La Chiesa dopo Francesco

Il pontificato denota segni di stanchezza e quelli che erano i punti di forza, oggi sono in crisi. L'unica vera rivoluzione portata a termine, che avrà conseguenze, è la demitizzazione del papato

Matteo Matzuzzi

L’insuccesso più doloroso riguarda l’Ucraina. L’interventismo di Roma ha scontentato sia Mosca sia Kyiv. Con effetti anche sul fronte ecumenico. Una distanza che s’è allargata anche con l’ebraismo

Il Papa afono, con la “bronchite acuta”, con l’ago piantato sul dorso della mano, che non va a Dubai per la Cop28 come tanto avrebbe voluto, allerta osservatori e aruspici. Una volta si traevano oroscopi scrutando il colorito del volto del vicario di Cristo, ora in assenza di bollettini medici, si guarda l’intensità delle occhiaie, si ascolta il respiro, si scruta l’agenda quotidiana per capire se e quante persone sono state ricevute in udienza.

  

Francesco sabato ha compiuto 87 anni. Parla di tombe già fatte preparare, a Santa Maria Maggiore (ma cinque anni fa diceva di aver già scelto un posticino nelle Grotte vaticane, tant’è che lì sotto è spuntato pure un sarcofago non memorabile quanto a stile e, come s’usa dire, concept. Meglio, di gran lunga, la Cappella paolina nella basilica liberiana, tra l’altro a due passi dalla teca contenente i santi resti di Pio V, il Papa di Lepanto e della messa tridentina. La bellezza e i paradossi della Storia). Francesco è il Papa regnante più anziano dai tempi di Leone XIII (1810-1903). Giovanni Paolo II morì a 84 anni e mezzo. Benedetto XVI si dimise a 86 e già allora pareva esausto. Il tema della salute papale è ovvio, anche se a Francesco sussurri e mormorii da memento mori non piacciono – “Alcuni mi volevano morto!”, disse quando in certi salotti cardinalizi si ragionava sullo stato di salute del Papa, debilitato dai problemi addominali e dalla gonalgia – e lo sarà sempre di più, man mano che il tempo passerà e Francesco sarà costretto a ridurre la mole di viaggi e impegni. America magazine si è chiesta se non sia giunto “il tempo di rallentare”. Per ora in programma nel 2024 c’è solo il Belgio, per l’Argentina e la Polinesia – non certo scampagnate da decidere la domenica mattina mentre si fa colazione in cucina – si vedrà. Già da tempo, del resto, non celebra più la messa, limitandosi a presiedere.

 

Si è entrati dunque in una nuova fase del pontificato, anche se Bergoglio appare ancora ben vigile e saldo al comando. Non sono di certo i tempi del crepuscolo giovanpaolino, quando dal Palazzo apostolico uscivano pacchi di nomine firmate dal Pontefice agonizzante né l’ultima stagione ratzingeriana, con il ruolo preponderante del segretario di stato. Qui c’è un Papa che convoca i cardinali di curia e alzandosi dalla sedia a rotelle comunica loro che è tempo di prendere provvedimenti contro Raymond Burke, che pure è cardinale. Via casa e stipendio perché è “un nemico”. Non “il mio nemico”, come riportato inizialmente. Un nemico che divide. Costi quel che costi, e in questo caso il prezzo da pagare s’annuncia salato, soprattutto negli Stati Uniti dove non mancano forza e sostanze per l’opposizione manifesta al suo pontificato e alla sua agenda. 

 

E’ un Papa che prende carta e penna e scrive che il Cammino sinodale tedesco lo preoccupa e che l’organismo tanto voluto dalla quasi totalità dei vescovi locali (il Comitato sinodale, fatto da preti, suore, laici e laiche) è contrario alla “natura sacramentale della Chiesa cattolica” (sic). Davanti alle critiche e ai sussurri di scismi imminenti, non si fa troppi scrupoli a porre sulla sedia che fu di Ratzinger al dicastero per la Dottrina della fede l’opposto di quest’ultimo, Víctor Manuel Fernández detto Tucho, che fu giudicato inadatto a reggere l’Università cattolica d’Argentina e che ora è custode dell’ortodossia cattolica. Un Papa che dinanzi all’accusa di scegliersi il successore – il che è falso, soprattutto perché in Sistina scattano sempre dinamiche non immaginabili in anticipo – non esita a derogare di quasi una ventina di posti il tetto massimale fissato da san Paolo VI, vestendo di porpora personalità per lo più affini al suo programma, che resta quello della poco letta e approfondita Evangelii gaudium. I cardinali tacciono, soprattutto quelli che da una vita frequentano i saloni della curia. Qualcuno, ironizzando ma neppure troppo, ricorda la definizione che gli antichi monsignori diedero di Pio XI, l’irascibile Papa Ratti: “Rex tremendae maiestatis”. La Roma vaticana è quella dei conciliaboli sui papabili e sulle conte di lontani pre conclavi, di chiacchiere su “candidati” e pettegolezzi sugli “altri”, cioè sui soldati del fronte opposto, qualunque esso sia. 

