La resurrezione di Lutero

La minaccia alla Chiesa arriva dalla Germania, non dall'America. La soluzione possibile è il Sinodo convocato dal Papa

Matteo Matzuzzi

Perché la crisi tedesca – molto più di quella americana – rappresenta il vero “problema” per la Chiesa e, di riflesso, per il pontificato di Francesco. Indagine

La scorsa settimana, il presidente della Conferenza episcopale tedesca, mons. Georg Bätzing, è stato ricevuto in udienza dal Papa. E’ il secondo incontro tra i due, il primo dopo la pandemia. Un’udienza che dalla Germania non hanno voluto far passare in sordina, tant’è che sui media locali  è finita la foto del vescovo ritratto di spalle mentre saliva lo scalone che l’avrebbe portato dal Pontefice. Apparato teatrale confezionato ad hoc per dare la giusta solennità a un evento di rilievo. Perché è lì, a nord delle Alpi, che si gioca con ogni probabilità il futuro della Chiesa cattolica. Non si tratta di proclamare uno dopo l’altro i versetti dell’Apocalisse, ché solo Dio lo sa cosa accadrà domani. Però i venti che scuotono il mare solcato dalla Barca di Pietro spirano tutti dalla Germania. Un po’ come ai tempi del Concilio, quando il Reno si gettò nel Tevere, per dirla con Ralph Wiltgen. Sessant’anni dopo, siamo punto e a capo. Se allora la Chiesa romana era chiamata a entrare nella modernità, abbracciando i fratelli separati, oggi – in piena postmodernità – ciò non basta più. Riforma, rinnovamento, rivoluzione: sono i termini più in voga per descrivere quel che accade in Germania, dove ormai da più di un anno è in corso l’assemblea sinodale che all’ordine del giorno ha temi che scuotono la Chiesa dalle fondamenta: ruolo delle donne (diaconesse e in prospettiva apertura al sacerdozio), fine della prassi celibataria obbligatoria, morale sessuale, potere (clericale e non). 

 

Due anni fa il Papa, da Roma, aveva spedito una lettera in cui chiedeva ai vescovi tedeschi di pensare bene a quel che stavano facendo, ché i rischi erano enormi e che comunque la sinodalità è cosa buona purché sempre sub Petro.  Chiedeva calma, Francesco, e discernimento: “Gli interrogativi presenti, come pure le risposte che diamo, esigono una lunga fermentazione della vita e la collaborazione di tutto un popolo per anni. Ciò porta a generare e mettere in atto processi che ci costruiscano come popolo di Dio, più che la ricerca di risultati immediati che generino conseguenze rapide e mediatiche, ma effimere per mancanza di maturazione o perché non rispondono alla vocazione alla quale siamo chiamati”. Seguirono, a quella lunga lettera, due richiami più tecnici ma non per questo meno rilevanti: quello del presidente del pontificio consiglio per i Testi legislativi, mons. Iannone, e quello del prefetto della congregazione per i Vescovi, il cardinale Ouellet. Risultati, nessuno. Lo sparuto gruppo dei presuli ostili al percorso sinodale biennale tedesco (si contano letteralmente sulle dita di una sola mano) aveva tentato di rallentare il processo facendo leva proprio sulle prese di posizione romane, avvertendo che andare avanti nonostante il triplice alt romano sarebbe stato quantomeno imprudente. Tutto inutile. “Al centro della nostra conversazione c’era innanzitutto la situazione della Chiesa in Germania in vista del trattamento dei casi di abuso sessuale e la difficile situazione in diverse diocesi. Papa Francesco conosce bene la situazione della Chiesa in Germania. Spera che le tensioni possano essere superate”, ha detto al termine dell’udienza con il Pontefice mons. Bätzing, rimasto “impressionato dalla conoscenza equilibrata” con cui il Papa “percepisce la situazione della Chiesa in Germania e traduce i problemi in parole”. 

