L'attrice Sandra Milo durante un servizio fotografico in una foto d'archivio in bianco e nero. ANSA

Dall'archivio

Sandra Milo si racconta: da Fellini a Ergas, salvatrice degli uomini un po' così

Camillo Langone

Una vita ad aiutare amori e compagni che in cambio le hanno restituito botte, querele, furti e sequestri. E poi la politica, i figli e la carriera. Colloquio con l'attrice

Pubblichiamo una vecchia intervista a Sandra Milo uscita originariamente sul Foglio della domenica del 31 marzo 2002. L'attrice è morta oggi a 90 anni. 


 

“All’anagrafe risulto Salvatrice Elena Greco ma appena ho potuto Salvatrice l’ho nascosto, perché se una si chiama Salvatrice poi lo diventa davvero, e io non lo volevo diventare”. E invece no, cambiare nome non le è servito a niente, il destino non si fa mica abbindolare così. Salvatrice era (per via del padre Salvatore, siciliano di Tunisi) e Salvatrice è rimasta. Per tutta la vita è stata come quei bagnini che si gettano nel mare in burrasca per salvare il cretino che non sa nuotare, col risultato che loro annegano mentre il cretino regolarmente si salva. Lei non si è mai tirata indietro per aiutare i propri uomini, esemplari che si dev’essere scelta col lanternino, visto quello che ha ricevuto in cambio: più che altro botte, querele, furti, sequestri. Un regista ultimamente le ha detto di invidiarla per la sua fortuna. “Fortunata io?”. “Sì, per la tua storia con Federico”. Al che si è fatta una risata, perché lei ride spesso e quando non ride sorride, ottimista nonostante tutto. In verità Fellini risulta l’incontro migliore, non l’ha mai picchiata, non le ha mai chiesto soldi e in più le ha regalato un posto nella storia del cinema. Ma come relazione sentimentale, se ne conoscono di migliori. Scompariva per mesi, poi un giorno telefonava: “Come sta il tuo bel culo? Stasera passo a prenderti”. Invece non passava e neanche chiamava per scusarsi. Diciassette anni così, sai che culo (ma non nel senso di Federico). “Lui poteva avere tutte le donne che voleva, e infatti andava con tutte, e poi c’era Giulietta”. Quando la prese nel letto di casa, dove di solito dormiva con la Masina, il gran riminese si eccitò a modo suo: “Dimmi che sei mia moglie”. Risposta? “Gli dissi che ero sua moglie”. Per salvare l’ispirazione di un artista questo e altro, non è mai stata la generosità a mancarle. Ma simili perversioncelle le piacevano poco. “Così facendo rubava l’identità sia a me che a Giulietta”.