 

Francesco, specie negli ultimi anni, ha molto insistito sul concetto di sinodalità – non sempre bene inteso, “sinodalità è una cosa seria”, disse un cardinale orientale al concistoro dell’agosto 2022 – e collegialità, arrivando anche a presiedere un grande Sinodo sulla sinodalità che nella sua prima fase romana si è concluso con un documento transitorio e di certo non traumatico, tant’è che più o meno tutti si sono detti soddisfatti: non potrà essere così fra un anno, quando o i più novatori o i più conservatori saranno sconfitti rispetto alle loro istanze, a oggi non conciliabili. Sinodalità e collegialità che però non toccano il vertice della Chiesa, che mai come in questo pontificato è appannaggio del Papa e di una cerchia ristretta di consiglieri amici. La curia conta poco, è spesso bypassata anche nelle azioni più eclatanti e cruciali. Si pensi solo alla politica internazionale, quando Francesco ha nominato come proprio inviato speciale in Ucraina, Russia, Cina e Stati Uniti il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna. Una mossa che in Italia è stata compresa bene, considerato il curriculum del prescelto e la sua opera in Mozambico con Sant’Egidio, ma che altrove, nelle cancellerie occidentali, ha fatto alzare più di un sopracciglio: ma non c’è un segretario di stato, che per giunta è pure diplomatico di carriera? si chiedevano, ad esempio, a Washington. E in segreteria di stato, soprattutto fra i diplomatici che avevano stappato, e non solo metaforicamente, bottiglie di buon vino per la fine della stagione bertoniana e il ritorno in gran spolvero delle feluche lì dove sono sempre state, si masticava amaro. Si soffre la curia parallela di Francesco installata a Santa Marta. Si guardano con sospetto gli incontri pomeridiani che lì avvengono, le chiacchierate da cui non di rado escono poi nomine episcopali che pochi – anche tra i vescovi tutt’altro che ostili al sensus ecclesiae bergogliano – sanno spiegare. 

  

  

E’ la fase dell’accentramento del potere in poche e fidatissime mani. Non è una novità, l’esempio più celebre è quello di Pio X, che mise in piedi una “segreteriola” incaricata di condurre la battaglia al modernismo e di riferire a lui soltanto. Mentre la curia spesso apprendeva a cose fatte provvedimenti e decisioni firmati dal Pontefice, creando malcontento e alimentando quel dannato chiacchiericcio che mina pazientemente ma inesorabilmente il trono petrino. Curia che era tutt’altro che un monolite, come avrebbe dimostrato il Conclave del 1914, quando i “moderati” erano in maggioranza tanto da portare al Soglio colui che Papa Sarto aveva mandato a Bologna e per sette anni mantenne lì senza la porpora cardinalizia, Giacomo Della Chiesa.  L’interrogativo è, oggi, più di un secolo dopo, se tale modo di governare la Chiesa funzioni. Il pontificato denota segni di stanchezza su tutti i dossier principali, e anche quelli che erano i suoi punti di forza – riconosciuti da ogni essere pensante dotato di critica oggettiva – oggi appaiono in sofferenza. 

