(foto LaPresse)  

George Pell, un gigante della Chiesa

Poco diplomatico e rude, ma profondamente sincero. Ritratto di un fiero conservatore

Matteo Matzuzzi

Sfidò i suoi persecutori accettando la gogna pubblica. Sicuro che la verità, alla fine, avrebbe trionfato

Roma. George Pell non era un tipo diplomatico, uno che diluiva in melasse o citazioni letterarie ciò che aveva da dire. Non si preoccupava, insomma, di rendersi dotto davanti agli interlocutori o di sfoggiare conoscenze teologiche (che aveva, eccome) conversando con giornalisti o intellettuali. Parlava con tutti, senza anticamere o liste d’attesa, così frequenti tra i maggiorenti ammantati di porpora, che una volta accolto l’interlocutore poi ben poco hanno da dire. In Vaticano lo sapevano bene, e anche chi non aveva contezza del carattere spigoloso del cardinale australiano morto improvvisamente martedì sera dopo un’operazione di routine lo capì in fretta. Conservatore tutto d’un pezzo (e ne andava fiero), aveva cercato di portare novità nella vecchia macchina curiale, quando Papa Francesco lo chiamò da Sydney con l’incarico di  rimettere in sesto le finanze della Santa Sede. Ai monsignori abituati alle lettere su carta intestata con tanto di stemma in alto a sinistra, lui preferiva spedire email. E di questo, tanti porporati si lamentavano: cosa vorrà mai fare questo omone dell’altra parte del mondo, così rude e sbrigativo? 

 

George Pell aveva il pregio, in un mondo che non difetta quanto a ipocrisia, di rispondere perfettamente al comando evangelico di dire Sì, Sì, No, No. Quel che aveva da dire, lo diceva. A tutti: dal Papa in giù. Ce l’aveva con l’allora sostituto alla Segreteria di stato, Giovanni Angelo Becciu – che ora tramite agenzie lo affida alla misericordia divina –, e lo fece sapere pubblicamente. Anche se fu tra i primi  ad avanzare dubbi sull’evoluzione del poco giusto processo che lo vedeva imputato. 

 

Quando non era d’accordo con alcune idee in materia pastorale e dottrinale di Francesco, se interrogato in proposito lo diceva. Che non fosse in sintonia con l’attuale corso del pontificato su certe “aperture”, è cosa nota. L’aveva sempre detto, anche nelle aule sinodali che ospitavano prelati intenti a discutere di famiglia e altre questioni vitali per la Chiesa. Ma è stato anche l’uomo che – come riconosciuto dallo stesso Pontefice – ha salvato le finanze vaticane che rischiavano di mandare in malora tutto il Palazzo. Benedetto XVI, cui era molto legato, l’avrebbe voluto prefetto della congregazione per i Vescovi dodici anni fa, ma poi insorsero problemi di varia natura che fecero tramontare tale possibilità. E’ morto da innocente, dopo cinque anni di campagne costruite ad arte che l’avevano fatto passare per un mostro, pedofilo che molestava coristi minorenni nelle sagrestie delle cattedrali australiane. Ne seguì un processo ridicolo, costruito sul nulla e su accuse che nessuna persona dotata di un minimo di intelligenza avrebbe potuto prendere sul serio. Sarebbe bastato leggere le carte, i faldoni che contenevano ricostruzioni inverosimili, per scagionarlo subito. Giuristi e commentatori laici, perfino agnostici, erano inorriditi per la persecuzione che lo vedeva vittima. Lui avrebbe potuto restarsene a Roma, chiamare a raccolta giornali e tv e difendersi da un comodo salotto in Vaticano. Invece, prese un aereo e affrontò la gogna. Entrava in tribunale fra i cartelli di chi gli augurava, alternativamente, prigione a vita e morte. Lo condannarono due volte, uscì in manette con i fotografi che indugiavano su di esse, scalpo da esibire alla folla berciante. Non disse una parola ma scrisse i suoi diari. La sua vita in carcere, tra l’attesa per il tè pomeridiano e la cena servita troppo presto. Tra i rari momenti di svago e la preghiera. E la sofferenza per l’impossibilità di celebrare la messa per più di quattrocento giorni.  

 

Negli ultimi anni della sua vita, si apprende dal libro di mons. Georg Gänswein (Nient’altro che la verità, Piemme), il Papa emerito era solito farsi leggere libri ogni sera, dopo il vespro. E fra gli ultimi che apprezzò particolarmente vi fu proprio quello di Pell, la storia di un cristiano finito ingiustamente in galera. Una settimana fa era inginocchiato nella basilica vaticana davanti al feretro di Benedetto XVI, con gli occhi fissi sul volto del Papa che tanto aveva amato. L’ultimo atto pubblico della sua vita terrena è stato la concelebrazione del suo funerale. Ora, dopo le esequie in San Pietro, tornerà in Australia per essere sepolto nella cattedrale di Santa Maria, a Sydney. Nel telegramma di cordoglio inviato al decano del Collegio cardinalizio, Giovanni Battista Re, il Papa ha ricordato “con animo grato la sua testimonianza coerente e impegnata, la dedizione al Vangelo e alla Chiesa, e particolarmente la solerte collaborazione prestata alla Santa Sede nell’ambito della sua recente riforma economica, della quale egli ha posto le basi con determinazione e saggezza”. Francesco definisce George Pell “servo fedele che senza vacillare ha seguito il suo Signore con perseveranza anche nell’ora della prova”. “Grazie per la sua testimonianza”, gli disse infatti il Pontefice quando lo riaccolse a Roma dopo gli anni della passione subita in patria.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.