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Cristianesimo e islam dentro la città plurale

Angelo Scola

I musulmani sono chiamati a mettere in discussione il rapporto uomo-Dio e noi occidentali dobbiamo liberarci dall’idea di aver trovato la formula che concilia fede e libertà: la formula politica della laicità

Pubblichiamo in anteprima il testo dell’intervento che il cardinale Angelo Scola, arcivescovo emerito di Milano, ha pronunciato questa mattina a Tempo di Libri - Fiera internazionale dell’editoria. Nell’occasione è stato presentato l’ultimo numero della rivista Oasis, “Musulmani, fede e libertà. Perché questa è la vera questione del futuro (più del terrorismo)”. Oltre al card. Scola – che ringrazia per la collaborazione Martino Diez di Fondazione Oasis –, ha partecipato Adnane Mokrani, del Pontificio istituto di studi arabi e islamistica.


    

L’occasione per l’incontro di oggi ci viene data dall’ultimo numero di Oasis, Musulmani, fede e libertà. Se il tema può apparire lontano dalle nostre preoccupazioni quotidiane, il sottotitolo – Perché questa è la vera questione del futuro (più del terrorismo) – dovrebbe fugare ogni impressione di astrattezza. Qualcuno – mi hanno detto – lo ha definito coraggioso; ma prima che coraggioso, credo che sia drammaticamente realistico, perché il grande e irrisolto nodo da cui scaturiscono tante tensioni nel mondo musulmano, fino alla tragedia del jihadismo, è proprio l’assenza di libertà. Senza libertà continuerà a riproporsi la tragica alternativa tra governo autoritario o dittatura religiosa che stritola le Chiese cristiane, per il cui sostegno è nata Oasis, ormai più di 12 anni fa.

  

Una conversazione interrotta

  

Libertà e liberazione non sono sinonimi. A cinquant’anni dal Sessantotto sappiamo bene quanto potente sia l’ideale della liberazione (politica, economica, sociale…), quanto capace di mobilitare le masse – come si diceva allora. Eppure, l’evoluzione – ma sarebbe meglio dire l’involuzione – del Sessantotto mostra che non c’è vera liberazione senza una concezione adeguata di libertà. Anche le rivolte arabe del 2011 (Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Iraq, Yemen) sono state un grido di liberazione che non ha saputo farsi strada alla libertà; a causa della repressione certo, ma anche di un’insufficienza interna alle diverse anime delle proteste. E così il terrorismo, che era ridotto sulla difensiva, ha potuto rialzare la testa. Ecco perché, in un momento in cui il jihadismo accusa il colpo di diverse sconfitte militari, è cruciale tornare a parlare di libertà, senza scaricare subito le responsabilità sul sistema politico globale e d’altra parte senza rinchiudersi, per quanto riguarda l’Europa, in un approccio securitario miope. Solo così si toglierà il terreno sotto i piedi del fondamentalismo.

  

Ma non è facile discutere di questi temi, almeno nel mondo musulmano. Il primo ostacolo sono senza dubbio i costanti attacchi alla libertà di espressione che impediscono di affrontare con serenità le questioni più delicate. Come si fa a riflettere sulla libertà religiosa con la spada del takfìr (accusa di miscredenza) sguainata sul capo? E come si fa a parlare di limiti del potere politico in uno stato di polizia? “Ma quello che l’uomo non può fare pubblicamente – scrive lo studioso coranico al Badawi (professore a Huston, fondatore di Iqsa: Associazione internazionale di studi coranici) in un interessante articolo – lo fa in segreto. O su Internet”. Esiste quindi un dibattito su questi temi che merita di essere conosciuto, anche se si svolge perlopiù sotto traccia e al di fuori del discorso ufficiale, politico e religioso.

  

Tuttavia questo numero di Oasis documenta anche una difficoltà più profonda, direi un grande malinteso, ben documentato in un libro-manifesto dei primi del Novecento, La natura della tirannide del siriano al Kawàkibi (1854-1902). Molto noto nel mondo arabo – e per inciso dobbiamo essere grati a Oasis che, traducendoli in italiano, mette a disposizione testi altrimenti inaccessibili – il libro di Kawàkibi è senza dubbio un appello potente a favore della libertà. Ma insufficiente. L’autore siriano aveva letto il nostro Vittorio Alfieri (1749-1803) e ne riprende numerose idee. Tuttavia, come il piemontese, rimane prigioniero di uno schema illuministico secondo il quale il cristianesimo – e il cattolicesimo in particolare – sarebbe il principale ostacolo alla libertà. Al Kawàkibi pensa di cavarsela con due mosse. Primo, introduce la più classica delle distinzioni tra la figura di Gesù, positiva e profetica, e la storia della Chiesa come istituzione temporale corrotta. Secondo, s’illude di poter esonerare l’Islam dalla critica illuministica in quanto religione senza clero; fosse vissuto fino al tempo di Isis, avrebbe visto che si può tranquillamente produrre una tirannide religiosa anche in assenza di un clero.

