regalato un’immagine in fondo più veritiera, onesta di noi stessi che non tanta sociologia
La cosa peggiore degli anni Ottanta, chi li ha vissuti, non fu il “riflusso” né l’esplosione del debito pubblico, ma i capelli lunghi cotonati pure per i maschi e le spalle imbottite e i rever da 70/80 metri quadri delle giacche. Quelle indossate da Toto Cutugno in certi filmati da Techetecheté che giravano oggi. L’altra cosa che ha amareggiato gli anni Ottanta degli italiani affluenti che incominciavano a sognare destini globalizzati, fu ovviamente L’italiano, vero inno nazionale melo-sgangherato, un medley dell’italianità prima che esistessero i medley e persino che Berlusconi dicesse “il paese che amo”. “Buongiorno casa buongiorno Maria”, e “un partigiano come presidente”.
Ma poiché de mortuis nihil nisi bonum, e di Salvatore Cutugno da Fosdinovo non c’è poi davvero nessun male da dire, non se ne dirà, anche se si sono amati di più i Dire Straits. Ha liberato gli italiani che “dovevano accontentarsi di quella patetica Italia mia di Mino Reitano”, come ha scritto Gino Castaldo. Con generosità gli ha regalato un’immagine in fondo più veritiera, onesta di sé stessi che non tanta sociologia. Se proprio dobbiamo criticare qualcosa, è di aver convinto i russi, e mezzo mondo, che gli italiani sono tutti dei figli di Putin. E questo non gli verrà perdonato. Almeno fino al prossimo Techetecheté.
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