 

A dispetto della lettera del 2019 e della preoccupazione fatta trapelare in più di una circostanza da Francesco con diversi interlocutori – il cardinale svizzero di curia Kurt Koch e il vescovo emerito di Fulda, mons. Heinz Josef Algermissen, ad esempio – stavolta il Papa avrebbe (sempre secondo mons. Bätzing) “incoraggiato a continuare il cammino sinodale, a discutere le questioni sul tavolo in modo aperto e onesto, e a giungere a raccomandazioni per un cambiamento nelle azioni della Chiesa”. In mezzo a tutto questo ci sono state le dimissioni del cardinale Reinhard Marx, ispiratore dell’assemblea sinodale e fino a un paio di anni fa presidente della Conferenza episcopale. Marx aveva deciso di rinunciare alla guida della diocesi di Monaco e Frisinga lamentando il fallimento della Chiesa nella lotta contro gli abusi sessuali, le coperture e gli insabbiamenti. Aveva denunciato una “crisi sistemica” che necessitava di una riforma complessiva che andasse ben oltre i confini tedeschi. Il Papa, con una lettera personale al querido hermano Marx respingeva le dimissioni non consentendo quindi al cardinale di giocare un ruolo da battitore libero nel percorso sinodale locale. Di nuovo, tutto si può fare purché ancorati a Roma e a Pietro. Perché se le ragioni addotte da Marx per giustificare il passo indietro erano riferite ai vari dossier sugli abusi che stanno mettendo in crisi le diocesi a nord delle Alpi (prima fra tutte Colonia, dove il Vaticano ha spedito due commissari-investigatori a far luce su quanto accaduto e sulle relative responsabilità), è chiaro che il quadro è ben più ampio e complesso: in gioco c’è un’idea di Chiesa, che ora –  per dirla con le parole usate dal potente arcivescovo bavarese – è arrivata “a un punto morto”. 

 

Questa è la cronaca. Ma perché la crisi tedesca è tale da rappresentare il vero “problema” per la Chiesa e, di riflesso, per il pontificato di Francesco? Perché la questione americana, potenzialmente dirompente anch’essa e molto dibattuta a livello mediatico, ha un grado di “pericolosità” di gran lunga inferiore? Solo pochi giorni fa, infatti, 168 vescovi statunitensi contro 55 hanno deciso di andare avanti con la stesura del documento circa il significato dell’eucaristia, che nei propositi dei più battaglieri dovrebbe portare a negare la comunione ai cattolici sostenitori delle politiche non conformi alla dottrina pro life, primo fra tutti il presidente Joe Biden. Anche qui, Roma aveva chiesto calma e dialogo senza fughe in avanti, ma il voto della Conferenza episcopale ha stabilito diversamente. E pazienza se di mezzo ci finirà il secondo presidente cattolico nella storia degli Stati Uniti. Avanti costi quel che costi, à la guerre comme à la guerre. Ma è una guerra di posizione. In America infatti non sono in gioco né la dottrina né l’idea di una “nuova” Chiesa. Non si discute di modernità o postmodernità, non si studiano modelli innovativi per evitare l’emorragia di fedeli che non pagano più la tassa ecclesiastica come in Germania, non si propongono ruoli per le donne o la fine del celibato sacerdotale, rendendolo facoltativo. Il campo della battaglia è politico ed è sempre lo stesso: i liberal da una parte, i conservatori dall’altra. I primi desiderosi di reimpiantare la tenda del progressismo statunitense che fu di Joseph Bernardin, mettendo insieme lotta all’aborto e a ogni altra forma di povertà, i secondi che vogliono ricominciare le vecchie guerre culturali per l’affermazione dei valori non negoziabili. In Germania è diverso perché diverso è il sistema: “Il malcontento verso ‘Roma’ si fa sentire in molte parti della Chiesa, non solo in Germania”, diceva qualche mese fa al Foglio il professor Georg Essen, docente di Teologia sistematica all’università Humboldt di Berlino. “Ma la Chiesa in Germania – aggiungeva – è tradizionalmente molto sicura di sé: è ricca e quindi indipendente, le diocesi tedesche hanno più voce in capitolo nell’elezione dei vescovi che in altre pari della Chiesa, la teologia accademica (inserita nelle università pubbliche legate allo stato) gode di una maggiore indipendenza alla Chiesa che altrove, i laici sono molto ben organizzati in associazioni e società fin dal Diciannovesimo secolo, e quindi anch’essi sono molto sicuri di sé e competenti”.