 

Sul piano internazionale, la spinta mediatrice d’inizio pontificato fra poteri in contesa è un lontano ricordo: il successo relativo all’aver fatto riavvicinare statunitensi e cubani è stato messo in ombra progressivamente dall’insuccesso sulla questione ucraina: non che si potesse fare molto, ché solo irenisti indefessi e uomini poco edotti in storia della diplomazia e della Chiesa avrebbero potuto sperare che la Russia ortodossa concedesse al Papa di Roma il diritto di farsi mediatore nella contesa. Ma Francesco non ha certo agevolato il ruolo prima della Segreteria di stato e poi dell’inviato speciale, fra battute sul patriarca Kirill (“chierichetto di Putin”) e incomprensioni continue con gli ucraini (“la Nato abbaia ai confini della Russia”, disse riportando una massima di qualche leader straniero da lui ascoltato) con danni evidenti sul versante ecumenico, come dimostra lo stallo pressoché totale nel confronto con le altre confessioni cristiane: rispetto ai primi anni del pontificato, il cambiamento è evidente.

 

Sul conflitto israelo-palestinese, il risultato è che i rabbini si domandano se abbia ancora un senso il dialogo ebraico-cristiano, con il segretario di stato che deve intervenire pubblicamente per sottolineare che “non è assolutamente a rischio”. Spiegazioni e puntualizzazioni su qualcosa che si dava ormai per assodato. Qui il punto è dolente, perché vi è una incomunicabilità di fondo che rischia di far durare i suoi effetti anche nei prossimi anni, quando prima o poi a Gaza le armi saranno state messe a tacere. Sia sul piano diplomatico sia su quello più alto del dialogo interreligioso, le relazioni appaiono assai formali. Il governo israeliano accusa di “ambiguità” la Santa Sede, il Papa – secondo quanto rivelato da una fonte al Washington Post – ha detto nel corso di una telefonata a fine ottobre al presidente Isaac Herzog che “al terrore non si risponde con il terrore”. E comunque, anche senza fonti anonime e ricostruzioni ex post, basterebbe quanto da Francesco detto il 22 novembre scorso al termine dell’udienza generale: “Questa mattina ho ricevuto due delegazioni, una di israeliani che hanno parenti come ostaggi in Gaza e un’altra di palestinesi che hanno dei parenti che soffrono a Gaza. Loro soffrono tanto e ho sentito come soffrono ambedue: le guerre fanno questo, ma qui siamo andati oltre le guerre, questo non è guerreggiare, questo è terrorismo”. 

 

E poi appunto Rex tremendae maiestatis. Non è solo la comunicazione sbrigativa data ai cardinali al termine della riunione interdicasteriale del 20 novembre scorso sulla punizione inflitta al cardinale Raymond Leo Burke, ma è qualcosa di più: è la possibilità di spogliare – umiliando – un cardinale dei diritti connessi al cardinalato sulla base di uno scoop giornalistico, nel corso di un’udienza vis-à-vis durata più o meno venti minuti in un tardo pomeriggio settembrino. E’ il caso di Giovanni Angelo Becciu, già potentissimo sostituto della segreteria di stato e poi prefetto dell’allora congregazione per le Cause dei santi. Il processo s’è fatto (ottantasei udienze, compresa quella di sabato scorso, l’ultima), tutti colpevoli tranne uno (mons. Mauro Carlino, già segretario dell’allora sostituto, assolto da tutti i reati contestati, mentre l’accusa aveva chiesto cinque anni e quattro mesi oltre a una pena pecuniaria), Becciu è stato condannato in primo grado per truffa e peculato a cinque anni e mezzo di reclusione, ottomila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici. E’ il primo cardinale nella storia a essere condannato da un tribunale vaticano, dopo che il Pontefice ha stabilito che tutti – anche i principi della Chiesa – devono, se necessario, essere sottoposti al giudizio di una corte e non solo a quello del vicario di Cristo in terra. Becciu colpevole e condannato, quindi, dopo una vicenda che è andata avanti per più di tre anni. Ma il Papa aveva già deciso, sulla base di un giornale e non ammettendo difese o discolpe

 

