Quel film di scandalo e virtù. “Il cacciatore” rivisto oggi

Andrea Minuz

Lo bollarono come “fascista”, poi si pentirono. Epico e maestoso come un romanzo russo, sentimentale fino
 al sadismo. Inno all’amicizia maschile più che manifesto contro la “sporca guerra”. Una pellicola per far piangere i maschi

Rivedendo “Il cacciatore” di Michael Cimino, tornato in sala in questi giorni, mi pare incredibile d’averlo visto un tempo in una piccola tv sgangherata, con la pubblicità, magari su Canale 5, o forse in uno di quei Vhs allegati con l’Unità di Veltroni nella “collana americana”. Come sono riuscito a non staccare gli occhi di dosso da un film di oltre tre ore in cui per almeno due non succede nulla? Com’è stato possibile sorbirmi una lunghissima scena di caccia senza caccia, quaranta minuti di matrimonio ortodosso a Clairton, Pennsylvania, e silenzi interminabili tra Robert De Niro e Meryl Streep senza uno straccio di “backstory”? Forse era questa la vita senza “second screen”. Niente notifiche sullo smartphone. Niente laptop. Solo io, la tv e “Il cacciatore”. Per ritrovare una condizione che ormai mi pare simile alla meditazione zen oggi c’è solo il cinema o magari un rehab (non è vero che andiamo al cinema per la “visione collettiva”, ci si va sperando che il film riesca a non farci guardare il telefono ogni due minuti). E rivisto al cinema, nello splendore del formato panoramico inventato non a caso per farci mollare il divano, “Il cacciatore” resta intatto. Non solo quella sensazione di incontrare vecchi amici e luoghi familiari che ci danno film e libri un tempo amati, ma l’orchestrazione di una potenza visiva come oramai capita raramente di vedere, al cinema o a casa.


Epico, solenne, maestoso come una sinfonia. Una “american tragedy” in tre grandi movimenti: casa, Vietnam, ritorno a casa/ritorno a Saigon. Ed è lungo, lunghissimo, certo. Però d’una lunghezza che non spazientisce, non innervosisce, ma ipnotizza, si sincronizza sulla nostra angoscia, atterrisce, quindi sprofonda nel buio, frana nella mestizia di quel “God bless America” cantato alla fine senza troppo convincimento, sotterrando l’amico morto a Saigon, come una versione “Michael Cimino” dello “Star Splanged Banner” suonato da Jimi Hendrix a Woodstock, con la malinconia degli emigrati russi al posto del blues (lo so, sto divagando come un Paolo Limiti del pop americano, chiedo scusa). I grandi film hollywoodiani degli anni Settanta, quelli celebrati da Tarantino nel suo “Cinema speculations”, avevano tutti un’altra idea di durata. Un po’ erano lenti e dilatati loro, un po’ eravamo assai meno smaniosi noi. Un altro cinema, un’altra economia dell’attenzione. “Il padrino” ci mette un bel po’ a farci vedere la prima pistola (e anche lì un lungo matrimonio iniziale). “L’esorcista” ha una lunghissima parte iniziale di visite mediche che neanche un documentario d’inchiesta sulla malasanità. Sarebbe impossibile convincere un ragazzino di oggi che si tratta di un “horror”. Persino in “Rocky” non succede nulla per tre quarti di film. Persino Spielberg, che è Spielberg, ci mostra Richard Dreyfuss che fa montagne di terra bagnate per un’oretta, in “Incontri ravvicinati del terzo tipo” (poi ci sono “Lo squalo” e “Star Wars” che sono due blockbuster degli anni Ottanta capitati per caso nei Settanta). Eppure, sono tutti grandi film. Film che non solo reggono gli anni che hanno, ma che anzi invecchiando acquistano fascino, ricchezza e potenza visiva proprio grazie a questa dilatazione dei tempi così anacronistica (anacronistica per un film hollywoodiano progettato per incassare, volendo c’è l’ultimo Wenders che vi inchioda passando stracci e scopettoni nei bagni pubblici di Tokyo). Oggi ci sembra che i film durino tutti troppo. “Oppenheimer”, “Napoleon”, il sequel di “Avatar”, l’ultimo Scorsese, persino gli ultimi “Mission Impossible” e “Indiana Jones” viaggiano tutti tra le due ore e mezza e le tre ore e venti. Anche i grandi kolossal del passato, “I dieci comandamenti”, “Via col vento”, eccetera, erano delle maratone forsennate. Ma erano appunto “kolossal”, non la norma.  Ora i film invece soffrono di un gigantismo che è imposto dalla concorrenza con le piattaforme e le serie. Ogni film deve essere percepito come “un evento”, perché l’atto stesso di andare al cinema è ormai “un evento”. Trasformare tutti i film in “kolossal” dalla durata interminabile serve a darci la conferma che siamo dentro un’esperienza non replicabile a casa, anche se uno poi finisce per rimpiangere tutti i comfort della visione casalinga, andare in bagno senza arrampicarsi sui vicini, alzarsi, sgranchirsi le gambe, agguantare una Viennetta dal congelatore, infilarsi sotto un plaid. 


