(foto d'archivio Ansa)

il foglio del weekend

Non resta che la giustizia di Dio

Matteo Matzuzzi

Cardinali a processo e inchieste eterne, così il Vaticano si adatta allo spirito dei tempi. Gogne comprese

“La Regina di Cuori, da ciò molto indispettita, ordina che prima sia pronunciata la sentenza e poi siano ricostruiti i fatti”. (Lewis Carroll, “Alice nel paese delle meraviglie”)



Pregusta i popcorn John Allen, capofila dei vaticanisti americani, quando ricorda che nessuno meglio di Giovanni Angelo Becciu sa dove sono sepolti i cadaveri in Vaticano – “Becciu knows about where the bodies are buried in the Vatican” – ha scritto su Crux. Linguaggio da thriller per dire che al processo che si aprirà in Vaticano a fine mese in relazione alla compravendita dell’ormai celebre palazzo londinese in Sloane Avenue sono attese molte sorprese. Il porporato sardo, cardinale a metà per volere del Papa senza che mai nessun esperto di diritto canonico abbia chiarito in cosa consista questa deminutio, preannuncia la volontà di difendersi con le unghie e con i denti dalle accuse di peculato, abuso d’ufficio e subornazione (offrire denaro a un testimone per indurlo a rendere una falsa testimonianza) messe nero su bianco da un comunicato d’oltretevere diffuso sabato mattina e poi certificato da quasi cinquecento pagine di ricostruzioni e testimonianze che delineano punto per punto e con dovizia di particolari il cosiddetto “sistema marcio”. 

Una liberazione, quasi, dopo nove mesi e mezzo dalla decapitazione pontificia avvenuta in un tardo pomeriggio settembrino quando, andato da Francesco con il solito dossier sui venerabili da beatificare e i beati da canonizzare, fu colpito dai fulmini papali: dimissioni imposte dall’incarico di prefetto della congregazione per le Cause dei santi, revoca (elegantemente fatta passare per “rinuncia”, come da antica prassi) dai diritti connessi al cardinalato senza però intaccare tutti gli altri privilegi, che in questo caso sono forma e sostanza: abito rosso, titolo di eminenza, abitazione vaticana. Situazione talmente surreale che mai qualcuno s’è preso la briga di spiegare – “Ma un domani, al Conclave, chi potrà dire a Becciu ‘tu in Sistina non entri’?”, osservava un porporato all’indomani dell’epurazione.  

 

Il cardinale dimezzato sarà processato e si vedrà se è un malfattore della peggior specie, ladruncolo familista come la gogna mediatica l’ha dipinto, o se invece la verità è un’altra. Non credendo alla chiaroveggenza né avendo alcuna pretesa di conoscere come siano andate davvero le cose, sarà utile seguire il dibattito in Aula, ascoltando anche la campana di chi va alla sbarra in ceppi, anziché fermarsi al ditino accusatorio dei forcaioli di professione. Non c’è da essere tifosi, non è il caso di arroccarsi attorno a una propria verità supportata solo da affetti, legami datati, partigianerie “politiche”. Insomma, si faccia come si usa nelle società civili dove l’imputato è solo una parte del processo e non il reietto da compatire e sanzionare. Tempo al tempo, memori che tante volte inchieste che sembravano perfette, con impianti a prova di bomba processuale, poi si sono sgretolate al primo refolo di vento. 

In ogni caso, la gestione della faccenda Becciu (e di tutti gli altri coimputati) è stata un macello, dove il più elementare dei diritti, quello della presunzione d’innocenza, è stato sacrificato sull’altare della forca mediatica. Intanto colpevole, è il giudizio corale. Poi si vedrà. E via con il solito spettacolo fatto di titoloni sui giornali ed efficaci estratti sui “magistrati porci”, sulle chat che si autodistruggono, sui bonifici alle coop del fratello fatti passare con causale “opere di carità del Santo Padre”, così da alimentare anche la pubblica ilarità e fornire sapido materiale per qualche talk-show. Precisazione ovvia: se fosse tutto vero, come emerge dalla ricostruzione dell’atto d’accusa, la faccenda sarebbe penosa prima ancora che criminale. Soprattutto per l’ex prefetto delle Cause dei santi, che immerso giorno e notte in quelle vite straordinarie ad altro avrebbe dovuto pensare e dedicarsi anziché ai palazzi londinesi, ai bonifici e ai giochi di potere. Come in ogni saga che si rispetti, anche qui  ci sono i complici, la dama nera, gli incontri notturni, tweet allusivi della serie so-ma-non-dico, eccetera. Fango in quantità industriale che spesso, almeno alle nostre latitudini, neanche un’assoluzione piena – spesso comunicata con un algido bollettino e conseguente trafiletto nelle pagine interne dei quotidiani – è in grado di togliere. Resta la macchia e con essa il sospetto eterno. 

