Naomi Watts tra le “grinfie” del mostro in green screen, sul set di “King Kong” di Peter Jackson (Olycom) 

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L'altro Oscar, gli Academy Scientific and Technical Awards

Giulio Silvano

Reportage dalle premiazioni a cui nessuno bada: quelle per gli effetti speciali e le innovazioni tecniche. Pochi super divi, molti smanettoni

Los Angeles. I premi Oscar vengono presentati in due occasioni diverse. C’è la serata che tutti conoscono, quella in diretta televisiva che dura ore e ore, dove Will Smith schiaffeggia l’ospite. Una sorta di Sanremo americano (uno dei tanti), in cui canzoncine e sketch intermezzano i premi da cui nascono polemiche e primati dal titolo: “La prima donna eschimese lesbica ha vinto come miglior regista!”, per parafrasare Harold Bloom. E poi c’è un’altra serata, alcune settimane prima, nel pieno della grande stagione invernale dei premi: quella degli Academy Scientific and Technical Awards, o come li chiamano nell’industry, i SciTech. Esistono dal 1931, l’anno in cui Marlene Dietrich non vinse il premio di miglior attrice. Il primo Oscar tecnico fu dato per la riduzione del rumore quando si registra il suono. Le basi, insomma, di quelle tecniche che piano piano hanno reso possibile passare dai muti con Buster Keaton a Interstellar.

“Era molto meglio quando si faceva al Beverly Wilshire”, dicono alcuni nostalgici delle sale dorate dell’hotel dove girarono Pretty woman, mentre entrano nel foyer dell’Academy Museum of Motion Pictures per la serata di gala. L’edificio è a due passi dal museo d’arte della contea di LA e dai pozzi naturali di catrame di La Brea, diventati anche questi – come tutto qui – un’attrazione turistica. Altri ospiti invece, nei loro tuxedo neri, sono convinti che il museo dell’Academy sia il posto giusto. “E’ stato costruito per questo”, dicono. Ci sono due teatri e tante sale per le mostre, un faccione di Sidney Poitier sul muro, mentre ammira la sua statuetta, fa da nume tutelare durante il red carpet. Al momento, nel museo, è in corso una mostra sul regista John Waters, “il Papa del trash”. Prima, negli anni Trenta questo era un centro commerciale, disegnato da Albert Martin, l’architetto noto per le sue chiese cattoliche sparse per la città: un cilindro d’oro incastonato nell’angolo del palazzo sulla Miracle mile, sopra il traffico di Wilshire boulevard. Poi qualche anno fa Renzo Piano l’ha riadattato, aggiungendo una cupolona di vetro. Dentro ci sono quei pezzi di storia nazionale più importanti di memorabilia presidenziali o dei cannoni della guerra civile: le tavolette de I dieci comandamenti di Cecil B. DeMille, le scarpette rosse di Dorothy, la macchina da scrivere usata per buttare giù la sceneggiatura di Psycho, l’astronave di 2001: Odissea nello spazio. Il patrimonio di una nazione dedicata a intrattenere il mondo. 

Oltre all’anonimato dei vincitori fuori da una certa cerchia, la vera differenza tra questi SciTech e gli Oscar con gli attoroni è l’influenza di lunga data su tutta l’industria hollywoodiana. Per vincere un Oscar tecnico o scientifico bisogna avere avuto un impatto notevole, bisogna inventare qualcosa che cambia il modo in cui vengono fatti i film per decenni a venire. Non bisogna solo avere una buona idea, ma applicarla e dimostrare la sua rilevanza, per quanto a volte degli effetti si accorgono solo gli esperti. Ci sono premi che vengono dati dopo venti o trent’anni dall’idea originale, perché servono tante pellicole di successo per far vedere quanto un’invenzione può cambiare la storia del cinema, serve un curriculum lungo, servono i blockbuster. Non basta fingere per 117 minuti di essere un obeso o un autistico, o mettersi un naso prostetico per sembrare Leonard Bernstein o saltellare sulle macchine con un vestito giallo e innamorarsi di Ryan Gosling. 

L’altra grande differenza con gli Oscar dei glitterati, con quell’egofestival dove fino al #MeToo Harvey Weinstein era la seconda persona più ringraziata nei discorsi – dopo Spielberg, ma prima di Dio – è lo stile. Niente passerella da copertina di Vogue, ma quasi un ballo di fine anno di una scuola di ingegneria. Code e codini e tantissimi occhiali. E non le montature Tom Ford o le lenti sfumate che si mette Robert Downey jr ai Golden Globes o i Moscot di Johnny Depp o i Molino di Jeff Goldblum. Parliamo di occhiali da lettura, da astuccetto bertinottiano, più simili a quelli che vendono alle casse degli autogrill con le ditate sopra che non alle montature pubblicizzate su GQ. Dopotutto i premiati sono gli Sheldon Cooper e gli Archimede Pitagorico dello show business, gli Steve Jobs e i Thomas Edison prestati agli studios, McGyver dei backlot. Braccia rubate al Cern di Ginevra. Facile scegliere tra una villa a Bel Air e una cattedra al MIT nella gelida Boston. E nonostante questo, tutti piuttosto pallidini. 

