Scommettere sulla libertà. Gli ottant'anni del cardinale Angelo Scola

Gli incontri decisivi, la testimonianza di fede nella forma dell’amicizia civica, l’edificazione del bene comune vivendo il presente. Un cristiano al modo di Ambrogio

di Camillo Ruini

 

Il cardinale Camillo Ruini (Riccardo Squillantini / La Presse)

Sono molti i legami che mi uniscono ad Angelo Scola e i ricordi che conservo della nostra collaborazione. Un terreno particolarmente significativo ne è stato il “progetto culturale” della Chiesa italiana, un’impresa nata nel 1994 e conclusasi silenziosamente nel 2013, dopo aver avuto per anni notevole rilievo. Mons. Scola, prima vescovo di Grosseto, è venuto, o meglio è ritornato a Roma nel 1995, come Rettore della Pontificia Università Lateranense, della quale io come cardinale vicario ero Gran Cancelliere. Ci vedevamo spesso perché mons. Scola mi teneva puntualmente informato sulla vita dell’Università. Aveva preso molto sul serio il suo nuovo incarico e riuscì a rilanciare la Lateranense non solo sotto il profilo accademico ma anche ampliando e rinnovando gli ambienti che la ospitano.

In quegli incontri non si parlava solo dell’Università. Un argomento frequente era proprio il progetto culturale, allora al suo inizio. Scola ne condivideva in profondità lo scopo e il significato. Di più, lo concepiva in modo molto ambizioso e formulava proposte concrete. I rapporti tra fede e cultura erano infatti per lui una dimensione essenziale della vita dei credenti e della missione della Chiesa. Partecipava regolarmente alle riunioni che dedicavamo al progetto culturale.

Quando, all’inizio del 2002, diventò patriarca di Venezia e poco dopo cardinale, Scola non smise di interessarsi al progetto culturale. Al contrario, continuò a partecipare, per quanto possibile, alle riunioni e sostenne con forza l’importanza del progetto nel Consiglio episcopale permanente di cui ero entrato a far parte.

Quando poi, nel 2007, ha avuto termine la mia lunga presidenza della Cei e quindi la mia responsabilità per il progetto culturale, il cardinale Scola ebbe l’idea di cogliere invece l’occasione per dare un assetto più organico e rilevante al progetto stesso, istituendo un “Comitato per il progetto culturale”, la presidenza del quale venne affidata a me, ormai libero da altri impegni, mentre lo stesso Scola ne diventava membro. Così, dal 2008 al 2013, il progetto culturale ha conosciuto gli anni del suo maggior dinamismo, con la pubblicazione di tre volumi di Rapporto-proposta per l’Italia su temi come l’educazione, la demografia, il lavoro. Sono stati inoltre celebrati due convegni internazionali, dedicati il primo a Dio e il secondo a Gesù Cristo, che ebbero grande partecipazione.

Passando, nel 2011, da patriarca di Venezia ad arcivescovo di Milano, Scola si vide costretto, per il massiccio impegno richiesto dalla nuova sede, a rallentare la sua partecipazione al progetto culturale. Dopo meno di due anni, all’inizio del 2013, terminava il mandato quinquennale del primo comitato, ma non ne è stato mai costituito un secondo e così, come ho già detto, questa esperienza ha avuto fine.

A mio parere l’attenzione e la dedizione che Angelo Scola ha dedicato al progetto culturale mettono in luce alcuni tratti salienti della sua personalità e delle sue convinzioni. Scola pensa in grande, non si accontenta del piccolo cabotaggio e riesce a incarnare le idee in progetti praticabili, compresa l’individuazione delle persone adatte per realizzarli. È dunque un vero leader, capace però di collaborare con altri su un piede di parità e di impegnarsi su proposte che gli sembrino meritevoli, quale che sia la loro provenienza. È, o almeno è stato, un grande lavoratore, in grado di operare contemporaneamente e con intensità su diversi fronti, selezionando le cose importanti ed evitando così di disperdere energie.

A un livello più profondo, frequentando Angelo Scola mi è apparso chiaro che il punto unificante della sua persona è la dedizione alla missione di credente, di prete e di vescovo. I suoi interessi sono molteplici ma tutti finalizzati a testimoniare Cristo e la fede in Lui nel concreto della vita.

Testimonianza è per lui una parola chiave, anche sul piano teologico. Un aggettivo molto importante, soprattutto per qualificare quel che è, e a suo parere deve essere, la società attuale, è “plurale”: una pluralità che riguarda il fatto dell’immigrazione ma soprattutto il pluralismo dei convincimenti e delle militanze politiche, economiche, religiose, ciascuna delle quali deve trovare spazio nella società, a condizione di essere argomentata in termini ragionevoli e comprensibili a tutti. Personalmente ho qualche dubbio su questa condizione e penso che Angelo Scola l’abbia intuito, anche se non ne abbiamo mai discusso. Troppo più importante è ciò che ci unisce: al confronto quelle che ci diversificano sono soltanto sfumature.

