Il durian a volte è italianizzato in durione. In Asia è considerato il Re dei frutti. Per la prima volta è arrivato in Italia quello più prelibato, dalla Malaysia (foto LaPresse)

Il frutto proibito

Giulia Pompili

E’ possibile che non ne abbiate mai sentito parlare, ma il durian è il re dell’esotismo. Potrebbe essere il nuovo avocado, se non fosse nauseabondo

Come l’avocado e il mango, ha un grande vantaggio di marketing: ha un nome universale. Che vi troviate su un’isola sperduta dell’Indonesia o in via Paolo Sarpi, la parola “durian” rimanda sempre allo stesso frutto, verde fuori e giallo dentro. Come per l’avocado e il mango, l’argomentazione per suggerirne un uso quotidiano fa leva sui nostri sensi di colpa salutisti: fa benissimo, è pieno di antiossidanti, toglie la sete e la fame, ha un effetto lassativo quindi sgonfiante, ci riempie di vitamine, sull’isola di Java credono che abbia addirittura proprietà afrodisiache. Il durian, un frutto tropicale che si conosce ancora poco qui da noi ma che in Asia è “il re dei frutti”, ed è come il prezzemolo, si trova ovunque e si usa dappertutto, sulla carta ha tutte le caratteristiche per diventare la nuova big thing esotica da infilare nelle insalate bio e nei finger food fighetti da aperitivo in terrazza. Sulla carta, perché in realtà il durian ha un problema enorme, che mina non solo la capacità di mercato del frutto ma anche la socialità di chi lo mangia. Perché il durian puzza. Non puzza solo appena aperto, puzza mentre lo masticate, e se lo mangiate con le mani quell’odore vi resta addosso, per ore, e se avete anche il coraggio di baciare qualcuno con un po’ di dimestichezza nel sud-est asiatico c’è da giurare che vi dirà, subito dopo: cos’è ‘sto tanfo, hai per caso mangiato un durian?

 

“Com’è, ti è piaciuto?”, domanda il ministro dell’Agricoltura della Malaysia, Salahuddin Ayub, atterrato a Roma qualche giorno fa per celebrare la varietà di durian malesiano che ora è possibile importare in Italia. “Lo senti quanto è dolce?”. I primi esemplari di Musang King, durian freschi importati direttamente dalla Malaysia – che è il secondo paese al mondo per esportazioni del frutto esotico – hanno finito il loro viaggio in settimana in Italia. Finora, quei pochi esemplari che erano stati avvistati tra i banchi della frutta di Piazza Vittorio a Roma erano arrivati congelati dalla Cina, e per lo più cresciuti in Thailandia. Ma quelli malesiani sono più buoni, hanno un sapore più delicato, insomma puzzano di meno, ci spiegano. Inoltre non c’è paragone tra il sapore di un durian congelato e uno fresco. Sarà. Per ora, e chi segue le faccende asiatiche lo sa bene, il re della frutta è vietato addirittura portarselo in aereo: a Melbourne, l’anno scorso, hanno evacuato un’intera università perché c’era un intenso odore di gas, e poi hanno scoperto che era colpa di un durian. Stessa cosa in una biblioteca di Canberra, il mese scorso. A Singapore è proibito portare durian in metropolitana, e ultimamente anche molti hotel in giro per il sud-est asiatico hanno il famoso cartello di divieto con sotto l’immagine inconfondibile del durian: nelle stanze non si fuma e non si mangiano durian.

 

Ha tutte le carte in regola per diventare la nuova big thing esotica da infilare nelle insalate bio e negli aperitivi in terrazza