Sull’ultimo numero della rivista del Mulino, Alberto Melloni ha scritto: “A fine maggio Papa Francesco ha pubblicato la nuova Costituzione dello Stato della Città del Vaticano. Strumento solitamente decorativo, steso da una mano che ha voluto ridurre ancora un poco le funzioni della segreteria di stato, esso ha iscritto nel preambolo una tesi singolare sul piano istituzionale. La Costituzione infatti si apre dicendo che il Papa è ‘chiamato a esercitare in forza del munus petrino poteri sovrani anche sullo Stato della Città del Vaticano’. Quella che potrebbe sembrare una spiritualizzazione, coerente con l’azione riformatrice che segna il pontificato di Bergoglio, ha invece un risvolto opaco. Nessuno aveva saputo dire a maggio su cosa basare quella ‘vocazione’ temporale del Papa aggiuntiva rispetto a quella di pastore della Chiesa universale. Infatti nemmeno i più tenaci difensori del potere temporale hanno mai sostenuto che esso sia stato conferito a Pietro omogeneo al primato e alla infallibilità perimetrati dal Concilio Vaticano I. Nessuno è riuscito a capire chi sia stato il canonista spericolato che ha portato alla firma del Papa, con una formula – che Francesco definirebbe ‘ideologica’ – che va oltre la figura stessa del Papa-re, nella quale c’era almeno un trattino… Nessuno ha capito neppure il perché di quella tesi quanto meno audace, fino al momento in cui il prof. Diddi ha pronunciato la sua requisitoria contro il card. Becciu nel quale l’ex sostituto s’è trovato imputato non davanti al Papa, ma davanti a un tribunale dello Stato Vaticano”.  

  

 

Sul lato ecclesiale, i fronti aperti sono sempre gli stessi, i due poli di tensione che accompagnano il pontificato fin dall’inizio, ma che si trascinano da ben prima: gli Stati Uniti e la Germania. In America la faglia tra conservatori (e tradizionalisti) e liberal è andata ampliandosi, ma fin dal 2013 era evidente. Lo ha scritto di recente Massimo Faggioli, docente di Teologia e studi religiosi alla Villanova University, su Commonweal: “Non è un caso che le mosse di Francesco siano state dirette a due prelati statunitensi (Strickland e Burke, ndr). I loro casi fanno parte della questione più ampia di come si è evoluto il cattolicesimo americano conservatore, che può essere suddiviso in tre fasi generali. La prima è l’opposizione in Nord America a Francesco, il primo Pontefice latinoamericano, che nell’ultimo decennio è cresciuta in modo significativo. I primi segni di inquietudine erano evidenti nell’estate del 2013, ben prima che Francesco annunciasse cosa nei mesi a venire avrebbe innescato l’opposizione più forte e organizzata che vediamo ora”. 

 

E’ superficiale però sostenere che “la Chiesa americana” nel suo complesso sia ostile al Pontefice regnante. Tempo fa, su questo giornale, il vaticanista John Allen sosteneva che se è vero che la parte preponderante dell’alta gerarchia statunitense è poco in sintonia con l’agenda di Francesco, lo stesso non si può dire per la “base”. Juan Carlos Scannone, il gesuita maestro di Jorge Mario Bergoglio, negava che il discepolo fosse ostile agli Stati Uniti o che fosse un “anti yankee”. Semplicemente, diceva, “è contro tutte le egemonie” e quella americana è la prima e più rilevante sulla scena mondiale. Ma se all’inizio del pontificato l’incomprensione (per così dire) era ideologica e ridotta al fatto che tra i coetanei argentini di Francesco si sarebbero trovati ben pochi entusiasti sostenitori del modello statunitense, ora la questione è più delicata perché è inclinata sul piano religioso. Il vescovo Joseph Strickland, nella sua parresia social, non è stato parco quanto a critiche – veementi – sul Pontefice regnante, ma la sua rimozione paradossalmente favorirà l’irrobustirsi della logica da fortino: la minoranza battagliera perseguitata che è pronta a chiudersi nella ridotta, croce brandita a mo’ di vessillo, strali lanciati verso Roma e idealizzazione del vescovo “martire”. Lo stesso si può dire per il cardinale Burke: l’averlo definito “un nemico” non farà altro che renderlo ancora più forte presso quei settori che già vedevano nel porporato del Wisconsin un nume tutelare che guidava la resistenza spirituale alla mondanizzazione del papato. “Papa Francesco non sembra capire la Chiesa negli Stati Uniti, specialmente il suo rapporto con il Vaticano II”, ha scritto su First Things Jayd Henricks, presidente del Catholic Laity and Clergy for Renewal: “Questa storia che i vescovi americani siano fissati sulla sessualità è falsa. Sono i leader del Sinodo sulla sinodalità e molti dei delegati nominati dal Papa che si concentrano sull’omosessualità, il matrimonio e gli ordini sacerdotali. La principale priorità della Conferenza episcopale americana è la rinascita eucaristica, che cerca di riportare i cattolici al cuore stesso del cattolicesimo”.

