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la chiesa cattolica in cina

Il dilemma di Hong Kong sulla strada dell'avvicinamento del Vaticano a Pechino

Mentre si procede alla nomina concordata dei vescovi nella Cina continentale, un rapporto denuncia le pressioni alla libertà religiosa nella città autonoma

Matteo Matzuzzi

Due sono i punti cardine della strategia di Pechino: indottrinare e intimidire. Indottrinare attraverso la scuola e le chiese, intimidire usando la legge, gli arresti-lampo, i processi e le multe. Il dogma è quello della sinicizzazione, come spiegato da Xi Jinping già nel 2015

Roma. Lungo il percorso che negli auspici vaticani dovrà portare, prima o poi, alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche con la Repubblica popolare cinese, la variabile Hong Kong resta sempre sul tavolo di ogni discussione. Negli ultimi dieci giorni, la Santa Sede ha proceduto alla nomina di tre vescovi e all’istituzione – la prima dai tempi della Rivoluzione maoista – di una diocesi. Il problema è che la nomina dei vescovi, avvenuta nel rispetto dell’Accordo provvisorio del 2018 (e rinnovato già due volte), è stata possibile perché di fatto Roma ha accettato non solo le scelte “suggerite” da Pechino, ma anche la ridefinizione delle diocesi che da decenni va chiedendo il Partito comunista e che finora la Santa Sede aveva sempre rifiutato. E’ vero che ora i presuli sono in comunione con Roma e – come disse pochi mesi fa il segretario di stato Parolin – non ci sono più vescovi scomunicati in Cina, ma le nomine non sono altro che il via libera a quanto deciso dal regime, attraverso il Consiglio dei vescovi cinesi, che la Santa Sede non riconosce. E’ puro realismo politico: senza riorganizzazione territoriale diocesana, non ci possono essere i vescovi. E senza vescovi le diocesi (un terzo circa) restano vacanti, con migliaia di fedeli senza guida e condotti nell’orbita dell’Associazione patriottica. 

 

Meglio poco di niente, insomma. Il passo in avanti compiuto nell’ultimo periodo dimostra però, ed è l’altra faccia della medaglia, la debolezza di Roma nei confronti di Pechino, che non appare affatto desiderosa e impaziente di stabilire relazioni diplomatiche con la Santa Sede e la Chiesa cattolica. Il Papa lo sa, tant’è che più volte ha sottolineato che “i cinesi hanno quel senso del tempo che nessuno li affretta”, ma l’unica soluzione che vede è quella casaroliana dei “piccoli passi”, e cioè di percorrere la “strada possibile, non ideale”, perché “la diplomazia è l’arte del possibile e fare che il possibile divenga reale”. In mezzo alla marcia della speranza, però, resta Hong Kong. Un rapporto pubblicato pochi giorni fa dal Committee for Freedom in Hong Kong Foundation intitolato “L’Opa ostile: il Partito comunista cinese e le comunità religiose a Hong Kong” chiarisce che mai come ora, nella città che fu britannica, a essere colpita è la libertà religiosa. La “persecuzione” – così nel rapporto – non è grave quanto nella Cina continentale: non si assiste alla distruzione di simboli religiosi, alla rimozione di croci dalle chiese o al divieto di partecipare alle messe domenicali, ma si agisce in altro modo, ad esempio facendo pressione sui sacerdoti e sui pastori (cattolici e protestanti, in questo, sono accomunati, come dimostra la condanna a tredici mesi di carcere inflitta a un pastore protestante sulla base della legge sulla sicurezza nazionale) affinché promuovano durante le omelie e i sermoni le priorità del Partito comunista cinese. Vietato il sostegno alle cause dei diritti umani e della giustizia sociale. Nei programmi di studio delle scuole religiose sono previsti moduli sull’identità nazionale. Nelle aule è posta la bandiera cinese, l’alzabandiera vale per tutti. Due sono i punti cardine della strategia di Pechino: indottrinare e intimidire. Indottrinare attraverso la scuola e le chiese, intimidire usando la legge, gli arresti-lampo, i processi e le multe. Lo ha sperimentato anche il novantenne cardinale Joseph Zen. La legge sulla sicurezza nazionale del 2020, che tante proteste ha generato, ha imposto prudenza, tant’è che – sostiene sempre il Rapporto – la Chiesa cattolica di Hong Kong “ha limitato le informazioni sulla persecuzione religiosa in Cina”.

 

Il dogma è quello della sinicizzazione, illustrato da Xi Jinping già nel 2015: le religioni sul territorio cinese devono essere libere da ingerenze straniere e, soprattutto, devono essere “cinesi”. Cosa significhi ciò lo descrisse già nel 2018 sulla Civiltà Cattolica il gesuita Benoît Vermander: “Rendere più cinesi le religioni non vuol dire semplicemente sviluppare un rituale locale e una prospettiva dottrinale, ma in primo luogo aderire alla definizione di cultura cinese proposta dalla stessa relazione del presidente Xi al XIX Congresso” e si tratta di “una definizione di natura politica”. E Hong Kong, volente o nolente, prima o poi dovrà adeguarsi. Il report mostra anche la preoccupazione di una considerevole porzione di cattolici locali per la scelta ventilata di aprire in un prossimo futuro un ufficio di collegamento della Santa Sede a Hong Kong. Se infatti la mossa potrebbe essere intesa come un gesto d’apertura e di attenzione per la causa della città, dall’altro lato c’è chi vi legge l’intenzione di compiere un passo decisivo in direzione di Pechino garantendo al regime che non vi saranno ulteriori “problemi” causati dal territorio autonomo.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.