In Cina lo chiamano golden pillow, il cuscino dorato. L’aspetto del durian varia a seconda della varietà e del trattamento – ne esistono circa trenta tipi diversi – ma per tutti possiamo approssimare questa descrizione: il durian è uno di quei frutti che l’evoluzione ha ottimizzato per far sì che siano respingenti. La verde buccia esterna è spinosa, difficile da maneggiare, molto dura. Una volta aperto a metà si arriva alla parte commestibile, cioè alla polpa: due lembi fibrosi gialli – i due morbidi cuscini, appunto – circondano i semi. Il nome scientifico dell’albero dove cresce il durian è il Durio zibethinus, che fa parte della famiglia delle Malvaceae, un albero grosso (arriva fino a quaranta metri d’altezza) con foglie sempreverdi, e che secondo i testi di biologia ha un nome italiano. Zibethinus viene dalla parola zibetto, che sarebbe il nome comune della civetta africana ma anche, nello specifico, delle secrezioni delle ghiandole perianali dello zibetto: insomma la puzza che fa la puzzola africana. E quindi parlare di durian è sempre un parlare di puzze, o comunque di odori nauseabondi, che in qualche modo ci respingono (nel caso dello zibetto) oppure ci attraggono (nel caso dei frutti tropicali). “Oggi sono lieto di presentarvi il durian più pregiato al mondo, il Musang King”, ha detto martedì scorso il ministro dell’Agricoltura di Kuala Lumpur durante un discorso pronunciato dritto sotto il sole estivo di Roma, nei giardini dell’ambasciata di via Nomentana. Alla cerimonia di presentazione c’erano l’ambasciatore pachistano, l’ambasciatrice indonesiana, ma nessun esponente del governo italiano. “Questa varietà di durian può essere prodotta solo in Malesia ed è molto apprezzata per il suo sapore denso, cremoso e agrodolce. E’ la scelta preferita degli amanti del durian in molti paesi. In effetti, sono molto orgoglioso di annunciare che cinque società malesi sono state autorizzate a esportare questi durian in Cina. La prima consegna di durian malesi è appena arrivata in Cina una settimana fa, e sarà il primo passo per un aumento delle esportazioni di frutti malesi”. L’obiettivo del governo di Kuala Lumpur è appunto potenziare l’export. Nel 2018 la produzione totale di durian in Malaysia è stata di 341 mila tonnellate, il 38 per cento in più rispetto all’anno precedente. Un quarto della produzione totale è dedicata ai re, al Musang King. Finora l’unico paese autorizzato a esportare il durian in Cina era la Thailandia. La Malaysia poteva esportare solo la polpa e prodotti congelati, ma non l’intero frutto fresco. Questo fino a un recente accordo tra Kuala Lumpur e Pechino, che per addolcire un rapporto piuttosto complicato tra il presidente cinese Xi Jinping e il primo ministro malesiano Mahathir Mohamad, oltre alla modifica del contratto della ferrovia sulla Via della Seta, hanno scelto la “fruit diplomacy”. L’apertura del mercato cinese per il durian della Malaysia significa un contributo all’export del paese da quasi 120 milioni di dollari – ve le ricordate, vero, le arance siciliane che l’Italia esporta in Cina? – e mette Kuala Lumpur in diretta concorrenza con Bangkok. Nella prima ora di apertura delle vendite sulla piattaforma di commercio online cinese JD.com, il 10 giugno scorso, sono stati venduti dodicimila Musang King. Alibaba è pronta a potenziare il business. Ma mentre il durian thailandese ha ormai un suo mercato consolidato, la varietà di Musang King, il più pregiato, sarà venduto in Cina a ventinove dollari al chilo, puntando quindi alla classe media interessata alla qualità. Per prepararsi alla concorrenza spietata, scriveva all’inizio di maggio Khor Yu-Leng sul South China Morning Post, le società thailandesi stanno spingendo molto sul marketing con nuovi prodotti: gelati, hot pot, crepe, dolcetti, caramelle. Tutto a base di durian. Il must – che però è in giro già dal 2013, lanciato da un ristorante di Shanghai e quindi non lo menzionerei tra le novità – è la pizza con il durian. Che pare sia apprezzatissima, specialmente come dolce. Ora però la Malaysia punta all’Europa: l’export di frutta tropicale contribuisce notevolmente all’economia malese. Nel 2018, il settore agroalimentare ha contribuito del 7,8 per cento al pil, di questo, lo 0,38 per cento ha riguardato la frutta, e la produzione è sostenuta da Kuala Lumpur soprattutto nelle aree più rurali. Nel 2017 l’esportazione totale di frutti tropicali arrivava a 253 milioni di euro. “Tuttavia, solo il 5 per cento (12,4 milioni di euro) di frutta malese viene esportata nell’Unione europea”, spiega il ministro. “E le nostre esportazioni in Italia toccano il 4,6 per cento, pari a 566 mila euro. L’Italia è un mercato per niente esplorato dai frutti della Malesia”. Secondo il South China Morning Post, l’attenzione che il governo di Kuala Lumpur sta mettendo sull’export dei frutti tropicali serve anche per emancipare la Malaysia dal suo principale business all’estero, quello dell’olio di palma, le cui importazioni – senza alcuna base scientifica – sono state bloccate in tutto l’occidente, Ue compresa. Parlare di frutta, comunque, è sempre più piacevole.

 

Secondo uno studio di Nature, l’evoluzione ha dato al durian la puzza per far sopravvivere la specie. Troppa, per un tiramisù

E in effetti è una bella storia quella del durian, che ha a che fare con la politica, il business, ma soprattutto con l’evoluzione dei nostri gusti. E’ un passaggio obbligato dell’età adulta della globalizzazione, come quando da piccoli si odiavano i carciofi e poi, improvvisamente, sono diventati così buoni. Come quando si scappava via con orrore il più lontano possibile dal gorgonzola con i vermi, e quello con i vermi ancora no, è insopportabile, ma crescendo il gorgonzola si è trasformato in un formaggio desiderabile, di certo più del galbanino, meglio se accompagnato da un bicchiere di vino. E poi è impossibile non innamorarsi di questo frutto esotico brutto, nauseabondo, “la cosa più simile a una flatulenza” che però manda segnali contrastanti, perché poi il carico esotico che si porta dietro ci attrae, e anche il sapore pungente dopo poco lascia un retrogusto tutto sommato accettabile, e poi è pieno di antiossidanti e vitamine, quindi è irresistibile.

