Ai tempi di Chaplin

Il cinema muto è morto da un pezzo ma c'è chi lo ritiene l'unico rispettabile

Mariarosa Mancuso

No caro Pirandello, il "film parlante" non ha ucciso il teatro. Cronache dalle Giornate del cinema di Pordenone

Come ogni anno, Pordenone richiama gli amanti del cinema muto. Alcuni così appassionati da considerarlo l’unico rispettabile e genuino. L’aggiunta dei dialoghi oltre a cambiare la recitazione – non c’era più bisogno di attaccarsi alle tende, dei gesti esagerati, del gran sbatter di ciglia – avrebbe contaminato la purezza iniziale delle immagini. Il “film parlante” avrebbe ucciso il teatro, temeva Luigi Pirandello (che invece è ancora tra noi, con l’aiuto di Ficarra e Picone).

Quest’anno le Giornate del cinema muto sono iniziate il 7 ottobre, e termineranno il 14. Sul manifesto, un Pierrot ispirato ai disegni per tessuti di Sonia Delaunay (rielaborati da Giulio Calderini e Carmen Marchese). Nel ricchissimo programma ci sono i primi western muti. C’è “What a Nurse!”, raro film en travesti con Syd Chaplin, fratellastro più anziano dell’universalmente noto Charlie (oltre a lavorare come attore, gli fece da manager). E ci sono due ricche sezioni dedicate alla Ruritania, e allo slapstick – inseguimenti funestati da bucce di banana e rastrelli dove inciampare, prendere una gran botta in faccia, reagire come i personaggi dei disegni animati. Gli eroi dello slapstick al massimo barcollano.

Direte, ma che ci vuole? “Gli eroi dello slapstick” – così si chiama la sezione che presenta queste pellicole – ricostruisce la storia del primo cinema comico. Nei primi anni del cinema i clown dominavano incontrastati. Assieme al varietà e al music hall, c’erano Cretinetti e Ridolini, nome italiano di Larry Semon. E i celebri fratelli Fratellini, di cui viene presentata una rara testimonianza su pellicola. Le strane coppie andavano fortissimo – il grasso e il magro come Stanlio e Ollio, oppure uno altissimo e uno bassino. Qualche rara donna, in genere dal fisico robusto – sulle belle ragazze in  ruoli comici si discute ancora adesso. Con gli uomini in abiti femminili si andava sul sicuro.

In Ruritania, cui è dedicata un’altra sezione, siete già stati di recente senza saperlo. Basta aver visto “Grand Budapest Hotel” di Wes Anderson, ambientato in uno staterello chiamato Zubrowka, piazzato da qualche parte sulla  carta geografica nell’Europa dell’est. C’era una Ruritania nel “Prigioniero di Zenda”, romanzo di Anthony Hope e un certo numero di film – il primo di Hugh Ford e Edwin S. Porter (regista a libro paga nella factory di Thomas Edison) è del 1913. I ricercatori ne hanno contate oltre 200.

Era la Ruritania il luogo adatto per inventare storie senza rischi: “Ogni riferimento a case regnanti o aristocratici realmente esistenti è puramente casuale”. Consentiva tuttavia di evocare sale da ballo lussuose, gioielli scintillanti, palazzi dove far vivere principesse in attesa di acrobatici spadaccini che correvano in soccorso, tradimenti e intrighi assortiti. Il genere si chiama “romance”, non è una reliquia d’altri tempi, visto che ricompare in libreria scalzando altri generi dai piani alti della classifica.

Non sempre si chiama Ruritania – era Freedonia per i Fratelli Marx (nel film “Zuppa d’anatra”). Ma certo i sovrani balcanici – veri o presunti o solo da operetta – nutrivano la fantasia delle ragazze di quei tempi. Il muto è finito da un pezzo, se non per qualche rarità nostalgica come “The Artist” di Michel Hazanavicious oppure “Juha” di Aki Kaurismaki. Ma anche un regista cileno impegnato come Pablo Larrain si è lasciato affascinare – in “Spencer” con Kristen Stewart – dalla principessa Diana.

“La stella del primo firmamento western” – parola di John Ford – si chiamava Harry Carey. Gran lavoratore – più di 50 titoli nel 1913 – era molto amato dai ragazzini che preferivano il cinema ai banchi di scuola.

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