Caravaggio, “Vocazione di san Matteo”, 1599-1600

La vita come vocazione

Quando Dio chiama, è l'uomo che sta accanto a te a chiamarti

Angelo Scola

Il nichilismo di tanto pensiero contemporaneo ha reso la realtà una cenerentola. E’ necessario “tornare alla cosa in sé”, restituire il primato al reale sul virtuale, all’esperienza elementare e integrale sull’ideologia

Con questo articolo, il cardinale Angelo Scola, arcivescovo emerito di Milano, inizia la sua collaborazione con il Foglio

 


 

"L’individuo [è] una costruzione intellettuale recente e precaria. L’individuo è una sorta di Coriolano di Shakespeare, padrone del proprio destino, sceglitore di sé, artefice del proprio, separato, progetto di vita. L’etica contemporanea è fatta di regole, principi e ragioni essenzialmente impersonali…". La critica di MacIntyre formulata agli inizi degli anni 80 sfocia nella proposta di un’etica delle virtù che, riprendendo la tradizione aristotelica e classica, metta in campo “non individui separati ma pratiche sociali; non soggetti astratti, ma comunità e tradizioni collettive entro cui soltanto come persone acquisiamo una identità determinata”.

 

Sono trascorsi più di trent’anni da questa analisi che meriterebbe di essere integrata per non perdere la dimensione oggettiva necessaria a un’etica adeguata. Tuttavia non si può negare il merito a MacIntyre di aver interpretato in termini storicamente pertinenti ciò che noi mettiamo sotto la categoria di individualismo. La sua analisi, che suscitò non pochi dibattiti, apre più facilmente a noi la strada per rintracciare le nuove coordinate storiche che l’individualismo sta assumendo nel presente. Altrove ho parlato in proposito di “individualismo autistico” per designare l’attitudine di noi contemporanei a rimuovere del tutto “la relazione in senso sostanziale”. Al di là dei rapporti funzionali l’altro si impone solo quando “ci urta”.

 

Come ritrovare allora la strada per praticare le virtù, in vista della vita buona, personale e sociale?

 

L’analisi di MacIntyre ci apre la strada per rintracciare le nuove coordinate storiche che l’individualismo assume nel presente

Conviene forse ripartire dalla radicale ingiunzione di “andare oltre se stesso” che Nietzsche fa all’uomo per giustificare la consistenza dell’individuo? Ma noi sappiamo che anche oggi una simile impostazione di pensiero e di azione (superuomo) sfocerebbe nell’autoeliminazione stessa del soggetto: morte di Dio, morte dell’io, concludeva Nietzsche. Per tentare il superamento dell’individualismo autistico mi sembra molto più proficuo prendere le mosse dallo sguardo meravigliato di Pascal: “L’uomo supera infinitamente l’uomo”. Pascal presuppone una originaria e universale apertura dell’io che viene soddisfatta non dalla volontà di potenza nicciana, ma dal riconoscimento che l’altro è fin dall’origine implicato nell’io stesso. A differenza di Nietzsche, Pascal non azzera il soggetto, ma lo afferma in pienezza esplicitando la sua relazione all’altro come costitutiva.

 

La questione diventa allora: come individuare questo altro e la sua decisività per l’io? Sinteticamente possiamo dire che l’altro ha la funzione del suscitatore, è “uno” che lancia un appello, è uno che chiama.

 

Per superare l’individualismo autistico si parta dallo sguardo meravigliato di Pascal: “L’uomo supera infinitamente l’uomo”

L’Antico e il Nuovo Testamento, dalla chiamata di Abramo fino a quella dei pescatori sul lago di Genezaret, individuano sia l’Altro, con la maiuscola, sia l’altro con la minuscola come “colui che chiama”. La Sacra Scrittura, e con essa la tradizione dell’occidente, mette così in campo l’idea di vocazione. L’uomo può superare se stesso, cioè crescere e procedere, perché costitutivamente è chiamato a rispondere a un Altro. Possiede quindi una natura responsoriale.

 

Tuttavia è una evidenza palmare che l’uomo contemporaneo di fronte alla categoria di vocazione reagisce spesso con un sorriso ironico giudicandola come un ritorno al passato, come un termine ormai del tutto obsoleto. Si crea in tal modo una opposizione totale tra l’individuo, che si concepisce come dotato di autonomia e di autodeterminazione assoluta, frutto di una libertà che sarebbe ormai finalmente e totalmente dispiegata, e la vocazione sentita come pretesa più o meno esplicita di invadere l’io delimitandolo. Che sia Dio a compiere questa intromissione, che siano la Chiesa, le religioni o le varie istituzioni, la parola vocazione finirebbe sempre per indicare alienazione.

