L'analisi
Così la Cina detta legge al Vaticano
Il vescovo di Shanghai arriva a Roma e chiarisce: “Lo sviluppo della Chiesa in Cina sia in linea la grande rinascita della nazione cinese”. È il programma di Xi. Ma come si concilia con la Lettera ai cattolici cinesi di Benedetto XVI del 2007
È questa la strada che porterà al raggiungimento di un’intesa diplomatica con la Repubblica popolare cinese, benché non in tempi brevi. È il grande sogno di Papa Francesco, ma anche di rilevanti settori “romani”, che spingono verso un superamento degli ostacoli che hanno impedito un dialogo franco con Pechino
Roma. Il cardinale Pietro Parolin, segretario di stato vaticano, ha auspicato il rinnovo e lo sviluppo dell’Accordo sulle nomine episcopali in Cina, puntando anche ad avere lì una “presenza stabile”, primo passo verso il cammino – presumibilmente lungo – che prima o poi porterà a stabilire relazioni diplomatiche fra la Santa Sede e Pechino. E’ il risultato del cammino di questi anni, di un’intesa che – relativa esclusivamente alla nomina dei vescovi – ha consentito di imbastire un proficuo dialogo tra le Parti anche se non sono mancati i colpi bassi da parte cinese (scelte di vescovi non concordate con Roma e relative risposte piccate).
Se però l’auspicio era quello di aprire il Grande impero alla Chiesa, il quadro si fa più complesso. Per comprenderlo è utile leggere il discorso che il vescovo di Shanghai (la più grande diocesi cinese), mons. Shen Bin, ha pronunciato due giorni fa in occasione del convegno internazionale “100 anni dal Concilium Sinense: tra storia e presente” che si è tenuto all’Università Urbaniana di Roma. Storia curiosa, quella del presule, ma anche emblematica della reale situazione sul terreno: mons. Shen Bin, da sempre figura organica al Partito, è stato nominato a Shanghai dal Papa lo scorso luglio, ma in realtà già tre mesi prima era stato trasferito alla prestigiosa sede per decisione unilaterale del Consiglio dei vescovi cinesi, organismo che la Santa Sede non riconosce. Lo stesso direttore della Sala stampa vaticana aveva fatto sapere che la nomina era stata comunicata solo pochi giorni prima a Roma. Altro che rispetto dell’Accordo, insomma. Per evitare ulteriori frizioni, considerato anche che Francesco è un fervente sostenitore dell’intesa e del suo sviluppo, si è deciso di mettere il cappello sulla nomina, anche perché il presule è assai sponsorizzato dalla potente Comunità di Sant’Egidio, che da anni lo porta in tour a diffondere il verbo della Chiesa cinese organica al sistema di Xi Jinping.
Nel suo intervento di martedì, mons. Shen Bin non ha rinnegato le antiche idee, anzi: ha lucidamente illustrato la strada per la sinizzazione della Chiesa cattolica in Cina, sostenendo una linea opposta a quella portata avanti da chi risolutamente nega ogni possibilità di intesa con un regime che non si fa scrupoli a rimuovere croci dagli edifici di culto o a mettere ai domiciliari vescovi e preti quando sgraditi. “La Chiesa in Cina è sempre rimasta fedele alla sua fede cattolica, pur nel grande impegno di adattarsi costantemente al nuovo sistema politico”, ha detto prima di chiarire che “la politica della libertà religiosa attuata dal governo cinese non ha alcun interesse a cambiare la fede cattolica, ma spera solo che il clero e i fedeli cattolici difendano gli interessi del popolo cinese e si liberino dal controllo di potenze straniere”. Entrando nel merito della questione, mons. Shen Bin ha detto che “lo sviluppo della Chiesa in Cina deve seguire una prospettiva cinese. Nel trattare il rapporto tra Chiesa e stato, religione e politica, dobbiamo tornare a ciò che dice la Bibbia: ‘Date dunque a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio’”. Ancora, “lo sviluppo della Chiesa in Cina deve essere in linea con la Cina di oggi. Oggi il popolo cinese sta portando avanti la grande rinascita della nazione cinese in modo globale con una modernizzazione in stile cinese, e la Chiesa cattolica in Cina deve muoversi nella stessa direzione, seguendo un percorso di cinesizzazione che sia in linea con la società e la cultura cinese di oggi. Invitiamo i sacerdoti e i fedeli cinesi ad amare il loro paese e la loro Chiesa e a collegare strettamente lo sviluppo della Chiesa con il benessere del popolo”. Non solo, perché “lo sviluppo della Chiesa in Cina deve abbracciare il fatto di essere immerso nell’eccellente cultura tradizionale cinese”.