Per nove mesi un cardinale di Santa Romana Chiesa è stato tenuto a bagnomaria, marchiato in fronte come ladro dopo che l’Espresso l’aveva messo metaforicamente in croce in una copertina recapitata, non si sa bene da chi, sulla scrivania della suite di Santa Marta dove alloggia il Pontefice. Che indignato per lo scandalo rivelato, sbatteva fuori dalla curia Becciu. Per quale motivo? Non si è mai saputo, a meno che Francesco non avesse già in mano – e non è escluso, visto che l’indagine era partita nel luglio del 2019  su denuncia dell’Istituto per le opere di religione e dell’Ufficio del revisore generale –  tutto quanto illustrato per sommi capi dalle autorità vaticane solo una settimana fa.  C’è da sperare, paradossalmente, che tutta la mole di accuse prodotte negli incartamenti del Promotore di giustizia vaticano  corrisponda al vero. Altrimenti sarebbe questo sì uno scandalo, la violazione più elementare di ogni diritto umano alla difesa e alla sacra presunzione d’innocenza. A meno di non essere in uno stato totalitario dove è sufficiente uno sguardo del capo supremo per destinare al cappio l’uomo finito nel mirino. Non dovrebbe essere il caso della Città del Vaticano, almeno fino a prova contraria. Il Papa è sì il supremo legislatore, ma non un ayatollah. 

 

 

Non si tratta di ergersi ad avvocati difensori di Becciu, che di avvocati ne ha già tanti e che per anni ha goduto di notevoli simpatie da certa stampa che ora, invece, lo scopre uomo nero del Vaticano. Il problema è più ampio e grave, non limitato al singolo uomo al centro dell’affaire: per nove mesi la Chiesa cattolica ha seguito il copione scritto da Lewis Carroll, quando in Alice nel paese delle meraviglie descrisse il processo surreale che portò la Regina di cuori a ordinare che fosse prima pronunciata la sentenza e solo dopo ricostruiti i fatti. Uno stillicidio in cui della versione dell’epurato è interessato poco o nulla, contava solo la grancassa di dettagli meticolosamente centellinati utili a definire il profilo del criminale. Nove mesi in cui si è detto e scritto di tutto, alludendo a scenari a metà tra il romanzesco e il criminale. Il tutto giustificato dal principio della “trasparenza”, eretta a stella polare con le fattezze da vitello d’oro da adorare e verso cui prostrarsi. Peccato che il risultato ottenuto sia l’opposto, e anziché la trasparenza s’è visto alzarsi solo un banco di nebbia, una sorta di cortina fumogena che non ha fatto capire niente. “Questo metodo non convince e non piace a chi dalla dottrina della Chiesa cattolica ha imparato a rispettare, sempre e per davvero, la dignità umana e i diritti dell’uomo. La presunzione d’innocenza è uno di questi diritti basilari. Noi lo abbiamo imparato da piccoli in una scuola cattolica”, ha scritto in un durissimo editoriale sull’autorevole aggregatore di notizie cattoliche relative alla vita della Chiesa (già benedetto dal Vaticano) il direttore Luis Badilla. 
E’ infatti questo il punto centrale: il metodo, che prescinde dalla colpevolezza o dall’innocenza di Becciu. Un metodo che ha davvero poco a che fare con i princìpi cristiani, come sottolineava su Start Magazine Geraldina Boni, ordinario di Diritto canonico, Diritto ecclesiastico e Storia del diritto canonico all’Università di Bologna: “Il Popolo di Dio ha diritto non tanto alla trasparenza – oggi molto di moda – ma a conoscere la verità dopo che essa è stata accertata. Mi sembra che questa possa essere una ricostruzione giuridica corrispondente a quella ragionevolezza che nella Chiesa traduce l’irrinunciabile conformità alla giustizia. La soddisfazione che qualcuno ha manifestato per questa condanna senza processo mi pare, oltre che senza giustificazione, non genuinamente cristiana”.