La lunghezza del “Cacciatore” non era imposta dalla concorrenza dello streaming nel tentativo di trascinarci fuori casa per essere testimoni di un evento. Nella dilatazione dei tempi e delle azioni, Cimino non aveva in mente una contromossa per le frenetiche serie Netflix, ma i suoi amati romanzoni russi, il passo lento e maestoso di Tolstoj su tutti. Pagine e pagine di descrizioni, divagazioni antropologiche, lunghe presentazioni e introspezioni per conoscere i personaggi che si muovono sullo sfondo di grandi eventi. La festa di matrimonio all’inizio del film, prima ancora che dal “Gattopardo” di Visconti, scaturisce dalle pagine di “Guerra e pace” del gran ballo di Pietroburgo, quello in cui Natasha incanta il principe Andrej, col suo groviglio di personaggi che vengono fuori uno dopo l’altro. Non a caso Michael Cimino prende uno script che girava a Hollywood, una storia ambientata a Las Vegas (“The man who came to play”, di Louis Garfinkle e Quinn Redeker, venduto alla Emi nel ‘75), lo trasferisce in Vietnam e ci infila una comunità russa della Pennsylvania, coi personaggi che si chiamano, Mike Vronsky, Nick Chevatorevich, Steven Pushkov (diciamocelo: una cosa un po’ kitsch che però dà al film quella cifra straniante rispetto agli altri “Vietnam movie”). Della “sporca guerra”, della ferita americana o di Nixon, a Cimino gliene frega il giusto, cioè poco. Anche per questo ci inchioda per un’ora nella desolazione di Clairton, in un realismo davvero ossessivo, tra acciaierie, drugstore, camper, casette americane tutte uguali (e si capisce anche perché i tre amici vogliano andarsene in Vietnam). Dobbiamo affezionarci a quella comunità, ai suoi riti, a quel gruppo di amici e alle loro vite che stanno per cambiare per sempre. Dobbiamo volergli bene per commuoverci di più alla fine. “Movies are about people, there’re not about ideas”, diceva Cimino. 


Certo all’epoca il film fu letto tutto dentro il problema del Vietnam. Ma già a me che lo vedevo quindici anni dopo, e senza più lo spauracchio dell’Urss, pareva chiaro e lampante che “Il cacciatore” fosse un film sull’amicizia maschile. Il più grande “bromance” di tutti i tempi. E con un suo inno, “Can’t take my eyes out of you”, da cantare insieme ubriachi intorno a un biliardo, prima di finire in Vietnam (nelle varianti a seguire, da quella disco di Gloria Gaynor al remix dei Pet Shop Boys, la hit di Frankie Valli continua a parlarci di quello). Il lavoro in fabbrica, la caccia, i fucili, la guerra, un tripudio di amicizia virile, pacche sulle spalle e fiumi di birra (nel “Cacciatore” si beve di continuo, c’è De Niro che sponsorizza la “Rolling Rock”, la quantità di vodka ingurgitata nel matrimonio ortodosso annichilisce i cannoli del “Padrino”). Ma è anche un film sentimentale fino al sadismo, con lacrime davvero deamicisiane quando De Niro ritrova finalmente l’amico John Savage, ma senza gambe, sulla sedia a rotelle. “Il cacciatore” è un film per far piangere i maschi. Come nella scena di “Insonnia d’amore”, quando Tom Hanks prende in giro sua sorella perché, come Meg Ryan, singhiozza davanti a Cary Grant e Deborah Kerr in “Un amore splendido” ogni volta che lo rivede, ma poi gli vengono gli occhioni lucidi e lacrime a dirotto rievocando con l’amico a tavola Lee Marvin che si infila tra le linee naziste in “Quella sporca dozzina”. 


Il film di Michael Cimino era un bromance anche nella vita e sul set. La Emi non voleva ingaggiare John Cazale, all’epoca compagno di Meryl Streep, perché l’attore era molto malato, aveva un tumore terminale, non poteva garantire di finire le riprese in tempo, e infatti non vedrà mai il film. De Niro però pagò la copertura assicurativa, con un gesto davvero degno del “Mike” che interpretava nel film di Cimino, e regalò a Cazale l’immortalità cinematografica (scomparso a 42 anni, Cazale ha recitato solo in cinque film, che però da soli annichiliscono tante filmografie di premi Oscar, i prime due “Padrino”, “Quel pomeriggio di un giorno da cani”, “La conversazione” di Coppola e “Il cacciatore”). Insomma, sarebbe davvero riduttivo vedere il film come un documentario sull’America di fine anni Settanta. A Cimino interessavano il mito, l’intreccio tra il caso, la vita, la morte, lo sgretolamento di una piccola comunità. Era troppo ossessionato dai romanzi russi e dal diventare artista a Hollywood per fare film politici, pro o contro la guerra in Vietnam. Sapeva però che il Vietnam, in quel momento, avrebbe accesso i riflettori sul suo film. E così fu. “Il cacciatore” si guadagnò subito l’etichetta di “film fascista”. Cimino non prendeva le distanze dalla “sporca guerra imperialista”, ma anzi i suoi personaggi sembravano convinti di andare laggiù per servire la patria. Gli americani non erano abbastanza brutti, sporchi, cattivi e colonialisti, mentre i vietcong, eroi della sinistra internazionale, erano troppo sadici e per niente eroici. Il critico Peter Biskind definì Michael Cimino, “il primo regista fascista, il nostro Leni Riefenstahl”. Per l’Unità “Il cacciatore” era un film che offendeva “i partigiani del Fronte di Liberazione vietnamita” e “una spudorata mistificazione degli eventi”. La sera degli Oscar ci furono grandi proteste di piazza, cartelli che invitavano al boicottaggio con su scritto, “no Oscar for racism!”, “emotional blockbuster fraudolent history”, e Jane Fonda scatenatissima. Il premio per il “miglior film” lo consegnò John Wayne. Un’apoteosi di fascismo. 