L’autore è cardinale,
 vicario per la diocesi di Roma dal 1991 al 2008 e presidente
della Conferenza episcopale italiana dal 1991 al 2007

di Javier Prades

 

Angelo Scola arcivescovo di Milano (foto LaPresse)

La fede cristiana si verifica in quanto attesta la sua convenienza umana per il singolo e per il popolo. Il cardinale Scola ha sottoposto a verifica personale questa ragionevolezza della fede. Nel nostro mondo, dove di rado si riconosce il debito verso chi ci ha generato alla vita, alla fede, alla teologia, Scola rimanda ai vari incontri che hanno segnato il suo profilo personale, il suo stile teologico: Giussani, Balthasar, Giovanni Paolo II o Ratzinger-Benedetto XVI, per citare nomi decisivi. Da ognuno di loro ha assimilato un “pensiero sorgivo”, secondo sua felice formulazione. Tali incontri hanno fatto evolvere la sua riflessione e, reciprocamente, dall’interno del rapporto vissuto con questi giganti del XX secolo, ha saputo cogliere la loro impostazione, nei diversi testi a loro dedicati. Superfluo rilevare che in lui si è come “riprodotta” l’unità di pensiero e di vita dei suoi maestri, fino a diventare anch’egli padre e maestro di tanti nella vita ecclesiale e accademica. L’esito è un discorso teologico che sorge dal rapporto con la realtà vissuta nell’esperienza e tende a generare quest’esperienza.

Se l’esperienza è così decisiva come sorgente e come prospettiva ultima della conoscenza, non è casuale che si sia impegnato sistematicamente a pensare l’esperienza. Nel tentativo di superare l’estrinsecismo fra fede e ragione, fra grazia e natura, che aveva caratterizzato l’impostazione dominante della teologia nella prima metà del Novecento, favorendo in questo modo quella separazione tra fede e vita che il Concilio ritiene il più grave pericolo del nostro tempo, Scola richiama la possibilità/necessità di riguadagnare il nesso fra verità e libertà (storia). Non dimentichiamo che la fede cattolica implica la confessione della verità eterna, personale e vivente, nel tempo della storia.

Per assolvere questo compito studia l’esperienza umana comune, che qualifica come integrale ed elementare. Al di là del problematicismo moderno sulla natura dell’esperienza, Scola ritiene possibile questo percorso, seguendo una profonda e semplice constatazione di K. Wojtyla: “Eppure esiste qualcosa che può essere chiamato esperienza dell’uomo”. Dal fatto irriducibile che ogni essere umano agisce, arriviamo a sapere che siamo persone proprio quando ci scopriamo in azione – secondo un’antropologia “drammatica” e  relazionale. È nell’esperienza infatti che il soggetto si determina nei confronti della verità, in sé stessa indisponibile, ma offerta alla libertà che a essa si schiude e si affida (fede). Senza descrivere tutti i passaggi necessari, basti aggiungere che l’esperienza elementare si documenta in tre contenuti antropologici: gli affetti, il lavoro e il riposo, in base ai quali il cardinale ha cercato di interloquire sia con la gente comune nelle visite pastorali sia con i vari esperti in materia economica, giuridica, medica o politica.

In questo paragone sull’esperienza elementare, Scola ama la verità che sola rende possibile la libertà nella storia. Convinto assertore del carattere evenemenziale della verità ha sempre tentato di coglierla in atto, attraverso i processi storici, come esercizio di quella riflessione sull’esperienza che sfida la ragione all’approfondimento del vero. Ecco la modalità di maturazione ragionevole della fede, e di approfondimento dell’intellectus fidei. Consapevole inoltre che la verità – in quanto testimoniata – si dona nell’evento, ha sempre accettato il paragone pubblico con esponenti del mondo laico per un esercizio della ragione in atto, che è la migliore attestazione della ragionevolezza della fede.

Quali sono le conseguenze della testimonianza della verità come evento? In primo luogo, la verità vivente e personale, quando è riconosciuta e accolta, genera unità. La controprova di un uomo vero è la capacità di suscitare tendenzialmente legami di comunione, proponendo uno stile accademico e di governo ecclesiale che non si riduce alle solite immagini di “lavoro di squadra”, ma pesca nella convinzione che il soggetto comunitario è essenziale per identificare e seguire la verità. In secondo luogo, giacché la verità ha una natura teorica e pratica, Scola richiama la profonda unità fra teologia e vita pastorale, dove il contenuto teologico e il metodo educativo si richiamano a vicenda. La sua teologia non dà mai per scontato il soggetto che la elabora, orientandosi a far crescere quel soggetto che è la Chiesa stessa. Per tale maturazione del soggetto ecclesiale, considera le circostanze della vita come l’occasione privilegiata per riconoscere il Mistero, senza il quale l’uomo non riesce a darsi ragione del reale, e che nella storia ha svelato il suo nome: Gesù Cristo. Soprattutto le cosiddette “circostanze inevitabili” di tipo affettivo, lavorativo o di salute sono il luogo preferenziale (vocazionale) per il riconoscimento amoroso del disegno divino, in quanto “ciò che è dato corrisponde; corrisponde perché è dato”.