 

Secondo taluni, per recuperare credibilità la categoria di vocazione andrebbe ricondotta, come tutto l’ambito del “religioso”, a “un mondo mondano” (Bonhoeffer), cioè radicalmente secolarizzato. Nel linguaggio corrente la parola vocazione viene sostituita dalla parola professione – per quanto riguarda il lavoro – e sparisce nella dimensione degli affetti. Anche se non si riesce ad abbandonare del tutto termini di “natura vocazionale”. Ad esempio è comune oggi nel mondo dell’impresa parlare di mission e di comunità.

 

Cento anni fa (1917) l’ormai anziano Max Weber fu invitato dalla Lega Studenti Liberi Bavaresi a tenere una conversazione sulla scienza nel suo rapporto con la vita. Egli si espresse a braccio e suscitò una forte impressione in tutto l’uditorio affermando che la scienza poteva assumere un autentico profilo professionale solo a condizione di esplicitare il soggetto che fa scienza mediante il riferimento a valori ideali non esclusi quelli religiosi.

 

Nella lingua tedesca il termine Beruf (compito, lavoro, professione) si lega a Berufung (vocazione). Tuttavia, soprattutto nel linguaggio oggi in uso, dalla parola Beruf (“professione”) la radice religiosa (professare apertamente l’adesione a una fede) è praticamente rimossa.

 

In Europa, in questi ultimi decenni abbiamo trascurato il secondo polo della libertà, quello dell’inevitabile uscita verso l’altro

E’ singolare in proposito la vicenda della traduzione italiana del testo di Weber. La prima versione a cura di Antonio Giolitti uscì nel 1948 con il titolo La scienza come professione. Angelo Scivoletto, nel 1966, che si sobbarca l’onere di una nuova traduzione, intitola il discorso di Weber Scienza come vocazione che meglio rispetta l’andamento di Weber caratterizzato da una prospettiva integrale che esplicita il senso (significato e direzione) dell’azione del soggetto (personale e comunitario).

 

Anche nella vita della Chiesa di oggi la parola vocazione, che pur viene normalmente impiegata, appare logorata e ridotta nel suo valore antropologico. E ciò le toglie fascino soprattutto per le nuove generazioni.

 

Papa Francesco, convocando il Sinodo del prossimo mese di ottobre sui giovani, prende di petto la questione fin dal titolo: I giovani, la fede e il discernimento vocazionale. E nella Lettera di preparazione che invia loro così si esprime: “Mi vengono in mente le parole che Dio rivolse ad Abramo: “Vattene dalla tua terra…” (Gen 12,1). Queste parole sono oggi indirizzate anche a voi: sono parole di un Padre che vi invita a “uscire” per lanciarvi verso un futuro non conosciuto ma portatore di sicure realizzazioni, incontro al quale Egli stesso vi accompagna”.

 

Eppure il dato dell’erosione dell’idea di vocazione, nella Chiesa e nella società, è sotto gli occhi di tutti. Più che l’indagine dettagliata circa le cause che hanno generato questo stato di cose mi sembra utile compiere, brevemente, il tentativo di ridire cosa sia vocazione. Lo farò facendo riferimento alla grande tradizione biblica e notando anzitutto che il tema della vocazione non identifica un ambito regionale (giudaismo e cristianesimo), ma se letta criticamente ha un valore universale, riguarda ogni uomo di ogni tempo e luogo, che lo riconosca o meno. Nessuno infatti può vivere senza un perché. E ogni uomo, se è minimamente onesto con se stesso, riconosce che questo perché passa sempre per la risposta ad un altro. Ha la natura di una chiamata.

 

Che cos’è la vocazione?

 

Mi sovviene l’emozione che provai da ragazzo quando sentii un grande sacerdote educatore, don Luigi Giussani, commentare il bellissimo passaggio evangelico della vocazione di Andrea e Giovanni (Gv 1,35-40).