Quest’anno, tra le altre cose si premia la gabbia posizionata in cima alle automobili in modo che il regista possa girare dentro il veicolo senza impedimenti. Un autista fantasma sul tettuccio nascosto poi dalla Cgi. Un po’ come Mr Bean quando mette la poltrona sul tetto della sua Mini verde. “L’idea mi è venuta mentre lavoravo a Speed”, racconta uno dei premiati, John Frazier. E dopo trent’anni, applicato il suo lavoro a scene di Batman, Skyfall e Gran Turismo, la sua invenzione è stata riconosciuta dall’Academy: “Ha rivoluzionato il modo in cui si girano le scene di inseguimento”. Un altro ingegnere riceve il premio per essersi inventato un meccanismo per tagliare i cavi con un telecomando, “quando hai bisogno di far cadere un autobus da una grande altezza, ad esempio”. Il meccanismo è stato usato in film come Inception, Pearl Harbor e vari capitoli dei supereroi Marvel. Il premio che in questo 2024 appare come il più importante, per l’impatto che avrà nel futuro di tutto il cinema – per chi lo fa e per chi lo guarda – è quello che verrà dato alla fine della serata a Bill Beck e ai suoi colleghi, per la loro ricerca sui laser. “Finalmente i nerd del laser hanno un riconoscimento”, dice un giurato. Beck, occhiali tartarugati, papillon e rosa rossa nel bavero, racconta al Foglio che “fino a dieci anni fa le proiezioni laser erano molto diverse da adesso, ora invece siamo riusciti a farle risultare identiche a quelle in pellicola, non noti la differenza. Tutta la nostra ricerca si è concentrata su questo: far sembrare il laser una pellicola. Si può ancora fare molto usando il laser come fonte luminosa, e ci stiamo rendendo conto che le immagini si vedono molto meglio”.  Tra una chicken pot pie tartufata e un macaron alla rosa, Beck ricorda che “al di fuori delle grandi città, in posti dove non hai cinema come gli Imax, la qualità dell’immagine sullo schermo spesso lascia a desiderare, con il laser invece si raggiungerà un alto livello, ovunque. Il laser può dare alle persone la possibilità di vedere le immagini in altissima qualità”. E i costi per cambiare tutti i proiettori in tutti i cinema? “Inizialmente possono essere alti, ma in breve si recupera il costo, anche perché non c’è bisogno di manutenzione come con la pellicola”. Il mantra di questi smanettoni sono il progresso e la qualità. Tutto si può fare sempre meglio, basta trovare le tecniche giuste. 

Anche Luca Fascione, membro dell’Academy e vincitore nel 2017 per il suo lavoro su Facets (innovativo sistema di capture and solving facciale sviluppato allo studio neozelandese Weta Digital per Avatar), sottolinea l’importanza delle nuove tecnologie basate sull’uso del laser. “Il laser è meglio di una ‘lampada normale’, e l’immagine digitale è meglio della pellicola, soprattutto perché è più facile riprodurla essendo certi di cosa vedranno gli spettatori in sala”, dice al Foglio Fascione, che ha lavorato alla trilogia de Il pianeta delle scimmie e a due Avengers. Questi nuovi proiettori laser, continua, “sono costruiti per poter produrre colori più saturi, più vividi e contrasti più elevati. Inoltre, danno garanzie di ripetibilità molto più alte del precedente sistema a pellicola. Cioè la certezza che una qualunque sala, magari in un piccolo centro di provincia, col nuovo proiettore laser digitale, produrrà la stessa immagine che si proietterebbe al Dolby Theater a Los Angeles. A sua volta questa qualità più alta implica che l’autore può spingere di più con la sua palette, perché non ha bisogno di proteggersi in caso di proiezioni da supporti o copie di qualità potenzialmente inferiore. Ed ecco che l’opera in sé ha più possibilità espressive”.

Qui si conoscono tutti, dopotutto le aziende che fanno queste cose sono poche, e molti di loro lavorano insieme prima o poi. Ostriche e birra, mini soufflé al tacchino e martini, aragostine crude e ciotole di mac & cheese, un incontro culinario tra un vernissage degli anni Novanta e una mensa liceale dei sobborghi. A presentare la serata c’è l’attrice Natasha Lyonne, quella che faceva la figlia di Woody Allen in Tutti dicono I Love You, che fa battute sugli smanettoni. Alcuni ospiti più tardi al buffet diranno che è stata la più bella serata dei premi “comparabile solo con quella presentata da Sir Patrick Stewart”. L’autore del discorso di Lyonne se ne va prima del dessert: “Si è fatto tardi, domani ho un’altra serata di premi”. “I Sag?”. “Sì”. La award season è il momento più stancante per il popolo di Burbank e Culver City. Dopo gli Oscar, quelli glam, ci si riposa un po’ e la palla passa a Cannes e qui si riportano i frac in lavanderia. 