Una fisionomia come quella che abbiamo tratteggiato rende ragione della sequela che ha segnato lo sguardo di Scola su Papa Francesco in questi anni.

Ad multos annos!

L’autore è rettore dell’Università ecclesiastica San Dámaso
e professore ordinario di Teologia dogmatica.
È membro della Commissione teologica internazionale

di Sergio Belardinelli

 

Angelo Scola (foto LaPresse)

Ho avuto il privilegio di conoscere da vicino il cardinale Angelo Scola negli anni in cui insegnavamo entrambi presso il “Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi su matrimonio e famiglia”, del quale lui era anche preside, e, successivamente, negli anni in cui facevamo parte del “Comitato per il progetto culturale” della Chiesa italiana, presieduto dal cardinale Camillo Ruini. In questa nostra lunga frequentazione credo che siamo anche diventati amici, ma francamente l’unica cosa che di lui riesco a raccontare con una certa disinvoltura è l’intelligenza, quella che ho avuto modo di apprezzare tante volte, sia che egli parlasse di università, di chiesa, di politica o di filosofia, e che di certo irradia di una luce speciale anche la sua fede, il suo ministero pastorale e la sua persona.

Con un linguaggio appuntito e diretto, poco incline a salamelecchi d’ogni tipo, Scola non perde mai di vista il punto delle questioni, diciamo pure, aristotelicamente, la “cosa stessa”. Il massimo che si concede è qualche citazione letteraria, convinto, forse, che poeti e scrittori la sappiano più lunga di chiunque altro quando si tratta dell’uomo e della drammaticità della condizione umana. Ma per il resto è difficile trovare nei suoi libri o nei suoi discorsi anche solo una divagazione che possa in qualche modo alleggerire la fatica cui solitamente costringe il lettore e l’ascoltatore. Fatica peraltro ampiamente ripagata dalla soddisfazione che si associa al contatto con pensieri profondi e ben strutturati. Ne sanno qualcosa, credo, anche i lettori del Foglio.

Pur non avendo competenza per parlare della sua ricca e importante produzione teologica, ricordo con nostalgia i suoi interventi e le riunioni che facevamo all’Istituto “Giovanni Paolo II”, allorché la famiglia veniva da lui presentata come una sorta di icona dell’amore trinitario e nel contempo come un luogo realissimo, bello e faticoso, comunque privilegiato di manifestazione e di costruzione dell’umano. Le discussioni di quegli anni sulla cosiddetta “questione antropologica” avevano in lui uno dei protagonisti principali. Bioetica, famiglia, natura e cultura, religione e politica, nuova laicità: queste alcune declinazioni di quel tema che, a partire dal 1994, anche grazie a Scola, troveranno il loro sviluppo programmatico all’interno del Progetto culturale del Cardinale Ruini.

Divenuto patriarca di Venezia, in un tempo in cui, dopo l’attentato alle Torri gemelle, si faceva sempre più incalzante il rischio di uno scontro di civiltà, Scola diede vita nel 2004 al “Centro internazionale di studi e ricerche Oasis”, al fine di “promuovere la reciproca conoscenza e l’incontro tra il mondo occidentale e quello a maggioranza musulmana”, raccogliendo intorno all’omonima rivista un cenacolo di intellettuali tra i più prestigiosi in circolazione, non soltanto in Europa. Non un’operazione di facciata, ma una sfida a tutto campo, nella convinzione che, come disse nella presentazione del primo numero della rivista, il confronto con le culture “altre” non è mai soltanto un problema di tolleranza, di reciprocità o di integrazione; è certo anche questo; ma guai se resta soltanto questo, diventando magari un alibi per non mettersi in gioco fino in fondo, per nascondersi. È la nostra stessa umanità, l’umanità che condividiamo con tutti gli uomini del mondo, a esigere che, nel confronto con coloro che provengono da culture differenti dalla nostra, ciascuno di noi sia in primo luogo se stesso, un testimone creativo della propria identità. Su queste basi Oasis è diventata non a caso un riferimento fondamentale per chiunque sia interessato al dialogo tra le culture in generale e tra occidente e mondo islamico in particolare, senza alcun cedimento alla volgarità identitaria esclusiva, né alla melassa buonista e multiculturalista.