 

L’uomo contemporaneo di fronte alla categoria di vocazione reagisce con un sorriso ironico, giudicandola come un termine del tutto obsoleto

I due erano discepoli di Giovanni Battista e lo seguivano, conquistati dalla radicalità della sua testimonianza, come un dito puntato verso il Messia su cui si concentrava l’attesa di tutto il popolo. Il giorno in cui Gesù viene a farsi battezzare al Giordano, il Precursore lo presenta con parole che tradotte oggi suonerebbero più o meno così: “Eccolo qui Colui che noi – come tutte le generazioni prima di noi – stiamo cercando”. Da quel momento un’attrattiva irresistibile si impadronisce del cuore dei due discepoli. Essi lasciano il Battista e vanno dietro a questa figura che la persona di cui si fidavano di più aveva loro indicato.

 

Mentre Lo stanno seguendo Gesù, all’improvviso, si gira e chiede loro:Che cosa cercate?” Ed essi di rimando: “Maestro, dove abiti?”. Una volta intravisto l’“oggetto” adeguato del proprio desiderio la libertà non può che chiedere una familiarità con esso! La risposta di quei due è, in realtà, una domanda e insieme una decisione (“Noi vogliamo diventare tuoi amici. Vogliamo stare con te.”). “Venite e vedrete”, li incalza Gesù con la bruciante semplicità di un invito che manifesta la potenza di Dio in Lui e, nello stesso tempo, il suo profondo rispetto per la libertà dell’uomo.

 

Sempre, quando si tratta di un aspetto fondamentale dell’umana avventura, sono in gioco i due fattori paradigmaticamente indicati nella vicenda di Andrea e Giovanni. Da una parte una libertà che, quanto più è affascinata dal desiderio di compiersi, tanto più è tesa ad aderire con verità e con passione a tutte le possibilità di attuazione di sé. Dall’altra, una persona presente che risponde in maniera inaspettata e impensabile (Andrea e Giovanni non avevano certo messo in conto di lasciare il Battista per andar dietro a Gesù) a questa attesa della libertà.

 

Dio ha su ogni uomo un disegno personale e irripetibile che compiendosi lo compie. Raccoglie tutto della persona (“neanche un capello del vostro capo andrà perduto”, Mt 10,30) – i desideri, le aspirazioni, le fatiche, le lotte, i dolori, gli affetti... perfino i peccati, una volta che vengono riconosciuti come tali, chiedendo perdono – e la porta verso la felicità.

 

Vita come vocazione

Non si può vivere senza un “perché”. Ogni uomo, se è onesto con se stesso, riconosce che questo “perché” passa sempre per la risposta a un altro

Abbandonata la regola aurea del realismo di radice giudaica e cristiana, “il nichilismo”, più o meno gaio (Del Noce), di tanto pensiero contemporaneo ha reso la realtà una vera e propria cenerentola. Invece “occorre tornare alla cosa in sé” ammoniva profeticamente più di un secolo fa Husserl. Si tratta di restituire il primato alla realtà sull’idea, al reale sul virtuale, all’essere sul dover essere, all’esperienza elementare e integrale – così come si impone alla vita di ogni uomo – sull’ideologia. Se guardiamo allora ai dati di realtà, ci accorgiamo, come abbiamo già accennato, che l’io è strutturalmente in rapporto con un tu. Costitutivamente l’io è in relazione. Perciò un io sano, capace di amare e di lavorare, crea e non spezza legami.

 

Mantenendo in unità la dimensione ontologica delle cose così come sono, e quella del costume e dell’ethos, l’uomo, anche quello che pensa di non dover o poter credere, scopre la con-venienza dell’essere-in-relazione.

 

La storia personale di ciascuno – con il suo bagaglio di incontri e di circostanze, di improvvise accelerazioni e di brusche frenate, di coincidenze e di contrattempi… in una parola con la sua consistente dose di imprevedibile ed imprevisto – è la prova evidente che un “Altro” ci conduce. Gli antichi ne avvertivano la soggezione minacciosa e lo chiamavano Fato; per la saggezza popolare “è il destino…!”; la tradizione cristiana lo chiama Padre ed è certa del suo volto buono.

 

Vivere in questo orizzonte coinvolgendo tutta la propria persona con tutta la realtà conduce a scoprire la bellezza della vita stessa come vocazione. L’elemento ideale, che anima la vita di ogni uomo e che ultimamente è sempre religioso, lungi dall’oscurare gli affetti, il lavoro e il riposo, ne indica la strada per la piena realizzazione. Nell’alveo di questa adesione, che si dilata come appartenenza a una storia e ad una trama di rapporti, si precisa sempre di più e matura l’originale fisionomia di ogni persona. C’è una dipendenza strutturale nell’uomo, che chiede di non essere rimossa o addirittura negata…! Perché si può e si deve parlare di vita come vocazione anche nella cultura contemporanea? Per non rimuovere il soggetto (personale e comunitario) nell’azione e per assicurare alla libertà il “per sempre”, cioè il compimento (felicità).