 

Però c’è altro: “Il centralismo romano è un problema per tutta la Chiesa. Spesso Roma assume un ruolo non necessario secondo gli insegnamenti del Concilio Vaticano II; nei tempi moderni e nelle condizioni della globalizzazione questo centralismo è a mio parere sempre più disfunzionale”, sottolineava il teologo. Insomma, il punto dolente è Roma, la struttura piramidale della Chiesa cattolica che a nord delle Alpi si vorrebbe rovesciare in una sorta di devolution che rappresenterebbe – questa sì – una vera rivoluzione. Dopotutto, l’assist l’ha fornito direttamente il Papa, quando nel programma del pontificato (l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, promulgata nel novembre del 2013) ha espressamente auspicato che le conferenze episcopali siano pensate come “soggetti di attribuzioni concrete, includendo anche qualche autentica autorità dottrinale”. Perché – scriveva Francesco – “un’eccessiva centralizzazione, anziché aiutare, complica la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria”. 

 

Il problema è capire quanto ampio sia lo spettro di questa autentica autorità dottrinale, fino a dove si possa spingere il proposito non troppo disdegnato di autocefalia. In Germania la grande maggioranza dei vescovi ritiene che il campo d’azione debba essere assai ampio, perché – per dirla con il cardinale Reinhard Marx – “non sarà Roma a dirci come dobbiamo comportarci qui”. A ogni modo, il presidente dell’episcopato, mons. Bätzing, a margine dell’udienza con il Pontefice ha assicurato che “le voci secondo cui la Chiesa in Germania voglia percorrere strade speciali non sono vere. Papa Francesco ci ha incoraggiato a continuare il cammino sinodale, a discutere le questioni sul tavolo in modo aperto e onesto, a giungere a raccomandazioni per un cambiamento nelle azioni della Chiesa”.

 

Lo scorso 29 giugno, festa dei santi Pietro e Paolo, il cardinale Pietro Parolin, segretario di stato vaticano, era in Germania. Proprio lì, a Berlino, ha esortato tutti  i vescovi tedeschi a ritrovare un’unità “che non dipenda dall’accordo su orientamenti comuni, come è consuetudine in politica, ma dall’essere radicati in Dio”. Ennesimo richiamo all’ordine, dunque. Seppure espresso fraternamente, in modo pacato e con tanta diplomazia. La questione resta aperta, così come aperta è la crepa all’interno dell’episcopato tedesco e tra l’episcopato tedesco e Roma. Una possibile soluzione è rappresentata dal Sinodo dei vescovi convocato dal Papa che sarà dedicato proprio alla sinodalità. Non sarà più un singolo evento, ma un processo che durerà due anni: il prossimo ottobre l’apertura a livello diocesano, quindi ben due Instrumentum laboris e la consueta fase conclusiva a Roma, tra due anni. “L’articolazione delle differenti fasi del processo sinodale renderà così possibile l’ascolto reale del Popolo di Dio e si garantirà la partecipazione di tutti al processo sinodale”, ha chiarito nei mesi scorsi la Segreteria generale del Sinodo, aggiungendo che saranno coinvolti “in sinergia  il Popolo di Dio, il Collegio episcopale e il vescovo di Roma, ciascuno secondo la propria funzione”. Potrà accadere di tutto: sarà possibile far emergere tutte le istanze, magari sopite, delle chiese particolari, in molti casi non troppo distanti da quelle tedesche. Ma c’è anche la possibilità che le spinte più forti per il rinnovamento portato ai limiti della rivoluzione siano diluite in un processo universale che ricomprende anche le esigenze e le proposte di realtà che si pongono agli antipodi rispetto alla Germania. Basti pensare all’Africa, già capofila della resistenza a ogni aggiornamento della pastorale famigliare come inteso dalle correnti progressiste al doppio Sinodo sulla famiglia. Alla fine, insomma, nel calderone della sinodalità universale anche gli ultimatum tedeschi potrebbero risultare assai depotenziati. In ogni caso, il Papa vuole che tutti siano coinvolti: l’ha detto anche aprendo, lo scorso maggio, l’assemblea generale della Cei, quando parlando proprio del Sinodo, ha osservato che bisogna “partire dal basso”, ascoltando il popolo di Dio e poi andare avanti su quella strada. L’obiettivo, più volte dichiarato e da molti settori ecclesiastici caldeggiato, è quello di portare la Chiesa sulla strada della sinodalità permanente. Una prospettiva dinamica che se da un lato eviterà che troppa polvere si depositi sui suoi pregevoli arazzi, dall’altro rischia di alimentare lo spettro di una “parlamentarizzazione” perpetua in cui tutto (ma proprio tutto) viene messo ai voti in una logica di contrapposizione tra maggioranze e minoranze. Lo si è visto in Germania e anche negli Stati Uniti. Non proprio uno spettacolo edificante.  

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.