È solo un esempio per sottolineare la capacità che Scola ha di illuminare un problema, senza mai suggerirne soluzioni facili. Si vedano in proposito, tanto per fare un altro esempio, i suoi scritti sulla laicità e su religione e politica. Oggi quest’ultimo problema sembra superato, direi quasi per sfinimento dei due contendenti, ma nel suo saggio sulla “nuova laicità” si potrebbero trovare indicazioni preziose per riaccenderlo con giovamento di entrambi i fronti. Per non dire dei suoi scritti sulla famiglia e della sua antropologia teologica. Poca cosa ovviamente rispetto all’enorme lavoro intellettuale e pastorale del cardinale Angelo Scola, ma per me più che sufficiente per digli grazie dal profondo del cuore. Buon compleanno Eminenza!

di Eugenia Scabini e Giovanna Rossi

 

Foto: Gian Mattia D'Alberto / LaPresse

Molteplici i temi che il cardinale Angelo Scola nel suo itinerario di vita e di pensiero ha trattato e che toccano aspetti critici della contemporaneità. Tra di essi indubbiamente spicca il tema famiglia, vista come anello di congiunzione tra persona e società e analizzata a partire dal suo punto sorgivo, il rapporto uomo/donna. Si tratta del “caso serio dell’amore”, come suona il sottotitolo di un testo (Marietti, 2002) molto diffuso e che porge al largo pubblico le riflessioni argomentate con rigorosa sistematicità e con un taglio accademico nel volume Il Mistero Nuziale (1998-2000, 2014).

È caratteristica del procedere riflessivo di Scola questo andare al punto sorgivo, all’istanza di verità al cuore dei problemi, all’esperienza elementare dell’humanum, troppo spesso ricoperta da stratificazioni ideologiche.  Un po’, come vedeva Michelangelo il lavoro dello scultore,  impegnato a tirar  fuori dalla dura pietra la forma nascosta soggiacente, liberandola da sovrastrutture superflue.

Ancorato al punto sorgivo Scola non si perde nei meandri del fenomeno amoroso, ma ne disvela l’essenza descrivendolo come Mistero nuziale, intreccio indissolubile di differenza sessuale, apertura all’altro, e fecondità. Tale prospettiva osservativa e interpretativa, controintuitiva per la cultura contemporanea e non convenzionale,  getta  luce sugli aspetti fondanti la crisi della famiglia che oggi  si ritrova frantumata nella sua identità (se ne parla infatti in modo indeterminato con il plurale “famiglie”) proprio per aver eluso o sottovalutato questo punto nevralgico, passaggio  costitutivo del generare e, attraverso esso, del rapporto tra le generazioni e del legame della famiglia con la società.

Scola con coraggio e lungimiranza pone l’accento sulla differenza sessuale come dimensione irrinunciabile dell’io, non certo un io “spiritualizzato”, né un io collassato nel suo soma, ma un io-persona, corpo senziente e vivente, attraversato da desideri, emozioni e passioni.

Il corpo diventa così (e in questo Scola riprende il pensiero profetico di san Giovanni Paolo II nelle sue catechesi sull’amore umano), un potente rivelatore dell’uomo a se stesso, la pietra angolare nella costruzione della propria identità personale e sociale. E la rilevanza, l’ineludibilità di questo tema per l’uomo contemporaneo è ravvisabile, per così dire a rovescio, per esempio, nella ricerca spasmodica di una estetica quanto più possibile conforme ad un corpo stereotipato secondo i canoni del pensiero dominante.

Peccato che la teologia del corpo proposta da Scola attraverso le sue riflessioni teorico/filosofiche (si pensi ad esempio alla interessante distinzione, dal Nostro più volte evocata,  tra il termine differenza come dato intrapersonale e il termine diversità come dato interpersonale), per via del clima fortemente ideologizzato, abbia di fatto poco stimolato ad affrontare con più criticità  la problematica che investe la generazione umana che, come è noto, oggi con l’avvento delle nuove tecnologie riproduttive, è spesso sottratta all’unione dei corpi. Tale problematica travalica il tema della filiazione per la coppia omogenere che oggi tende a monopolizzare il dibattito, mentre ne è invece la punta “sintomatica”, nel senso che parla oltre che di sé anche di altro, e cioè dello smarrimento dei lineamenti costitutivi del legame uomo/donna.

Mettere tra parentesi la struttura originaria dell’umano, finisce per impoverire la ricerca di senso che caratterizza la specie Homo sapiens e a farne le spese è soprattutto la donna, che vede annebbiarsi la sua specificità risucchiata dall’omologazione imperante.

All’opposto Scola parla della donna come luogo elettivo della differenza, nominandola, con espressione suggestiva, come colei che “tiene il posto dell’altro”: Eva è l’altro di Adamo e l’altro è, nel suo senso ultimo, Dio. Questo modo originale di esaltazione del femminile fa comprendere come la relazione tra maschile e femminile non possa essere appiattita nell’indifferenziato e neppure racchiusa nella complementarietà, ma piuttosto va situata nella tensione della reciprocità, una reciprocità che, in virtù dell’eccedenza identitaria della persona,   travalica gli angusti confini della  pura simmetria.