 

Nulla è abbandonato all’inconsistenza del caso, ma tutto, saldamente ancorato in Lui, da Lui prende consistenza. Ancora una volta siamo di fronte alla semplicità del metodo che caratterizza tutta l’azione di Dio con l’uomo: è Lui che prende per primo l’iniziativa, mai però imponendola. Sempre nei termini di una proposta alla nostra libertà. Grazia e libertà: ecco le pietre miliari del metodo della compagnia di Dio all’uomo.

 

Un avvenimento si comunica solo attraverso un altro avvenimento. La risurrezione è un evento, non un’idea

Il nostro futuro – almeno quello che veramente conta – sfugge al nostro controllo. “Chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita?” (Lc 12,25). Queste parole di Gesù descrivono una evidenza universale, eppure spesso la mentalità corrente – riducendo la libertà a pura scelta (libero arbitrio) e gonfiandola a dismisura come la rana di Esopo fino a farla esplodere su se stessa – riesce a oscurarla. Così che diventa sempre più difficile strapparci dalla mente e dal cuore la convinzione che le nostre scelte siano completamente affidate alla nostra assoluta autodeterminazione. Esse non avrebbero più relazione diretta e immediata con la vocazione, la chiamata di un altro.

 

In Europa, in questi ultimi trenta-quarant’anni, abbiamo spinto giustamente nella direzione dell’approfondimento della dimensione autoaffermativa della libertà. Soprattutto attraverso gli strumenti delle scienze umane abbiamo indagato in profondità la libertà dell’io in vista della sua autorealizzazione, ma abbiamo trascurato il secondo polo della libertà, quello dell’inevitabile uscita verso l’altro. E l’uscita verso l’altro è ultimamente salvata dentro l’esperienza dell’appartenenza alla comunità religiosa e civile, senza la quale la libertà si inceppa, non procede.

 


Marc Chagall, “Il Figliol prodigo” (particolare), 1975-’76


 

Soprattutto ai giovani bisogna porre, partendo dalle circostanze e dai rapporti, cioè dalla realtà, la domanda del “per chi?” io affronto il quotidiano, la vita. Nella cultura liquida di oggi questa domanda, assai più pertinente del “per-ché?” consente di porre qualcosa di solido, di duro, come lo sono le “bricole”, i pali nella laguna di Venezia, che nella parte immersa dell’acqua, a differenza di quella che sta fuori, non marciscono mai. Appare qui la figura del “per sempre” propria della vocazione in tutte le sue dimensioni (affetti, lavoro e riposo) e in tutte le sue forme (stati) di vita.

 

La contemporaneità dell’altro genesi della vocazione

 

Un avvenimento si comunica solo attraverso un altro avvenimento. Come affermava il celebre teologo milanese Giuseppe Colombo, “La fede cristiana tiene o si perde a seconda che si creda o no alla risurrezione del Signore, la quale è un “evento”, non un’idea. L’idea non può produrre eventi”.

 

Perciò se una persona, una comunità cessano di essere avvenimento, il Risorto che dà la vita è destinato a perdersi nella distanza del tempo. Ma, come diceva Kierkegaard, “L’unico rapporto etico che si può avere con la grandezza (così anche con Cristo) è la contemporaneità. Rapportarsi a un defunto è un rapporto estetico: la sua vita ha perduto il pungolo, non giudica la mia vita, mi permette di ammirarlo… e mi lascia anche vivere in tutt’altre categorie: non mi costringe a giudicare in senso definitivo”.

 

Secondo alcuni, per recuperare credibilità la categoria di vocazione andrebbe ricondotta a un mondo mondano, radicalmente secolarizzato

La vocazione come chiamata a cui rispondere con libertà poggia su questa contemporaneità di Colui che chiama a colui che risponde. Quel “giudicare in senso definitivo” di cui parla Kierkegaard apre così la questione del “senso” come significato e direzione dell’esistenza di ogni singolo uomo. Ribadendo il valore universale, cioè valido per l’uomo di ogni tempo e luogo, di questa problematica, mi permetto di illustrarla brevemente a partire dalla fede cristiana.

