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Venezia 2023

Polanski e Allen per divertirsi, l'energia di Cooper per farsi trascinare alla Mostra del cinema

Mariarosa Mancuso

Non si capisce la vibrata protesta di Pierfrancesco Favino sui ruoli da italiani veri affidati ad attori americani. Meglio puntare allora sugli impresentabili fuori concorso. Gli unici che rispettano la misura aurea dei 100 minuti

Recitare significa “fingere di essere qualcun altro”. Ai tempi di Shakespeare, Giulietta, Ofelia e altre signorine erano ruoli per giovanotti, alle donne era vietano il palcoscenico. Non si capisce quindi la vibrata protesta di Pierfrancesco Favino sui ruoli da italiani veri affidati a attori americani. “Ferrari” di Michael Mann è un film made in Usa, budget 90 milioni di dollari – basterebbero per finanziare tutti e sei i film italiani in concorso a Venezia. Un attore conosciuto significa più biglietti venduti e lì lo stato non finanzia un bel niente. Adam Driver è tutto men che una macchietta, e resta la Grande Domanda: ci sono attori italiani capaci di recitare in inglese, oppure Ferrari che era di Modena deve parlare broccolino? 
     

Altra polemica, per via di un naso. A Favino-Bettino Craxi, in “Hammamet” spuntavano senza scandalo solo gli occhi dal pesante trucco. Invece Bradley Cooper viene criticato se vuole somigliare a Leonard Bernstein in “Maestro”: la strepitosa carriera, il matrimonio, i giovanotti del direttore d’orchestra che cominciò sostituendo sul podio Bruno Walter, senza sdegnare la commedia musicale e la divulgazione. Vestito da marinaretto, con foulard al collo – quando gli anni 70 avanzano. 
   

Dirigeva in maniera spettacolare – altra scuola rispetto alla algida Cate Blanchett di “Tar”. Bradley Cooper, regista e interprete, mette nel film un’energia e un’allegria trascinanti: fascinoso con la bacchetta in mano, abile dietro la macchina da presa che partecipa all’azione. Metà del film è in bianco e nero. Due atti magnifici, e purtroppo un terzo atto, a colori perché così si vede meglio il pallore della moglie moribonda, banale e strappacuore.
     

A Venezia per divertirsi un po’ bisogna puntare su Roman Polanski e Woody Allen, gli impresentabili fuori concorso. Gli unici che rispettano la misura aurea dei 100 minuti, poco più di un’ora e mezza, in una Mostra dove scarseggiano montatori capaci. Roman Polanski (90 anni) ha diretto una farsa scritta con Jerzy Skolimowski (85 anni). Il veglione del 1999, quando il millenarismo si era mutato nella paura per il bug informatico, in un lussuoso albergo svizzero (uscirà da noi il 28 settembre). Woody Allen in “Coup de chance” mette in scena un marito parigino ricco e noioso – fine settimana in campagna a cacciare – e un leggiadro corteggiatore del liceo incontrato per strada, nel frattempo diventato scrittore (nelle sale il 6 dicembre).  
       

Non ha lo stesso dono della sintesi il film in concorso di David Fincher, “The Killer”. Tratto dal fumetto di Matz e Luc Jacamon – definito ovunque “comico” – tira fuori un film che parte benissimo. Un assassino a tariffa si prepara al colpo e spiega i segreti del mestiere, con voce fuori campo che accompagna l’intero film. Vestirsi da turista tedesco con cappellino, non lasciare tracce pulendo e disinfettando come la più ossessiva delle casalinghe, lavorare solo per soldi, combattere la noia. Dovrà fuggire e a uccidere in proprio, dopo un colpo sbagliato – il bersaglio a lungo atteso è stato raggiunto in camera da una escort che fa una mossa imprevista. Su Netflix il 10 novembre, preceduto da un passaggio nelle sale. 
       

“Priscilla” di Sofia Coppola racconta il matrimonio di Elvis Presley con una ragazzina texana conosciuta in Germania. Lui faceva il servizio militare e lei andava a scuola. Ennesimo caso di fanciulla ingenua con gli occhioni (e più tardi i capelli cotonati alti sulla testa). La regista vuole dar spazio alla ragazza corteggiata e alla donna trascurata, sotto la vigile sorveglianza della produttrice Priscilla Presley.

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