Come non vedere l’attrattiva di una posizione come questa che scandaglia l’enigma misterioso della relazione tra i sessi sfidando lo scenario odierno fatto prevalentemente di prodotti clonati, nei qual  l’imprevedibile novità della generatività si dissolve in una riproduttività inquietante proprio per la sua assenza di tensione drammatica?

Farsi carico come fa Scola, di offrire una prospettiva di risposta agli interrogativi che stanno alla base del famigliare e che lo attraversano pur nelle molteplici forme che esso ha assunto e assume nel corso della storia e nelle  diverse culture,  è un atteggiamento esigente ma decisivo in un’epoca come quella attuale  di transizione caratterizzata da un lungo e laborioso travaglio che porta in sé, oltre al dolore, la speranza  di una nuova nascita.

E viene a proposito questa immagine che ripropone il generare e il rigenerare con il suo dato ineliminabile, originale, nel senso proprio “di origine” e fondamento della famiglia: ogni uomo è un generato, e i generati rimandano inevitabilmente ai generanti,  offrendo uno sguardo ampio alla storia che si tramanda tra le generazioni.

Nessuno si fa da sé: ognuno di noi è figlio e non può, pena un sofferto e pericoloso  processo di mistificazione,  che riconoscersi come un  “io in relazione”.

L’io in relazione: quante volte Scola ci ha richiamati a questa evidenza elementare?

Ripartire da essa ci consentirebbe  forse  di vivere meglio in famiglia e nella società e di mettere in atto quella Vita Buona che tutti, in fondo, desideriamo.

 

Eugenia Scabini
Professore emerito e docente di Psicologia dei legami familiari,
Università Cattolica del Sacro Cuore

Giovanna Rossi
Già ordinario di Sociologia della Famiglia,
Università Cattolica del Sacro Cuore

di Claudio Lurati

 

Entrata in Diocesi di Angelo Scola da nuovo arcivescovo di Milano, 25 settembre 2011 (Foto: Stefano De Grandis/LaPresse)

La mia esperienza di collaborazione con Oasis risale al 2004, cioè agli inizi della rivista stessa. E fu quella l’occasione per incontrare il card. Scola, all’epoca patriarca di Venezia. Da parte mia ero il responsabile regionale per i Missionari Comboniani in Egitto.

Ogni anno, gli incontri del Comitato scientifico di Oasis offrivano un’impagabile opportunità di incontro e di approfondimento sui temi più svariati. La rivista come tale e successivamente la fondazione erano proiettati nell’impegnativo compito di avviare un dialogo con rappresentanti di altre religioni e in particolare con l’islam.

Di quegli anni ho apprezzato tante cose, prima fra tutte la competenza con cui i diversi temi venivano messi a fuoco e lo spettro di letture che li accompagnavano: dal politico al sociologico, dal religioso al filosofico. Per me, non esattamente uno studioso, era una scoperta enorme.

Così nel tempo abbiamo accompagnato eventi e fenomeni importanti, quali le primavere arabe, la crescita del secolarismo, l’esperienza educativa, cercando di comprenderne tutte le implicazioni e sviluppi.

Questa apertura e questo desiderio di non lasciare nessuna dimensione umana inesplorata credo ritorni al fondatore di Oasis, il card. Scola, al suo stile rispettoso e capace di ascolto. Il tutto basato sul pregiudizio positivo che verso l’altro che mi racconta di sé, di ciò che vive e in cui crede.

Il rispetto per l’originalità di ogni posizione e competenza non escludeva l’avventura e il rischio della sintesi, senza la quale la vita non può divenire esperienza. La sintesi è un rischio perché potrebbe incorrere in qualche semplificazione ed è un’avventura perché la vita “esonda” sempre e non può essere arginata, rendendo ogni sintesi “superata” un istante dopo che è stata elaborata. Ma non se ne può fare a meno.

Tra le variabili irrazionali della vita vi è anche il fatto che io sia capitato a fare il vescovo in Egitto e per questo considero l’esperienza con Oasis una preparazione importante a vivere la realtà che ho difronte con rispetto e con maggiore consapevolezza della sua complessità.

L'autore è Vicario Apostolico di Alessandria d’Egitto

di Alberto Frigerio

 

Papa Benedetto XVI e Angelo Scola nel luglio 2007 (EPA/FRANCESCO SFORZA)

Dell’Autobiografia del card. Angelo Scola colpiscono due aspetti: il legame vitale con alcuni grandi maestri (H. de Lubac, H. U. von Balthasar, K. Wojtyla, L. Giussani, J. Ratzinger) e con tanti uomini e donne, con i quali nasce e cresce la fede del cardinale; la poliedricità della figura di Scola, la cui produzione teologica, il cui magistero e la cui pastorale si distinguono per varietà di temi trattati (autore di numerosi volumi e articoli teologici, pastorali e culturali), ricchezza di iniziative realizzate (co-fondatore della rivista internazionale Communio, ha dato vita allo Studium generale Marcianum e al Centro internazionale Oasis, ha promosso e compiuto l’erezione della Facoltà teologia del Triveneto) e alto profilo degli incarichi svolti (professore di teologia a Friburgo e Roma, vescovo di Grosseto, Rettore della Pontificia Università Lateranense, Preside dell’Istituto “Giovanni Paolo II” per gli Studi su Matrimonio e Famiglia, patriarca di Venezia, arcivescovo di Milano).