Con i maschi comuni mortali non va molto meglio. Il padre è quasi uno sconosciuto: parte volontario per la guerra d’Africa nel ’36 e torna a casa nel ’48, per scoprire che durante la prigionia oltre alla guerra e all’Africa ha perso anche Ergas le procura qualche parte non memorabile; marito anni Cinquanta ne fa però una donna muta: “Non voleva che nei film usassi la mia voce. E io che avevo smesso di fare la modella perché non volevo essere soltanto un corpo...” la casa, il lavoro e tutto il resto. Pensa bene di emigrare in Francia dove se ne perdono le tracce. Il primo marito, Cesare Rodighiero, sposato a Viareggio a quindici anni, le ricorda solo un figlio perduto al sesto mese di gravidanza. Il secondo uomo si chiama Moris Ergas, ebreo di Salonicco, quasi un segno del destino visto il cognome anagrafico e quello d’arte. Ma neppure la Grecia le porta fortuna. In quanto produttore cinematografico, Ergas le procura qualche parte non memorabile; in quanto marito mediterraneo anni Cinquanta (ma tirannico al di là dell’epoca) ne fa una donna muta: “Non voleva assolutamente che nei film usassi la mia voce. E io che avevo smesso di fare la modella perché non volevo essere soltanto un corpo...”. In quegli anni un’altra italiana di Tunisi subisce la stessa umiliazione del doppiaggio, Claudia Cardinale, anche lei voce non consona. Per veder nascere il personaggio della Svampita, corpo e voce indissolubili, bisogna aspettare il 1960 e il film “Adua e le compagne” di Antonio Pietrangeli. Il successo non addolcisce il marito produttore di Salonicco, anzi, i litigi della coppia diventano una leggenda di Cinecittà. Palmira Rami, la giardiniera di Villa Rossellini a Santa Marinella, ricorda a malapena Totò e De Sica, ma conserva praticamente perfetta memoria di Ergas e Sandra Milo: “Un giorno lui gliene diede di santa ragione”. Ma niente ospedale, almeno per quella volta. Dopo “8 1/2”, che la consacra nel ruolo dell’amante tutta curve e risatine, si trova a Riccione per girare un film balneare con Enrico Maria Salerno: “Ergas era un infedele, non si fermava nemmeno di fronte alle mie migliori amiche. Però era gelosissimo. Pensando che ci fosse qualcosa tra me e Salerno una sera piombò nella mia roulotte. In realtà ero con Ottavio De Lollis, con cui stavo semplicemente parlando, e cominciò a picchiarmi selvaggiamente”. Questa volta finisce al reparto craniolesi, con una mascella slogata e i timpani sfondati. Lo sfondatimpani, invece di venire associato alle patrie galere, approfitta del ricovero in ospedale per portarle via tutto, compresa la figlia Debora. Così Sandra ridiventa Salvatrice, Grande Madre mediterranea, e comincia a fare la spola tra i set e i tribunali, tra Roma e Atene, fino a quando, nei giorni confusi del colpo di Stato dei colonnelli, con una fuga rocambolesca riesce a riportare Debora in Italia. Ricercata dall’Interpol e dagli avvocati dello slogamascelle, deve darsi per qualche tempo alla macchia, in una Regione specializzata in questo genere di soggiorni, la Calabria. Alla fine, può tornare a casa senza essere arrestata solo grazie all’aiuto di un potente amico socialista, Giacomo Mancini; ma per chiudere definitivamente la questione con l’irriducibile Moris Ergas ci vorranno quarantaquattro processi.

Nei giorni della latitanza al suo fianco c’è anche il De Lollis, quello sorpreso in roulotte, rampollo della Roma bene, ramo cliniche private, con cui si sposa appena ottenuto l’annullamento del primo matrimonio. De Lollis esordisce in bellezza nel ruolo del marito: le impone di abbandonare il cinema. “A quel tempo si usava così”. Però non la picchia, e questo è un netto miglioramento. All’Amante d’Italia, che non sa cucire un bottone né cucinare un uovo sodo, non resta che provare a trasformarsi in brava donna di casa: “Mi tornarono in mente le ricette della mia nonna toscana e mi aiutai con l’Artusi”. Ma per essere brave bisogna poterselo permettere. Non è facile quando non si ha un reddito, quando i quarantaquattro processi pendono, quando De Lollis non sgancia e quando, soprattutto, l’avvocato Vassalli preme per essere pagato. “Chiesi un appuntamento per regolare la questione”. “Venga quando vuole”, rispose il futuro ministro della Giustizia. Trovano un accordo extragiudiziale.

Nel 1969 sul settimanale Oggi esce una foto che lascia sperare. Di tre quarti, con i capelli lisci, lunghi e neri, non culona e non tettona, per niente svampita, anzi asciutta e serissima, non ancora o non più deformata dalle visioni di registi, costumisti e chirurghi. Sarà l’effetto di quegli anni dionisiaci, ma non ha più nulla della Madonna Salvatrice, sembra una dea greca di quelle vendicative e cattive, una Nemesi, una Diana Cacciatrice, una Medusa dai capelli serpentini capace di pietrificare stuoli di maschi spregevoli con un solo sguardo. Ma dev’essere una breve parentesi se due o tre anni dopo, quando l’ineffabile De Lollis le proibisce di partecipare ad “Amarcord”, lei subisce senza fiatare, o non fiatando abbastanza, l’ennesimo ricatto. “Se avessi girato quel film con Federico mi avrebbe impedito di vedere i miei figli”. Allora Fellini assolda Magali Noël, e Sandra dà l’addio alla Gradisca e al grande cinema. De Lollis l’irriconoscente, in cambio, dà l’addio a Sandra, con un foglio lasciato sul letto alla vigilia di Pasqua: “Me ne vado, sarai contenta, addio”. Un’altra donna, meno Salvatrice, l’avrebbe denunciato per abbandono del tetto coniugale, gli avrebbe fatto causa per il mantenimento dei figli. Lei non chiede niente a nessuno, si rimbocca le maniche e affronta gli anni Ottanta fra radio, televisione e socialisti.