Cimino lasciava fare. Non poteva esserci pubblicità migliore. Le letture del “Cacciatore” come film “fascista”, con tanto di proteste ufficiali dell’Urss che si ritirò dal festival di Berlino sono note. Quando nel 1995, “Il cacciatore” esce in Vhs con l’Unità di Veltroni per la critica di sinistra è l’ora dei pentimenti. Presentando il film sul giornale, David Grieco ammetteva: “Sì, anni fa lo stroncai per ideologia”. Però certe cose non finiscono, fanno dei giri immensi e poi ritornano. Le accuse che alla metà degli anni Novanta sembravano assurde e invecchiate molto male, oggi sono tornate di gran voga: stessi slogan, stesse condanne del soggetto bianco-occidentale-coloniale, magari coi “partigiani di Hamas” al posto dei vietcong. 


Il pubblico invece sembrava più affascinato dalla roulette russa, come oggi con i challenge più spericolati su TikTok. Dando un’occhiata ai giornali italiani dell’epoca, un numero impressionante di emulazioni: a Roma un orefice si spara in testa giocando alla roulette russa nella sua gioielleria coi dipendenti. A Milano, un autista portavalori della Sperling & Kupfer si punta la pistola alla tempia sfidando i colleghi, dopo aver lasciato un proiettile nel tamburo. Muore al primo colpo. “Da giorni ripeteva che ‘Il cacciatore’ era il più grande film che aveva mai visto, c’era questo gioco che lo faceva impazzire”. Stessa sorte, pochi mesi dopo, per il titolare di una cartoleria di Latina, altro fanatico del film di Cimino. Come pure due giovani fidanzati a Torino. Lui preme il grilletto due volte, gli va bene. Lei è meno fortunata. Una follia collettiva che però, al culmine degli anni di piombo, passava quasi inosservata. I giornali erano pieni di morti violente, ferimenti, sparatorie, attentati.


Tra tutti i registi americani, Michael Cimino resta uno dei più misteriosi di sempre. Una figura enigmatica. Il Salinger di Hollywood. Un personaggio che sembra inventato da Thomas Pynchon o Don De Lillo: autore di un capolavoro e poi, subito dopo, di uno dei più maestosi, faraonici fallimenti della storia del cinema, “I cancelli del cielo”, melodrammone con poco plot sul Wyoming di fine Ottocento, uscito nel 1980, due anni dopo “Il cacciatore”. A quell’epoca un film ad alto budget costava nove milioni di dollari (“Rocky”, progetto in cui in pochi credevano, era costato poco più di un milione). “I cancelli del cielo” partì con un budget di dodici milioni. Quando uscì, la United Artists aveva speso oltre quaranta milioni di dollari per accontentare il regista. Un all-in puntando tutto su Cimino, dandogli carta bianca, convinti di cavalcare l’onda lunga del successo del “Cacciatore”. Il film fu un fiasco leggendario, subito ritirato dalla sale. Naturalmente sarà rivalutato anni dopo dalla cinefilia in quota “film maledetti”. Resta però celebre come caso-scuola nella storia dei grandi flop di Hollywood, anche grazie alla chiusura della United Artists, due anni dopo. Per tutti la colpa di quel collasso finanziario era da imputare al film (non era proprio così, ma siamo a Hollywood: “Print the legend”). 


Comunque, la storia d’amore tra Hollywood e Michael Cimino finì lì. Girò altri film (pochi), nessuno all’altezza del “Cacciatore”. Negli ultimi tempi, dopo una marea di interventi di chirurgia plastica e iniezioni di botox, sembrava un incrocio tra Cillian Murphy e l’imitazione di Valentino di Dario Ballantini. Circolavano voci su un suo cambio di sesso. Come all’epoca del “film fascista” lui lasciava fare. Quando morì, nel 2016, aveva passato gli ultimi vent’anni più o meno recluso nella sua villa a Hollywood, a scrivere racconti e sceneggiature che non avrebbe mai girato, e a rileggersi i suoi amati romanzi russi.

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