 

Sul versante tedesco, poi, il Papa mostra sempre più preoccupazione con lettere private e placet a missive dei principali collaboratori di curia. La costituzione del cosiddetto “Comitato sinodale tedesco”, un organismo fatto da preti suore e laici chiamato a deliberare su questioni decisive per la Chiesa – nomine episcopali comprese – è stata definita da Francesco “contraria alla struttura sacramentale della Chiesa cattolica”. Il problema, qui, è che la quasi totalità dei vescovi è unita nel sostenere quanto deliberato dal Synodale Weg, il locale Cammino sinodale. Non sono bastate le lunghe missive ufficiali del Pontefice, né le note documentate degli uffici di curia. Neppure gli incontri, fraterni, che si sono svolti a Roma un anno fa. La Chiesa in Germania, sempre più in crisi quanto a vocazioni e partecipazione – ogni anno si toccano nuovi record quanto a “uscite”, cioè a gente che smette di pagare la tassa annua e quindi domanda di essere cancellata dai registri dei battesimi – cerca una soluzione innovativa per tamponare l’emorragia. Benedizione alle coppie omoaffettive, diaconesse, fine del celibato obbligatorio. Strumenti, questi ultimi due, che laddove sono la regola – le Chiese protestanti – non hanno in alcun modo sovvertito una tendenza al calo presente da decenni.

 

Non ci sono modi per arrestare la corrente impetuosa che scende lungo il Reno (anche perché è stato lo stesso Pontefice, nella Evangelii gaudium, a dire che è giusto riconoscere alle conferenze episcopali locali poteri anche in materia dottrinale), a meno di andare a un muro contro muro dalle conseguenze imprevedibili, forse anche uno scisma. Che però non converrebbe a nessuno. Il Papa difficilmente può imporsi lì manu militari, anche se qualcosa ha fatto scegliendo per le cattedre diocesane di Bamberg e Paderborn due presuli “novatori moderati”, uomini sì favorevoli al rinnovamento e alle riforme, ma con juicio. Senza colpi di testa e senza andare allo scontro, pubblico e istituzionale, con la Sede apostolica. Il problema è che la corda è già ben tirata, da ambo le parti: “Tra i conservatori e i tradizionalisti, specifiche critiche al Papa stesso da parte di eminenti vescovi e cardinali hanno ora incontrato specifiche punizioni personali. Tra i liberal e i progressisti, un ampio tentativo di liberalizzare gli insegnamenti morali della chiesa ha ora incontrato un rimprovero dottrinale generale. Ma in ogni caso si dovrebbe essere scettici sul fatto che la disciplina funzioni. Entrambe le parti noteranno, ad esempio, che criticare il Papa ti fa guadagnare un licenziamento, ma che l’apparente disobbedienza dottrinale merita solo una lettera formulata con tono severo”, ha scritto sul New York Times Ross Douthat. 

 

E proprio il Sinodo sulla sinodalità risulterà decisivo, per capire se le antitetiche spinte riusciranno a trovare un punto d’incontro o se l’unità sarà davvero impossibile attorno a quei pochi capitoli sui quali non solo s’accapigliano vescovi e cardinali ma che hanno un enorme risalto mediatico. Il Sinodo può fare tanto discernimento tra i suoi momenti di silenzio e le meditazioni di padre Timothy Radcliffe, ma poi qualcosa dovrà deliberare. E le decisioni che tutti attendono – a cominciare, ad esempio, dai cattolici di Germania – sono quelle note da tempo: ci saranno o no le diaconesse? E i viri probati? E la benedizione delle coppie omosessuali? Cambierà la morale? E il celibato sacerdotale obbligatorio, andrà avanti così com’è concepito ora? Non sono pruderie giornalistiche, ma sono le questioni che hanno portato l’episcopato tedesco ad andare avanti con il suo Cammino sinodale, spingendosi perfino contro – come ha scritto il Papa – la struttura sacramentale della Chiesa cattolica. Dopotutto, era stato il cardinale Reinhard Marx, quando a Roma si discettava “solo” di dare o no la comunione ai divorziati risposati, a dire che di certo non sarebbe stato il Vaticano a comandare i tedeschi. Il disegno di Francesco è chiaro, ancorché non esplicito: far confluire tutti i dossier più complessi e divisivi nell’Aula dove si fa sinodalità. E lì dibattere, pregare e cercare una linea comune. Il problema è: come si fa a trovare una sintesi fra il vescovo che si è detto più che pronto a benedire una coppia gay e l’arcivescovo camerunese di Bemenda (anch’egli padre sinodale) secondo cui “il matrimonio è l’unione tra un uomo e una donna e tutto ciò che si discosta da questo insegnamento è stregoneria”?