Craxi è il secondo segretario del catalogo (il primo era stato Mancini). Il Bettino conosciuto in gioventù è “grassoccio, sudaticcio, dalla mano umida”. Nella maturità, e nei ricordi di Sandra, suda di meno ma rimane lo stesso spiccio burbero di un tempo. Al Raphael, quando ha da fare, sfodera la frase che non ammette repliche: “Non ho tempo da perdere con le donne”. Lei non se la prende, è abituata a ben altro, e gli rimane fedele amica anche durante gli anni brutti, quando la corte di nani e ballerine si dilegua. Eppure della categoria inventata da Rino Formica viene considerata il più emblematico esemplare. Lei che è socialista dall’età di dodici anni: “La famiglia di mamma era molto fascista, quando arrivarono gli americani si chiusero tutti in casa a piangere, mio cugino che aveva quindici anni venne costretto a scavarsi la fossa dai partigiani. Domani ti ammazziamo, gli dicevano. Io non volevo intristirmi nella sconfitta, amici più grandi mi passarono i libri di Marx, di Engels, di Proudhon e trovai un nuovo ideale”. Lei che ha aiutato il partito più di quanto il partito abbia aiutato lei: “Quando Martelli e Balzamo chiedevano soldi io correvo a dare quello che potevo. Quando Formica aveva bisogno di voti, io andavo a presentarlo nel collegio. Gratis”. Mentre cerca di salvare loro non pensa a salvare se stessa, e in men che non si dica si ritrova tagliata fuori da tutto.

Da qualche tempo al suo fianco c’è un altro uomo, non famoso, più giovane: “Siamo stati insieme sette anni, nei primi cinque è stato straordinario e negli ultimi due mi ha rubato tutto. Una volta ripulita mi ha lasciato”. Fortuna che il mitico figlio Ciro, colui per cui fu lanciato il più memorabile dei telegridi, vince una sommetta al Totocalcio. “Avevo pregato Padre Pio”, dice la madre, e infatti per tutta la casa sono sparse le immagini del santo. Con quei soldi aprono insieme un ristorante italiano a Buenos Aires, assurda, personalissima Hammamet, senza nemmeno il conforto della copertura mediatica. “Perché l’Argentina?”. “Perché non ci conoscevo nessuno”. Lei fa la cuoca, ha una lista di trenta piatti e un solo sguattero come aiuto. Lavora fino alle tre di notte ma gli affari del “Porto Rose”, questo è il nome del locale, non decollano. “Dopo due anni mi trovo con l’acqua alla gola, svendo tutto a un uomo che mi dà giusto i soldi per i biglietti di ritorno”. Deve vendere anche le pellicce ma poi, in Italia, le cose ricominciano piano piano a girare: “I più mi hanno voltato le spalle, ma questo è normale, è la vita, l’importante è che qualche amico disposto ad aiutarmi alla fine l’abbia trovato”. Ogni tanto un’ospitata, un madrinaggio, un po’ di televisione con Limiti e Cucuzza. A breve comincia a girare a Bologna con Pupi Avati ed è il rientro nel grande cinema, trent’anni dopo la Gradisca perduta. Adesso l’unico uomo della sua vita è Ciro. Vivono insieme dalle parti della Laurentina, fuori del Raccordo Anulare, in fondo a una strada sconosciuta anche ai tassisti, in una villa rosa in mezzo ad altre ville rosa, unico segno di vita il rumore dei tosaerba, una Beverly Hills che profuma di abbacchio perché anche al sempre sorridente Ciro piace cucinare, sotto lo sguardo della Grande Madre, che tutto vuole salvare e che tutto, alla fine, certamente salverà.

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  • Camillo Langone
  • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).