Durante tutta la cerimonia il grande messaggio che l’Academy vuole dare ai premiati è: “Non siete invisibili, noi vi vediamo. Non siete nascosti nelle vostre camerette con i vostri Commodore o cassette degli attrezzi. Siete anche voi parte della grande famiglia di Hollywood. Non avrete la faccia sulle gigantesche affiche che bloccano il sole su Sunset Boulevard, ma siete importanti quanto, se non più di, Nicole Kidman”. E al pubblico vogliono dire: “Senza questi nerd non potreste godervi le scene in cui James Bond insegue il cattivo con la sua Aston Martin, o le battaglie tra Capitan America e Thanos, o la veridicità dei peli sul manto di King Kong”. Quasi tutti, tra premiati e menzionati, vogliono ringraziare la moglie, vogliono scusarsi per “tutte le nottate passate a lavorare”, tutti i momenti in cui si è stati assenti per sviluppare questo o quel software. Si scusano con i figli, ignorati. “Vediamo i secchi di caffeina e le richieste impossibili da parte dei produttori”, dice una boss dell’Academy. Una serata che fa un po’ rivincita dei secchioni. 
All’inizio della cerimonia, la voce di un attore nativo americano ha dato il benvenuto a tutti ricordando che ci si trova nella “terra ancestrale del popolo Tongva, i custodi originari di queste acque e di queste terre”, e La La Land forse è così maledetta – basta leggere Nathanael West o Kenneth Anger – perché si trova su un grande cimitero indiano. Ma in tutto questo nerdy-chic salta agli occhi qualcosa, nell’America insieme puritana e progressista: l’assenza di diversità. Com’è possibile nell’America dei bagni gender neutral e delle correzioni ai libri di Mark Twain così tanta whiteness? Bombardati ogni giorno con le notizie su wokismo e antiwokismo e rappresentatività e nuove regole per vincere le statuette – devono esserci almeno un tot di minoranze in ogni cast, eccetera – in pochi si sorprendono che ai SciTech siano tutti uomini. E per di più tutti uomini bianchi, tranne una manciata di asiatici (un gruppo è venuto dal Giappone). Le donne che salgono sul palco durante la serata, oltre a Lyonne, sono la presidente dell’Academy e la capa della commissione dei premi scientifici, e poi le due interpreti per il linguaggio dei segni. Ma i premiati sono tutti maschi bianchi – o asiatici – con gli occhiali. La più grande differenza forse è quella tra miopi e astigmatici. “Qui non si può barare”, dice al Foglio un membro della commissione che ha selezionato i finalisti. “Parliamo di cose molto pratiche per cui devi avere delle prove. Non puoi barare. Sarebbe bello che ci fosse più diversità, ma non possiamo piegare la realtà a nostro piacimento”. La ricerca delle nomination, dicono, viene fatta con grande scrupolo, “bisogna portare molte prove per dimostrare di esser davvero degni di un premio”. La rivoluzione del #MeToo non tocca i SciTech, come se la scienza fosse immune allo Zeitgeist, alle pressioni politiche, ai social justice warriors

Le lamentele al buffet vanno in altre direzioni. Alcuni dicono che non ci sono più i soldi di una volta – “negli anni novanta a queste feste c’erano montagne di cocaina”, dice un ospite con la barba rasputiniana e un frac bianco, ex biologo prestato al cinema. In molti si lamentano che i nerd non sono più considerati dagli studios e dai registi come prima. “Fino ai primi anni 2000 il pubblico era molto interessato agli effetti speciali, a quanto fossero fatti bene, a quanto le tecniche fossero andate avanti”. Ora invece, sembra contare altro in sala – forse appunto, la rappresentatività, le istanze sociali, il femminismo delle bambole Mattel, i sandali Birkenstock. E poi, alcuni tristemente, ricordano che anche la bolla dei supereroi è scoppiata. Succession ha rimpiazzato Il trono di spade, più conflitti familiari e meno draghi in Cgi. 

Qui tra gli ingegneri del cinema, i registi rispettati e adorati non sono i nuovi hipster della A24 o le mogli di Noah Baumbach, e nemmeno i nomi francesi e asiatici da cinema d’essai o gente di Seattle ancora presa bene per il mumblecore, ma chi si è impegnato costantemente a investire sull’innovazione tecnologica mentre si crea la settima arte. I baby boomer che impazziscono per i nuovi giocattolini. Spielberg, James Cameron, Peter Jackson, George Lucas. Gente per cui la magia del cinema è anche la magia delle macchine. Gente che voleva il massimo e che quando non lo trovava si creava le sue aziende di software e di grafica e puntava alla perfezione tecnica. Un universo parallelo dove non valgono le regole dello spirito del tempo. 

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