 

La caotica conclusione del pontificato bergogliano non può però essere una sorpresa, se si fa affidamento su quanto lui stesso disse al principio di tutto, poco dopo essersi affacciato benedicente alla Loggia centrale della basilica vaticana. Il programma era quello della Evangelii gaudium, ma il principio ispiratore è sempre stato quello di mettere la Barca in mare e andare al largo, senza mete prefissate, senza cartellini da timbrare e obiettivi da portare a casa entro determinate scadenze temporali. Nel dicembre del 2014, parlando alla curia in occasione degli auguri natalizi, disse che tra le varie “malattie” vi è quella della “eccessiva pianificazione e del funzionalismo: quando l’apostolo pianifica tutto minuziosamente e crede che facendo una perfetta pianificazione le cose effettivamente progrediscano, diventando così un contabile o un commercialista. Preparare tutto bene è necessario, ma senza mai cadere nella tentazione di voler rinchiudere e pilotare la libertà dello Spirito Santo, che rimane sempre più grande, più generosa di ogni umana pianificazione. Si cade in questa malattia perché è sempre più facile e comodo adagiarsi nelle proprie posizioni statiche e immutate. In realtà, la Chiesa si mostra fedele allo Spirito Santo nella misura in cui non ha la pretesa di regolarlo e di addomesticarlo – addomesticare lo Spirito Santo! – … Egli è freschezza, fantasia, novità”.

 

Ma il navigare senza meta ha prodotto sbandamenti. Il riemergere di tensioni mai sopite di cui s’è detto (Germania e Stati Uniti), la riforma della curia che dopo otto anni di lavoro ha prodotto solamente un maquillage con il cambio di denominazione degli uffici (le congregazioni diventate dicasteri) e poco più. Tanti slogan contro il clericalismo e il maschilismo, con l’assicurazione che la Chiesa è donna e che più donne devono avere ruoli anche apicali. Il tutto s’è risolto nominando qua e là qualche suora come segretario o sottosegretario di dicastero, e qualche laica dove possibile. E poi motu proprio uno dietro l’altro, interventi giuridici a processi in corso, riletture del diritto canonico che hanno fatto sobbalzare più d’un canonista, chiamato magari a inquadrare in una cornice di “continuità” e “normalità” le innovazioni.

 

E poi la scelta di compiere viaggi e visite apostoliche solo in determinati paesi, il che se all’inizio pareva denotare una volontà di guardare alle periferie esistenziali, sociali e geografiche, oggi appare avere risvolti molto più politici. Andare ovunque ma non in Europa, a meno che non sia l’Europa dei piccoli e deboli, magari quell’Europa refrattaria a commuoversi dinnanzi allo spirito comunitario dei Padri. Perché ribadire due volte di “andare a Marsiglia ma non in Francia”? Perché dire più volte e a diversi interlocutori che “non andrò in nessun grande paese d’Europa finché non finisco con i piccoli” ? Nei “grandi paesi”, quelli che hanno fatto la storia d’Europa, non ci sono forse cattolici che meriterebbero di vedere il vicario di Cristo tanto quanto i cattolici dei “piccoli paesi”? E’ una logica politica, la stessa che lo porta a guardare di traverso la globalizzazione à l’americana e a cercare costantemente un contrappeso forte alla potenza incarnata da Washington. Prima la Russia che si proponeva di evitare nuove guerre nel vicino oriente e che portava Kirill ad abbracciare il Papa di Roma a Cuba; quindi la Cina, “un grande paese” che Francesco vorrebbe tanto visitare e che finora il massimo che gli ha concesso è di sorvolare quel territorio quando va in oriente e di poter dire la sua circa le nomine episcopali nelle diocesi controllate da Pechino. “Non c’è dubbio che occorrerà mettere ordine in tutte le novità e orientare tutte le spinte che sono emerse nel corso del pontificato di Francesco insieme con le domande che arrivano dal basso. Alcuni aspetti andranno messi tra parentesi, altri invece ulteriormente sviluppati. Da quel ‘Fratelli e sorelle, buonasera’, pronunciato da Bergoglio il 13 marzo 2013, fino a oggi si sono create molte attese, alcune non soddisfatte, ma se è vero che la figura geometrica di riferimento per Papa Francesco è il poliedro, allora è importante cogliere le sfaccettature”, ha scritto il vaticanista Ignazio Ingrao nel suo recente volume “Cinque domande che agitano la Chiesa” (San Paolo, 2023).