 

E’ ben nota la vicenda del dibattito secolare sull’insuperabile distanza tra il Gesù storico e il Cristo della fede. In altri termini, come la Chiesa fa fronte alla radicale obiezione di Lessing circa l’“incolmabile fossato” che ci separerebbe da Gesù Cristo? La contemporaneità di Cristo che la vita come vocazione domanda è dunque ultimamente impossibile?

 

Ratzinger-Papa Benedetto si è misurato con questi radicali interrogativi nei suoi tre volumi su Gesù Cristo e ha affermato la reale capacità che il binomio fede-storia ha di raggiungere il Gesù reale. Così egli si esprime, partendo dalla preoccupazione esplicita di “presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il “Gesù storico” in senso vero e proprio. … questa figura è molto più… comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni. Io ritengo che proprio questo Gesù – quello dei Vangeli – sia una figura storicamente sensata e convincente”. E’ proprio questa “figura storicamente sensata e convincente”, rintracciata da Joseph Ratzinger nei Vangeli, che riconosciamo come contemporanea a noi. A questa condizione è ragionevole seguirLo, qui e ora, rispondere alla Sua chiamata.

 

Questa posizione si oppone a quella di J.P. Meier, per citare un esegeta molto autorevole, che afferma: “Il lettore che volesse conoscere il Gesù reale dovrebbe chiudere questo libro immediatamente, poiché il Gesù storico non è il Gesù reale, né la facile via che a lui conduce. Il Gesù reale non è accessibile e non lo sarà mai”.

 

Secondo Meier, noi non possiamo, dunque, conoscere il “Gesù reale”, ma unicamente il “Gesù storico”. Chi è questo Gesù storico? “Per “Gesù della storia” intendo il Gesù che possiamo “recuperare” ed esaminare usando gli strumenti scientifici della moderna ricerca storica (...) Per sua natura, questa ricerca può ricostruire solo frammenti di un mosaico, il pallido profilo di un affresco sbiadito che consente molte interpretazioni (…) Il Gesù storico può darci frammenti della persona “reale”, ma niente di più”.

 

La contemporaneità di Cristo che la vita come vocazione domanda è dunque ultimamente impossibile? Le risposte di Joseph Ratzinger

E’ ragionevole chiederci dove porti l’affermazione dell’impossibilità di arrivare al Gesù reale attraverso la testimonianza della comunità apostolica così come ci è attestata dai Vangeli. Inesorabilmente essa conduce alla negazione della capacità della comunità testimoniante di “conoscere” Gesù di Nazaret e, a fortiori, impedisce di relazionarsi a Lui come a noi contemporaneo.

 

La separazione tra “ciò che riesco a conoscere su Gesù tramite lo studio e il ragionamento” e “ciò che sostengo tramite la fede”, lascia veramente spazio alla fede adeguatamente intesa? Se le certezze sul Gesù vissuto nella Palestina del primo secolo sono affidate solo all’analisi storico-critica, a cosa serve la fede?

 

Insiste Ratzinger, senza sminuire l’importanza dell’esegesi storico-critica: “Come risultato comune di tutti questi tentativi [si riferisce alle ricostruzioni del Gesù storico realizzate dalla ricerca scientifica soprattutto a partire dagli anni Cinquanta] è rimasta l’impressione che, comunque, sappiamo ben poco di certo su Gesù e che solo in seguito la fede nella sua divinità abbia plasmato la sua immagine. Questa impressione, nel frattempo, è penetrata profondamente nella coscienza comune della cristianità. Una simile situazione è drammatica per la fede perché rende incerto il suo autentico punto di riferimento: l’intima amicizia con Gesù, da cui tutto dipende, minaccia di annaspare nel vuoto”.

 

La Scrittura pertanto non può essere letta e compresa al margine del soggetto vivo che l’ha generata come forma normativa (ispirata e canonica) di testimonianza. “Il popolo di Dio – la Chiesa – è il soggetto vivo della Scrittura; in esso le parole della Bibbia sono sempre presenza”.

 

La dinamica vissuta dai “primi” dopo la risurrezione vale anche per l’uomo di oggi. Non solo per chi accoglie la vocazione di seguire Cristo, ma per ogni uomo dal momento che per vivere bisogna perseguire un senso. E questo non si dà come costruzione astratta di una teoria, ma come presenza di un altro che mi chiama e mi accompagna al mio destino.

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