  

Il grande malinteso di Kawàkibi, e di tanti autori che dopo di lui hanno preso posizione nel mondo islamico a favore della libertà, è leggere il cristianesimo attraverso le lenti della modernità. Per cui, nonostante il rispetto tributato alla figura di Gesù, “uno dei profeti più vicini a Dio” come sempre ci ricordano i musulmani durante gli incontri interreligiosi, il suo messaggio non è preso in considerazione. Il vero referente del confronto è l’Illuminismo europeo, che certo è nato da una radice cristiana – dopo il Concilio Vaticano II siamo meglio attrezzati a riconoscere con serenità questo nesso – ma che ha ritenuto di poter staccarsi da questa radice. E’ urgente allora cominciare un confronto diretto tra cristiani e musulmani sul tema della libertà, tenendo ovviamente presente l’esperienza del liberalismo, ma senza farsi risucchiare dal suo schema interpretativo. Un piccolo assaggio di che cosa ne potrebbe venire è offerto dall’articolo dell’intellettuale turco Mustafa Akyòl (giornalista turco e scrittore) che si domanda, sulla scia del suo libro The Islamic Jesus, che cosa Gesù possa insegnare ai musulmani di oggi. E lo fa leggendo il Vangelo. Se la sua interpretazione storica non mi trova d’accordo – per Akyòl l’autentica predicazione di Gesù sarebbe stata conservata dai giudeo-cristiani e quindi dall’Islam, mentre sarebbe stata smarrita dalla Grande Chiesa costantiniana – le sue due proposte (“la sharia è stata fatta per l’uomo e non l’uomo per la sharia” e “il califfato è dentro di voi”) mi sembrano trasporre in modo efficace alcuni aspetti dell’insegnamento di Gesù alla condizione attuale del mondo musulmano.

  

Ho affermato che cristiani e musulmani dovrebbero cominciare un confronto su questi temi. Ma avrei fatto meglio a dire ri-cominciare. Sempre questo numero della rivista documenta infatti che nel Medioevo arabo-islamico cristiani e musulmani hanno discusso a lungo di libertà. Non la libertà politica o religiosa: lì la situazione era chiara: da una parte c’erano i dominatori (i musulmani) e dall’altra i dominati (le altre comunità religiose), pur essendo, a certe condizioni, tollerati. Questa condizione non ha comunque soffocato la domanda fondamentale, domanda che invece è troppo spesso assente dai programmi di liberazione e ne spiega in ultima analisi il fallimento: in che rapporto sta l’uomo rispetto a Dio? E’ libero? Ma come si può conciliare la sua libertà con il fatto che Dio è onnipotente? In questo senso vi invito a leggere e scoprire la bellissima lettera attribuita al teologo e asceta Hàsan di Basra (642?-728) e il trattato di Teodoro Abu Qurra (775-829), uno dei primi pensatori cristiani a occuparsi seriamente di Islam. Teodoro era vescovo melkita di Harràn ed è vissuto prima dello scisma tra oriente e occidente: è in senso pieno un nostro antenato nella fede e alcune sue idee, una volta depurate dal tono polemico tipico del tempo, potrebbero aiutare anche noi.

  

Ma sono altre le urgenze – diranno come sempre i campioni di un presunto approccio “realistico” che ci ha portati sull’orlo di “una terza guerra mondiale a pezzi”. Ne siamo così sicuri? Davvero riflettere sul rapporto uomo-Dio sarebbe un lusso? Davvero lo si può dare per scontato per il mondo musulmano tanto “gli orientali sono per natura religiosi”? Torniamo per un attimo alla vicenda dell’Illuminismo: la sua componente ostile alla fede, che è sfociata poi nell’ateismo, è stata senza dubbio favorita dall’esperienza delle guerre di religione. Ed è significativo che nel mondo islamico si assista oggi, proprio a causa degli scempi del jihadismo e alla politicizzazione della religione, a una rinnovata presenza di posizioni apertamente ateistiche. Per quanto minoritarie, esse denunciano un malessere che potrebbe essere più esteso di quello che si pensa, fino ad aprire scenari impensabili. Chi, visitando Notre Dame nel 1780, avrebbe pensato che dodici anni più tardi vi si sarebbe celebrato il culto della dea ragione? L’occidente non ha l’esclusiva di questi capovolgimenti.

