(foto LaPresse)

Ma la Cina vuole davvero dialogare con la Santa Sede?

Dopo il duro comunicato con cui il Vaticano ha denunciato la violazione dell'Accordo provvisorio, Pechino tenta di rimediare. Potrebbe non bastare

Matteo Matzuzzi

Il problema dell'installazione illegittima di un vescovo in una diocesi non riconosciuta dal Vaticano. La Santa Sede ha protestato, ma vuole continuare a dialogare. Costi quel che costi

Con un irrituale comunicato stampa, sabato scorso la Santa Sede ha denunciato la violazione da parte cinese dell’Accordo provvisorio relativo alla nomina dei vescovi sottoscritto nel 2018 e rinnovato per la seconda volta solo un mese fa. I toni sono durissimi, considerato che finora Roma aveva scelto di mantenere un profilo basso, negoziando a fari spenti ed evitando perfino di commentare ufficialmente l’arresto e la condanna del cardinale Joseph Zen, vescovo emerito di Hong Kong che da sempre si batte contro ogni forma di intesa con il regime di Pechino. Nel comunicato si legge infatti che “la Santa Sede ha preso atto con sorpresa e rammarico della notizia della ‘cerimonia di installazione’, avvenuta il 24 novembre a Nanchang, di S.E. mons. Giovanni Peng Weizhao, vescovo di Yujiang (provincia di Jiangxi), come ‘vescovo ausiliare di Jiangxi’, diocesi non riconosciuta dalla Santa Sede. Tale evento, infatti, non è avvenuto in conformità allo spirito di dialogo esistente tra la Parte vaticana e la Parte cinese e a quanto stipulato nell’Accordo provvisorio sulla nomina dei vescovi, il 22 settembre 2018. Per di più – prosegue la Nota – il riconoscimento civile di mons. Peng è stato preceduto, secondo le notizie giunte, da lunghe e pesanti pressioni delle Autorità locali”. Quindi, “la Santa Sede auspica che non si ripetano simili episodi, resta in attesa di opportune comunicazioni in merito da parte delle autorità e riafferma la sua piena disponibilità a continuare il dialogo rispettoso, concernente tutte le questioni di comune interesse”. Il cuore dell’Accordo – che il segretario di stato Pietro Parolin auspicava di poter migliorare rispetto alla sua forma originaria – prevede appunto che Roma e Pechino concordino sul nome di un candidato all’episcopato prima di procedere con l’ordinazione e quindi con la presa di possesso della diocesi. In questi quattro anni, il Vaticano ha concesso moltissimo alla controparte, raccogliendo risultati per ora modesti ma che – è l’auspicio di Roma – saranno  più concreti in futuro.

 

Tra i successi ottenuti, le sei ordinazioni episcopali avvenute “nello spirito dell’Accordo e in conformità alla procedura stabilita che lascia al Papa l’ultima e decisiva parola”, diceva il cardinale Parolin commentando il secondo rinnovo dell’intesa. E poi, aggiungeva, non va dimenticato che “anche i primi sei vescovi ‘clandestini’ hanno ottenuto di essere registrati e dunque di ufficializzare la loro posizione, venendo riconosciuti come vescovi dalle istituzioni pubbliche”. La cosa più importante, però, è che Roma poteva dire che dopo la  stretta di mano con i cinesi tutti i vescovi cinesi erano in piena comunione con il Pontefice e che non vi erano più ordinazioni episcopali illegittime. Dal tono del comunicato di sabato si comprende come la Santa Sede si senta tradita, avendo dovuto in quattro anni fronteggiare anche le non poche proteste interne di chi vedeva nella firma di un accordo per di più segreto nient’altro che un appeasement a un regime che se può eliminare le croci dalle chiese e costringere ai domiciliari vescovi ultranovantenni non si fa troppi scrupoli. 

 

L’installazione illegittima in una diocesi che la Santa Sede neppure riconosce conferma quanto è sempre stato chiaro, vale a dire che se per Roma l’apertura di un canale ufficiale con Pechino è essenziale, per la Cina non lo è affatto. L’atteggiamento delle autorità cinesi, infatti, è fin dall’inizio quello di chi vuol far intendere d’aver concesso qualcosa di poco conto, in cambio di un generale silenzio sulle politiche a danno delle minoranze portate avanti in patria. Ha scritto su Asia News Giorgio Bernardelli, che “nonostante il rinnovo dell’Accordo, è dall’8 settembre 2021 che non avviene alcuna nomina di un vescovo in Cina, nonostante il gran numero di diocesi vacanti. E che l’Accordo non è stato nemmeno nominato nei testi ufficiali dell’Assemblea dei cattolici cinesi tenuta a Wuhan nella scorsa estate sotto il rigido controllo del Partito”. C’è un elemento in più che chiarisce anche la portata della reazione inusuale della Santa Sede e che, al contempo, rende più intricata la vicenda. Mons. Peng, infatti, era uno dei cosiddetti vescovi “sotterranei”, nominato dal Papa nel 2014 vescovo di Yujiang e per questo finito anche agli arresti. Ora il presule ha aderito alla Chiesa ufficiale di stato in un rito presieduto dal vicepresidente della Conferenza dei vescovi cattolici cinesi, organismo non riconosciuto da Roma. Nel corso della celebrazione, mons. Peng ha giurato “di osservare i comandamenti di Dio, adempiere ai doveri pastorali del vescovo ausiliare, predicare fedelmente il Vangelo, guidare i sacerdoti e i fedeli della diocesi di Jiangxi, attenermi alla Costituzione nazionale, salvaguardare l’unità della patria e l’armonia sociale, amare il paese e la religione, e persistere nel principio delle chiese indipendenti e autogestite, aderire alla direzione del cattolicesimo del mio paese in Cina, guidare attivamente il cattolicesimo ad adattarsi alla società socialista e contribuire alla realizzazione del sogno cinese del grande ringiovanimento della nazione cinese”.

 

Pechino può dire di non aver violato l’accordo, dato che Peng vescovo lo era già (quindi non si tratta di ordinazione illegittima), ma solo di averlo installato in una diocesi diversa. Quasi fosse un tentativo di saggiare la reazione vaticana. Il fatto è che il  numero e la superficie delle diocesi in Cina è tema dibattuto da decenni: il governo le fa coincidere con le divisioni amministrative, Roma no. Una matassa parecchio intricata. La Santa Sede conferma ora la disponibilità a continuare il dialogo sulle questioni di comune interesse. Il punto è: a Pechino interessa discutere con Roma? L’apertura che c’è stata è su temi relativi alle nomine episcopali, non sul resto. Il Papa non può dire nulla su Hong Kong, niente sui vescovi locali arrestati né sul trattamento riservato alle altre minoranze (uiguri). Pena: la reazione delle autorità cinesi. Lo squilibrio tra le posizioni è evidente e nonostante la massima disponibilità di Francesco, Xi (o i vari potentati locali) non si fa troppi problemi a ribadire nel concreto che l’intesa con il Vaticano è affare del tutto secondario e minore. L’impressione è che l’unica Chiesa davvero accettata nel grande paese orientale sia quella che metta sullo stesso ambone il Vangelo e il libretto rosso di Mao. Proprio come il giuramento del vescovo Peng, fatto a Dio e alla Costituzione di Xi Jinping.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.