 

Il re dei re si chiama Musang King, ed è una varietà che cresce solo in Malaysia. I cinesi ne vanno pazzi, il business è enorme

Nel suo ciclo dei pirati della Malesia, Emilio Salgari parla spesso del frutto esotico e dell’albero del “durion”, di cui sono piene le foreste malesi. “A mezzodì Sandokan, dopo aver mandato due uomini alla foce del fiumicello e due altri nelle foreste per non venire sorpreso, armatosi della sua carabina, sbarcava seguìto da Patan. Aveva percorso circa un chilometro inoltrandosi nella fitta foresta, quando si arrestò bruscamente ai piedi di un colossale durion, le cui frutta deliziose, irte di punte durissime si agitavano sotto i colpi di becco di uno stormo di tucani”, scrive ne “Le tigri di Momprace”, dando all’albero e al suo frutto esotico il ruolo principale dell’ambientazione, nelle foreste del Borneo. L’arbusto, il “durion”, è alto e “dai fusti dritti, lucidi, carichi di frutta già quasi matura, proiettili eccessivamente pericolosi essendo rivestiti da punte durissime come se fossero di ferro”. Nel ciclo dei Romanzi d’Oriente, nel libro “Sul Mare delle Perle”, i protagonisti Durga e Amali spargono i durian sulla prua della nave mentre viene assaltata dai nemici: “Erano trenta, quaranta o cinquanta selvaggi, armati di mazze, di sciaboloni e di coltellacci. Non vedendo alcun indiano dinanzi a loro, si rovesciano sulla prora, invadendo la tolda. Le loro grida di guerra e di trionfo, da un momento all’altro, si cambiano in urla di spavento e di dolore. La loro invasione si arresta. Dai loro piedi nudi, tagliati, traforati, lacerati dalle durissime e acute punte dei durion escono ruscelli di sangue”. E per la verità, Salgari aveva ragione perché il durian uccide. Su internet è pieno di storie sulla letalità del frutto, legate al fatto che un durian che cade dall’albero, anche da una notevole altezza, può provocare serie conseguenze e in alcuni casi la morte. L’anno scorso nel Penang, in Malaysia, è morto un bambino di un mese perché un durian di due chili gli è caduto addosso. E insomma ogni tanto qualcuno viene ucciso, e nel periodo di maturazione le autorità circondano gli alberi con le reti protettive per evitare il peggio.

 

Salgari parla spesso dell’“albero del durion” e dei suoi frutti, simbolo della foresta del Borneo. Possono servire anche per uccidere

“So che gli italiani sono tipi avventurosi, ma anche esperti di gusto”, ha detto il ministro dell’Agricoltura malese. “Vorrei quindi incoraggiarvi a usare i frutti della Malesia nei dolci italiani preferiti. Per il gelato, la granita, le torte e le crostate. Potreste provare il nostro durian nel tiramisù. Rimarremo stupiti di quanto la Malesia e l’Italia possano unirsi attraverso i nostri frutti”. Ma se un tiramisù puzza, è buono lo stesso? Perché a parte l’epicità di Salgari – e infatti Sandokan mica lo mangia, il durian – il problema è sempre quello: la puzza.

 

Due anni fa Nature ha pubblicato un primo articolo scientifico sul durian. Gli scienziati volevano capire cos’è che rende così ripugnante l’odore del frutto tropicale di Sandokan, e così ne hanno mappato il genoma. Il genetista Bin Tean Teh, vicedirettore del National Cancer Center di Singapore, coautore dello studio di Nature, ha detto a Reuters che, se l’odore del durian è descritto spesso come una specie di puzza tra la cipolla e la zuppa, “una componente chiave dell’odore sono i composti volatili solforati, che sono stati descritti come una cipolla in putrefazione e uova marce”. Gli scienziati hanno identificato il gruppo di geni responsabili del tanfo provocato dai composti volatili solforati, e hanno scoperto che quei geni si attivano molto quando il durian arriva a maturazione. Il Musang King, per esempio, ha 46 mila geni, il doppio di quelli del genoma umano. L’odore, nella foresta, sarebbe stato potenziato dall’evoluzione per attirare gli animali, che mangiano il frutto e poi ne disperdono i semi. E’ lo stesso principio evolutivo della pianta del cacao. Farci il tiramisù, adesso, non vi sembra più una cattiva idea, vero?

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.