    

Il pregiudizio occidentale

   

Se i musulmani sono quindi chiamati a mettere in discussione il rapporto uomo-Dio, anche a noi occidentali, cristiani e laici, è richiesto un analogo sforzo di conversione per liberarci da un pregiudizio che conviene esplicitare a noi stessi. E’ l’idea di aver già trovato la formula perfetta per conciliare almeno praticamente fede e libertà: la formula politica della laicità. Ora a me pare che l’attuale fatica delle nostre democrazie e della nostra vita sociale tutto trasmetta tranne un sentimento di successo. Pensiamo ad alcuni sintomi preoccupanti: la crescente solitudine e l’incapacità di relazione sostanziale con l’altro, il crollo demografico allarmante, la disaffezione verso l’assunzione di responsabilità, il narcisismo patologico che rischia di divenire autismo, il nichilismo che da gaio – come lo definiva qualche decennio fa Del Noce – rischia di diventare tragico. E come cristiani aggiungerei anche la difficoltà a proporre con una testimonianza integrale (personale e comunitaria), che non si limiti al buon esempio – sempre benvenuto – del singolo. Penso a quelle che san Giovanni Paolo II chiamava le strutture di peccato: possibile che di fronte a un liberismo che si avvita su se stesso non si riesca ad andare oltre l’enunciazione dei principi? Possibile che a fronte della sfida antropologica posta dalle tecno-scienze e alla colonizzazione ideologica del gender i cristiani siano ridotti a balbettare il loro dissenso?

  

Può darsi che il disegno di Dio voglia farci passare attraverso questa insignificanza culturale, per cui sulle grandi questioni economiche, sociali e antropologiche non sapremmo offrire altro che frammenti di uno stile di vita diverso. E’ vero, qualcosa di simile è accaduto al regno di Giuda verso la fine della sua storia (intorno al 586 a.C.), ma prima di accomodarci in questa posizione s’impone una verifica se davvero sia questa la strada tracciata da Dio o piuttosto un nostro cedere allo “schema di questo mondo”. L’Antico Testamento infatti insegna contemporaneamente due cose: che il piccolo resto d’Israele ha dovuto accettare la caduta della monarchia di Giuda e del suo progetto politico, ma anche che ha avuto bisogno di ritornare dai fiumi di Babilonia alle rovine di Gerusalemme, per ritrovare, pur nella precarietà di una figura, un luogo proprio. E la Bibbia conserva anche la storia delle dieci tribù perdute d’Israele, prima così orgogliose del proprio particolarismo nazionale, e poi così pronte a dissolversi nella cultura globale del tempo.

  

Una Chiesa dalle genti

  

Se dunque come cristiani e musulmani sapremo liberarci dal reciproco pregiudizio (“come occidentali abbiamo già risolto il problema” e “i cristiani non hanno niente da dire sulla libertà”), se torneremo ad affrontare la questione nella sua radicalità (come una libertà finita può sussistere a fianco di una libertà infinita senza limitarla?), troveremo nuovamente il nostro compito di credenti nel mondo.

  

La metropoli milanese in cui viviamo ci offre più di uno spunto in questo senso. Tutte le tematiche toccate dal mio intervento si ritrovano infatti nella “nostra” città plurale, che appunto per questo è davvero Mediolanum, la cui etimologia mista, latina e germanica, già ci fa toccare con mano il genio della mediazione. In questo senso mi sembra di estrema importanza la decisione dell’Arcivescovo di convocare il Sinodo minore sulla chiesa dalle genti. Il documento d’indizione, che invito tutti a leggere, insiste in primo luogo sulla necessità di superare le comunità etniche per respirare l’universalità e cattolicità della nostra Chiesa. Al tempo stesso, il cammino sinodale tematizza non solo il meticciato ecclesiale (tra fedeli di diverse provenienze), ma anche il meticciato culturale e sociale.

  

Sono convinto che il filone della riflessione sulla libertà, sulla sua natura, ma anche sui suoi limiti e sulle fatiche che viviamo oggi, sia uno dei più fecondi per un dialogo interreligioso calato nel nostro tempo. Spero che questi temi, che ho soltanto accennato, possano essere ulteriormente discussi, anche con i musulmani.

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