 

Quale Chiesa Francesco lascerà quando – citando le sue parole nel corso della recente intervista a una tv messicana – il Signore dirà la parola fine? Senza fare i soliti discorsi sulla pratica religiosa agonizzante in occidente e rampante in Africa, senza mettersi a contare quanti aspiranti sacerdoti entrano qua e là in seminario – discorsi che si fanno da decenni e che dunque non dipendono di certo dal papato bergogliano – non v’è dubbio che la Chiesa di oggi sia diversa da quella del 2013. Si è a lungo sottovalutato l’abbandono di simboli derubricando il tutto a questione di moda, di fine del Carnevale o del Rinascimento. Via le scarpe rosse, via lo stemma sulla fascia, via la mozzetta rossa. Niente paramenti preziosi perché “preziosi” (salvo poi commissionare nuovi parati “poveri”, che però gratis non sono), niente croci d’oro (che c’erano già), povertà estremizzata e resa visibile. Tutti simboli che però avevano una ragione storica, se non teologica. Da ultimo, ed è cronaca recente, il Papa ha dato mandato di “semplificare il rito delle esequie” dei Pontefici, perché evidentemente lo ritiene troppo ridondante. Vi è come una sovrapposizione fra la persona che temporaneamente riveste il ruolo di vicario di Cristo in terra e la “funzione” stessa. E’ di certo la demitizzazione del papato, ma forse è anche la sua desacralizzazione: il Papa è uomo come noi e tale resta anche se ascende al Soglio. Così, se non gli piace il rito come confezionato, lo si cambia. Questione di gusti personali. Ovviamente, il vescovo di Roma può fare quel che vuole, ma il rischio è che col tempo non ci s’accorga più del confine che porta i vescovi a essere sub Petro. Resta solo il cum Petro, una sorta di orizzontalità dove molti si sentono “uguali” e quando il Papa invece “fa il Papa”, la sensazione è quella del disorientamento. Ha scritto il sacerdote Marco Leonardi: “Per il cattolico, il primato di Pietro è essenziale nel cristianesimo ma cosa si debba intendere con tale primato è oggetto di discussioni, di riflessioni, di ripensamenti: di storia. Quando nel 1531, in Messico, la Madonna apparve all’indio Juan Diego fu il vescovo del posto, Juan de Zumarrága, a decidere che era vero e che venisse eretta una cappella e costui non sentì alcun bisogno di consultare Roma come invece deve fare oggi come oggi qualsiasi vescovo del mondo in casi simili. E’ solo un esempio che aiuta a comprendere come l’intento di ‘desacralizzare’ la figura del Papa, che pare essere presente in molti dei gesti e dei comportamenti di Bergoglio, vada letto non semplicemente con la chiave della simpatia o della generica ‘comunicazione’ ma con quella dell’ecumenismo. Desacralizzare ‘la figura’ del Romano Pontefice non significa desacralizzare ‘il Papa’: significa trovare il modo di renderlo più vicino al Vangelo per come ne ha bisogno il mondo qui e ora”.

 

E’ questo, probabilmente, il cambiamento più sostanziale con cui dovrà fare i conti il successore e su cui discuteranno i cardinali prima di chiudersi in Sistina, quando sarà. Dopotutto lo riconosceva anche l’allora mons. Fernández, quand’era rettore dell’Università cattolica argentina: con Francesco, spiegava l’attuale prefetto del dicastero per la Dottrina della fede in un’intervista al Clarín del 2018, si è avuta “una demitizzazione irreversibile dell’ufficio papale”. E questo perché “Francesco non vuole essere un supererore”: “ha tolto al Papa l’aureola sproporzionata di santo, quella di un essere superiore e intoccabile”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.