Questi cenni biografici consentono di cogliere due tratti peculiari della personalità del cardinale Scola: la concezione dell’amicizia ecclesiale come “medium intrinseco dell’evento salvifico di Gesù Cristo all’uomo di ogni tempo e luogo” (Chi è la Chiesa? Una chiave antropologica e sacramentale per l’ecclesiologia, p. 9); la convinzione che “tutto dell’uomo e tutti gli uomini sono interlocutori di Gesù” (Il campo è il mondo, p. 25). Detto altrimenti, la Chiesa è luogo dell’incontro con Cristo, che innerva l’intera esistenza: affetti, lavoro, riposo.

È quanto traspare nei Discorsi alla città, pronunciati da Scola in occasione della solennità di sant’Ambrogio, durante gli anni del suo episcopato milanese, in cui esorta i cristiani a vivere la testimonianza di fede nella forma dell’amicizia civica, volta a dischiudere percorsi di vita buona, da proporre a tutti i “fratelli uomini” (K. Barth). I discepoli di Cristo, in quanto figli di un Dio incarnato (Gv 1,14), sono chiamati a contribuire all’edificazione del bene comune, abitando la realtà costruttivamente e affrontando i cambiamenti epocali del tempo presente (civiltà delle reti, flussi migratori, globalizzazione, processo di pluralizzazione della società, mutamento dei costumi sessuali e del modo di intendere la nascita e la morte, inedite possibilità di mettere mano ai processi vitali) con l’intelligenza della fede. La Chiesa e i cristiani, che il poeta definiva “i più civici tra gli uomini” (C. Péguy), hanno la responsabilità di porsi alla “ricerca delle ragioni per una vita buona, personale e sociale” (Percorsi di vita buona. I discorsi di Sant’Ambrogio, p. 4).

In questa cornice s’inscrive l’azione ecclesiale di Scola, intento a vivere e comunicare la fede nella sua interezza, proprio sul modello di Ambrogio, che pose le sue competenze di uomo di stato e di governo al servizio della Chiesa, in un tempo di mutamenti continui e radicali, in ambito civile (guerre, carestie, pressioni dei popoli barbari) e ecclesiale (diffondersi dell’eresia ariana). Al modo di Ambrogio, il quale, a fronte del propagarsi della predicazione ariana, che riduceva Cristo al primo tra le creature, ne riaffermò la centralità nel piano salvifico divino (si legge nell’Explanatio Psalmi 43,39: “Semen omnium Christus”), Scola invita i cristiani a porre al centro dell’esistenza Cristo, principio di vita nuova, fattore di cultura e carità, socialità e operosità.

La fede investe tutta l’esistenza e il credente ha il compito di viverla nelle sue implicazioni (non conseguenze!) antropologiche, sociali e cosmologiche, ovviando all’interpretazione del cristianesimo come religione civile, secondo cui la fede dovrebbe fare da collante a una società disgregata (tale posizione, plausibile in chi non crede, è insufficiente per chi crede, in quanto separa il cristianesimo dalla forza sorgiva del fatto di Cristo), e a quella del cristianesimo come puro annuncio della Croce, secondo cui occuparsi ad esempio dei nuovi diritti distoglierebbe dal messaggio di misericordia di Cristo (tale posizione priva la fede del suo spessore carnale). A fronte di questa duplice riduzione, Scola richiama l’immagine montana, a lui cara, del crinale, che corre tra i due versanti descritti, che è tra i lasciti più preziosi del cardinale: “La via del crinale è quella di chi propone l’avvenimento di Gesù Cristo in tutta la sua interezza, irriducibile a ogni umano schieramento. In che modo? Il soggetto ecclesiale, vivendo i misteri della fede nella loro integralità, giunge a esplicitarne tutte le implicazioni” (Ho scommesso sulla libertà. Autobiografia, p. 12).

L'autore è Prete ambrosiano, medico e professore di Bioetica presso l’ISSR di Milano

di Jean-Luc Marion

 

ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

Avendo conosciuto Angelo Scola personalmente fin dall’immediato post 1968, prima a Parigi e poi in Italia, lo vedo ancora come il “lupo solitario” che sembrava quando andava avanti e indietro da un seminario (italiano) all’altro (università). Rapido, erudito, risoluto e discreto, appena ordinato sacerdote ma con il fascino di un outsider in missione radicale. Sono stato subito colpito dalla sua intelligenza, dalla sua cultura paradossale e ampia, dalla sua chiarezza di giudizio. Il suo lavoro pastorale lo portò poi più a fondo nell’Italia reale e nella Chiesa profonda, allontanandoci un po’. Ma quando nel 1995 fu nominato alla guida dell’Università Lateranense, gli scambi e le discussioni ripresero il loro corso, ancora più rapido, denso e teso, come se nulla li avesse interrotti. Mi sento quindi obbligato, in segno di amicizia più che per una reale necessità, a introdurre ciò che no ha bisogno di essere introdotto. Perché ciò che non ne ha bisogno merita una spiegazione della sua importanza.

