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la recensione

Ben scritto e diretto, “Fair Play” è sconsigliato alle coppie non ancora assestate

Mariarosa Mancuso

Il nuovo film di Chloe Domont riflette sulle conseguenze dell'ambizione femminile nelle dinamiche di potere di una coppia

Bisogna sapere che era al Sundance, il festival del cinema indipendente. Una volta frequentato dai distributori che a prezzi ragionevoli portavano a casa titoli “mumblecore”: due in una stanza, a mormorare frasi smozzicate, secondo l’uso del tempo. Quando le barriere d’entrata erano alte. Ora il festival voluto da Robert Redford è preda delle piattaforme con soldi da spendere. Ormai hanno capito che le produzioni interne hanno sempre quel retrogusto da produzione interna – da “originale Netflix”, come si diceva per certi film televisivi (sempre secondo l’uso del tempo). “Fair Play” – opera prima scritta e diretta da Chloe Domont – è costata a Netflix 20 milioni tondi. Per la cronaca, il record assoluto sono stati i 25 milioni di dollari spesi da Apple tv per “CODA”, il film con la figlia di genitori sordomuti che vuole sfruttare il suo talento di cantante – era il remake di un titolo francese, e fruttò a una piattaforma streaming il primo Oscar per il miglior film.A “Fair Play” non succederà. Per via di un paio di scene sexy, tra Phoebe Dynevor (da “Bridgerton”, la regista non vedeva l’ora di toglierle il corsetto e di vestirla da squalo della finanza) e Alden Ehrenreich (da “Ave, Cesare!”, i fratelli Coen gli avevano messo gli occhi addosso per la scena in cui deve levarsi l’accento campagnolo per pronunciare la frase: “Vorrei fosse cosi semplice”). 

   

  

Emily e Luke lavorano come analisti finanziari  nello stesso ufficio della One Crest Capital, spietata società di investimenti a New York. Poiché le regole aziendali vietano relazioni tra gli impiegati, sono segretamente fidanzati di notte, senza degnarsi di uno sguardo nelle ore d’ufficio. Fingono di non vedere, assieme a tutti gli altri manager, un impiegato licenziato che nel suo cubicolo trasparente distrugge il computer e tutto quel che di fragile ha a portata di mano. Il posto libero, e la promozione, vanno a Emily, più brava nel mestiere del fidanzato segreto. Luke fa le debite congratulazioni, poi la prende male, poi peggio. Presagio: l’anello di fidanzamento appena regalato dimenticato sul marmo del lavandino, mentre i due si rassettavano dopo il bollente incontro erotico che apre il film. Per un attimo non sembra neanche Netflix. In realtà – non sappiamo se per pruderie o prudenza della regista che conosce le regole delle piattaforme – davvero poco spunta dai vestiti. I litigi – coniugali o prematrimoniali – non dovrebbero essere sotto tutela, litigano anche i ragazzini senza bisogno delle serie o dei videogiochi. Abbiamo visto “La guerra dei Roses”, con Michael Douglas che per vendicarsi della coabitazione forzata taglia via i tacchi a tutte le scarpe di Kathleen Turner. Aspettavamo qualcosa di simile. Invece Luke si compra un corso da manager-guru, che dovrebbe insegnare la leadership. E convincerli che la nostra narrazione è quella giusta, la loro non vale niente.
 

Per questa scivolata, Chloe Domont andrebbe declassata almeno un po’. Sono le donne a pensare che non meritano il successo che hanno. I maschi vanno imperterriti per la loro strada, senza manuale e senza ripensamenti, anche se sono costati decine di milioni alla ditta (un “unicorno” che non era tale). Il quasi-licenziato Luke (era raccomandato, sperano vada via di sua volontà) le regole le applica alla bravissima Emily – l’ultimo affare le ha procurato un bonus di 500 mila dollari: “Ti vesti come un cupcake”. “Fair Play” è ben scritto e diretto, basato sull’esperienza personale della regista: “Lodano e ammirano la tua intelligenza e ambizione. Poi non reggono il colpo”. Sconsigliabile, comunque, alle coppie non ancora ben assestate. 
 

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