Si fa quindi riferimento al Concilio di Shanghai di un secolo fa: “Incoraggiare la Chiesa in Cina a esplorare l’uso della cultura tradizionale cinese nell’espressione della fede cattolica; sostenere l’adozione di stili tradizionali cinesi nell’architettura delle chiese, nell’arte delle chiese e nella musica, e promuovere la cinesizzazione dell’arte della Chiesa, integrare elementi della cultura tradizionale cinese nella liturgia della Chiesa. Tutti questi – afferma il vescovo – sono i metodi e gli strumenti più importanti per promuovere la cinesizzazione del cattolicesimo oggi, e sono anche l’orientamento dei nostri impegni futuri”. Infine, mons. Shen Bin ha sottolineato che “continueremo a costruire la Chiesa in Cina come Chiesa santa e cattolica, che sia conforme alla volontà di Dio, accetti l’eccellente patrimonio culturale tradizionale cinese e che sia benvoluta nella società cinese di oggi”. Il cuore del discorso del vescovo di Shanghai è in un passaggio preciso, quando ha detto che “spesso diciamo che la fede non ha confini, ma i credenti hanno una propria patria e una loro cultura che sono nate dalla propria patria”.
Non c’è nulla di nuovo in tutto ciò: nel 2018, sulla Civiltà Cattolica il gesuita Benoît Vermander scrisse che “rendere più cinesi le religioni non vuol dire semplicemente sviluppare un rituale locale e una prospettiva dottrinale, ma in primo luogo aderire alla definizione di cultura cinese proposta dalla stessa relazione del presidente Xi al XIX Congresso”. Definizione che è “di natura politica”. Dopotutto, notava Vermander, già dal 2015 la leadership di Pechino chiedeva alle religioni di sinizzarsi e da ultimo era stato lo stesso presidente a insistere su tale punto: “Noi sosterremo il principio che le religioni in Cina devono avere un orientamento cinese, e forniremo una guida attiva alle religioni, in modo che possano adattarsi alla società socialista”. A distanza di anni dalla richiesta di Xi Jinping, il vescovo di Shanghai, ospite a Roma e seduto al tavolo con il segretario di stato vaticano, riprende tale concetto benché inserendolo in una cornice d’ispirazione cattolica – “Lo sviluppo della Chiesa in Cina deve essere fedele al Vangelo di Cristo”, ha detto.
E’ probabilmente questa la strada che porterà al raggiungimento di un’intesa diplomatica con la Repubblica popolare cinese, benché non in tempi brevi. E’ il grande sogno di Papa Francesco, ma anche di rilevanti (per numero e influenza) settori “romani”, che da tempo spingono verso un superamento degli ostacoli e dei paletti che hanno impedito un dialogo franco e costante con Pechino. Il problema è comprendere quanto tale progetto possa conciliarsi con la Lettera ai cattolici cinesi di Benedetto XVI del 2007. Scriveva l’allora Pontefice che “la soluzione dei problemi esistenti non può essere perseguita attraverso un permanente conflitto con le legittime autorità civili; nello stesso tempo, però, non è accettabile un’arrendevolezza alle medesime quando esse interferiscano indebitamente in materie che riguardano la fede e la disciplina della Chiesa. Le autorità civili sono ben consapevoli che la Chiesa, nel suo insegnamento, invita i fedeli a essere buoni cittadini, collaboratori rispettosi e attivi del bene comune nel loro paese, ma è altresì chiaro che essa chiede allo stato di garantire ai medesimi cittadini cattolici il pieno esercizio della loro fede, nel rispetto di un’autentica libertà religiosa”. Non proprio il programma del vescovo di Shanghai, mons. Giuseppe Shen Bin.
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