Il titolo potrebbe essere fuorviante, se il sottotitolo non lo correggesse. Non si tratta solo della nuova laicità (benché se si tratti anche di questo): di fatto la successione di studi e discorsi che seguono questa prima domanda passa in rassegna tutti, o quasi, i temi per una società plurale. In effetti, questa è una domanda che ha ossessionato i cattolici fin dalla disgregazione della cristianità medievale: come può una società (o un certo numero di società interconnesse senza alcun legame organico tra loro, soprattutto gli stati nazionali) ammettere il suo pluralismo, sopravvivere in esso come situazione stabile e duratura, e tuttavia non cedere al relativismo delle norme, all’indifferenza morale? O ancora: come può il pluralismo ormai irriducibile (che sta per travolgere tutte le società che non l’hanno ancora raggiunto) di religioni, tendenze culturali, affermazioni scientifiche, modelli politici e opinioni pubbliche, lasciare un diritto e un senso agli elementi di consenso, senza i quali la società o le società affonderanno nell’anarchia o quantomeno nell’insignificanza? Infine, come possono i cattolici non solo sviluppare e far riconoscere la visione cristiana del mondo, della cultura, dell’umanità dell’uomo, ma anche salvaguardare la loro fede e la loro singolarità in un mondo senza norme? I primi cristiani conoscevano tale questione quanto noi, soprattutto quando, nel Secondo secolo, erano perfettamente consapevoli di comportarsi nel mondo come se non fossero in esso, ma secondo “una costituzione del loro modo di vivere politico che era sorprendente e, a detta di tutti, paradossale” (Epistola a Diogneto, c.5). Questo stesso interrogativo diventa ancora più urgente in un’epoca in cui la vecchia Europa ha visto sorgere in mezzo a sé lo spettro del nichilismo che, lungi dal dissiparsi, sta invadendo il mondo intero, a quanto sembra irreversibilmente. La questione del “pluralismo” e del “relativismo”, come siamo soliti dire quando non ci prendiamo il tempo di pensare a ciò che diciamo, significa per il filosofo la questione del nichilismo e per il teologo la questione della testimonianza della verità.

Ne è perfettamente consapevole Angelo Scola, che pone come tesi centrale, da cui seguiranno tutte le altre proposizioni, che lo  “…stato democratico è laico in virtù della sua identificazione con una qualche “visione del mondo”, ma non è affatto “neutrale” rispetto ai suoi valori fondamentali” (op. cit., p. 21). Comprendiamo bene questa frase, semplice in apparenza, difficile nella sostanza. In primo luogo, si tratta di un’esigenza, non di una dichiarazione: ciò che questa proposta definisce resta da stabilire, lungi dal descrivere la nostra situazione reale. Poi, due passi sono proposti come compiti. In primo luogo, concepire uno stato, in questo caso veramente democratico (libero, portato da associazioni reali, tra partner reali e non astratti, sognati o normalizzati artificialmente), che, poiché rifiuterebbe di conseguenza le ideologie e le utopie, rifiuterebbe anche il prestigio e le illusioni delle Weltanschuungen, le rappresentazioni preconfezionate ma mai realizzabili che la volontà di potenza fa di sé, della società e del mondo, fino all’idolatria.

Pubblichiamo uno stralcio della prefazione di Jean-Luc Marion, accademico di Francia, a “Une nouvelle laïcité : Thèmes pour une société plurielle” (Liamar, 2013), di Angelo Scola

di Margaret Harper McCarthy

 

Foto LaPresse - Claudio Furlan

La femminista francese Luce Irigaray osserva che “secondo Heidegger, ogni età si preoccupa di una e una sola cosa. La differenza sessuale è probabilmente quella cosa nella nostra epoca”. Il cardinale Angelo Scola concorda. Ma per lui, la differenza sessuale non è solo una preoccupazione attuale (come i vaccini o il cambiamento climatico). Èvero, la differenza sessuale solo di recente, da Freud, è entrata nella mente di ciascuno. Per Scola, però, questa ritrovata attenzione è stata l’occasione per vedere una cosa “molto vecchia” per quello che è sempre stata. Con la differenza sessuale, tutto è in gioco. In effetti, non appena Simone de Beauvoir la minimizzò come “meramente” biologica, e la marxista Shulamith Firestone ne invocò la sua totale eliminazione – essendo l’ultima distinzione di classe – Scola pensava alla differenza sessuale nel suo senso più alto. Per lui, questa dimensione materiale dell’essere umano, la più animale, è l’incarnazione di ciò che è più alto in noi, una natura razionale e libera incorporata e aperta alla comunione degli individui. E non solo. La comunione incarnata di un uomo e di una donna rappresenta la relazione positiva del mondo finito con Dio; rappresenta anche Dio stesso, visto che l’uomo e la donna sono stati creati “a sua immagine”.