Insomma, brutto affare. E pensare che solo lo scorso aprile Giuseppe Pignatone scriveva sulla Stampa che “in una società conflittuale come la nostra” “indagini e processi sono utilizzati strumentalmente in ogni campo – economico, finanziario, sociale – e troppo spesso, per ragioni risalenti alla storia stessa del nostro paese, come arma di lotta politica. Accanto alle responsabilità di alcuni magistrati – che, ribadisco, vanno perseguite – emerge qui con forza il problema di un giornalismo più incline ad anticipare future (e solo eventuali) condanne, specie se in danno di un avversario politico, piuttosto che, come nota un grande giurista, Mario Chiavario, ‘a vigilare senza guardare in faccia nessuno, contro inerzie, insabbiamenti e depistaggi. Come è invece suo preciso diritto e dovere’”. Parole esemplari e coraggiose, da vero garante dello stato di diritto. Piccolo particolare, Pignatone è l’attuale presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano. Che deplora, indirettamente, tutto ciò che è accaduto in Vaticano da settembre a oggi, ruolo attivo dei media compreso.

Nei mesi scorsi si segnalava su questo giornale le criticità del sistema vaticano. “Le indagini sull’ormai famoso palazzo di Londra acquistato dalla Segreteria di stato vaticana nel 2018 non solo hanno messo in luce la debolezza del sistema giudiziario vaticano, ma hanno anche mostrato l’altra faccia della medaglia, con indagini sommarie e persecuzioni fuori da ogni procedura che rischiano di mettere in dubbio la credibilità e la coerenza della Santa Sede alla propria missione e indiscussa autorità morale a livello internazionale. Tanto più che tutte le persone indagate sono cittadini italiani, cioè europei e quindi stranieri per la giurisdizione vaticana”. 

Gli esempi non mancano, la lista è lunga: uomini un tempo fedelissimi e tenuti in palmo di mano, repentinamente liquidati il più delle volte nel silenzio tombale. Senza adeguate motivazioni. Di nuovo: il metodo. Perquisizioni al di fuori d’ogni regola, richieste d’arresto giudicate quantomeno irrituali, funzionari sospesi nel giro di qualche ora senza neanche sapere il perché. Quanto può essere credibile, allora, l’opera di “pulizia del magazzino”, per citare una metafora fatta propria dal Papa durante l’inaugurazione dell’Anno giudiziario, lo scorso marzo, se la trasparenza manca già quando si tratta di avviare le inchieste? Alla Santa Sede è sempre stata riconosciuta un’autorità prima di tutto morale. Ma se sotto ai colpi del giustizialismo più manettaro che esista al mondo inizia a traballare il rispetto dei più minimi – ma non per questo minori – princìpi del garantismo, crolla il sistema. E c’è ben poco da fare per recuperare. Possono fare ben poco anche le conferenze stampa in cui il cardinale Pietro Parolin annuncia di voler costituire la Segreteria di stato parte civile al processo che sta per iniziare “perché siamo vittime”. Il segretario di stato, comunque – che stando all’inchiesta non sapeva nulla di quanto facevano nel caso in esame  i suoi sottoposti – tra le righe ha fatto capire che più di un’ombra sull’iter seguito c’è: “Speriamo che sia breve, perché molte persone hanno sofferto. Bene che ci sia una decisione perché le autorità giudiziarie si sono prese più di un anno e mezzo per decidere. Sono molto triste per le persone coinvolte”.  Un anno e mezzo è tempistica propria, più che da realtà occidentale, dei regimi mediorientali, dove le garanzie per gli imputati sono dettagli interessanti solo per le agenzie umanitarie internazionali. 

Chissà che, se tra una riforma e l’altra, tra un motu proprio e una direttiva, non si riesca a tradurre nella realtà – anche senza cedere troppo al lirismo – quanto il Papa diceva pochi mesi fa nell’Aula delle Benedizioni: “Il linguaggio della pittura e della scultura spesso rappresenta la Giustizia intenta, con una mano, a soppesare con la bilancia interessi o situazioni contrapposti, e pronta, con l’altra mano, a difendere il diritto con la spada. L’iconografia cristiana poi aggiunge alla tradizione artistica precedente un particolare di non poco conto: gli occhi della Giustizia non sono bendati, bensì rivolti verso l’alto, e guardano il Cielo, perché solo nel Cielo esiste la vera giustizia”. Sarebbe un buon punto di partenza, questo sì all’insegna della vera trasparenza e del rispetto dei diritti di tutti.

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.