Il pensiero di Scola sulla differenza sessuale è stato influenzato da tre figure chiave: Luigi Giussani, fondatore di Comunione e liberazione, il teologo svizzero Hans Urs von Balthasar e Papa Giovanni Paolo II. Ciascuno di questi, a suo modo, pensava che la differenza uomo-donna fosse il segno supremo dell’inesauribile, inafferrabile “Tu”, irriducibile all’“Io”, pur realizzandolo. E ciascuno riteneva che il segno creaturale di questo compimento nell’essere-con non era affatto diminuito nell’ascesa verso l’alto, poiché quello di cui il segno era segno, discendeva ed entrava in esso, essendo “nato da donna”, e poi saliva con esso – in tutta la sua carne maschile – unito alla sua natura divina, ma mai “confuso” con essa.

Giussani ripeteva costantemente quanto la realtà del segno – specialmente quello dell’uomo per la donna e della donna per l’uomo – fosse approfondita, non diminuita, dal suo essere relativizzato. Questa intuizione ha contraddistinto profondamente il pensiero e la vita di Scola.

Balthasar ha ancorato la differenza in Dio stesso. In Dio, che è trinitario, dove c’è un’assoluta identità di sostanza, e una differenza personale perfetta, la differenza è del tutto positiva. In questo modo, le differenze successive – tra Dio e il mondo, e tra i due nel mondo che fanno “più mondo” – sono buone. Non sono quindi destinate a essere vinte dalla (con)fusione. Più specificamente, il mondo come non-Dio, e la donna come non-uomo, sono un bene, un contributo veramente cristiano, per quanto il cristianesimo abbia impiegato molto per comprendere questo secondo elemento.

Giovanni Paolo II ha introdotto questa intuizione nel magistero della Chiesa. Ha collocato l’immagine di Dio non solo nella razionalità del singolo soggetto umano, ma anche nell’“unità dei due”, quell’analogo “uomo e molti” di creature che condividono una comune natura razionale ma la possiedono in due modi corporei distinti e correlativi; modi che li situano in e li invitano a un essere-con, che si apre ancora di più ad altri esseri con cui essere. Non a caso questo insegnamento è stato il più sviluppato nella sua lettera sulla dignità della donna, Mulieris dignitatem, dove è difficile non vedere la mano di Scola, che al momento della scrittura del documento era alla congregazione per la Dottrina della fede.

Scola ha unito tutti questi fili nella sua idea del “mistero nuziale”, che riteneva essere onnicomprensivo, filosoficamente e teologicamente, e al centro della sua missione accademica all’Istituto “Giovanni Paolo II” per studi sul matrimonio e la famiglia, del quale fu tra i docenti fondatori e preside per sette anni mentre era al contempo rettore della Pontificia Università Lateranense. Quel “mistero” composto da amore, differenza e fecondità non può subire alcuna sottrazione senza cessare di essere se stesso. E, data la posta in gioco, non può farlo senza una negazione del tutto, della bontà della condizione creaturale nel suo rapporto con Dio. Particolarmente degna di nota è la distinzione costante che fa Scola tra “differenza” e “diversità”. Quest’ultima non “celebra la differenza”. Piuttosto, si allontana da essa, nell’in-differenza. Questo è rilevante soprattutto per tutti gli “orientamenti” e le “identità” oggi celebrate, ciascuna delle quali è in realtà una sottrazione dell’essere umano dalla sua effettiva condizione creaturale, come essere da, con e per un altro.

L’apertura alle “nuove forme di famiglia”, forme derivate da tali sottrazioni, è tutt’altro che “apertura al mondo”. È piuttosto una collusione con il dis-fare il mondo e la sua graduale evanescenza. Ciò dovrebbe essere abbondantemente chiaro in un momento come questo in cui stiamo letteralmente mettendo in discussione la realtà sotto ai nostri occhi: se un ragazzo è un ragazzo e una ragazza una ragazza. Dovrebbe essere anche chiaro quanto del mondo sia in gioco con la differenza sessuale. A questo nostro momento di cecità volontaria, il cardinale Scola ci ha ampiamente preparati. Dobbiamo adesso sperare che la Chiesa continui a imparare da lui, e con lui sia veramente aperta al mondo. Anche se la Chiesa, come pensava Chesterton, è l’ultima sulla terra “a difendere l’universo che ci guarda dritto negli occhi”.

L'autrice è professore associato di Antropologia teologica
all’Istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia (Catholic University of America, Washington D. C.).
Dirige Humanum Review

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