Al muftì saudita il dialogo non piace: “Demolire tutte le chiese”

Redazione
Per il vescovo di Erbil, “l’unico modo per impedire allo Stato islamico di eliminare il cristianesimo dall’Iraq è muovere guerra”.

Roma. Solo dieci giorni fa il segretario di stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, durante una lectio magistralis tenuta all’Università Gregoriana aveva citato il Centro internazionale di Vienna per il dialogo interreligioso come esempio più evidente della possibilità di relazionarsi pacificamente e fattivamente con gli esponenti più autorevoli della religione islamica. Nessun cenno, da parte del porporato, al fatto che proprio quel centro, un mese e mezzo fa, si sia rifiutato di criticare la condanna a mille frustate comminata da un tribunale saudita al blogger Raif Badawi, reo d’aver tentato – recita la sentenza – di diffondere idee troppo liberali a Riad, criticando inoltre il sistema giudiziario fondato sulla sharia. La sfida dinanzi alla constatazione che i cristiani sono tra i più discriminati, diceva Parolin, “parte necessariamente dal considerare preminente il dialogo, come mostra, ad esempio, il sostegno all’idea di strutturare il dialogo tra le religioni in base agli istituti e alle norme del diritto internazionale e che dal 31 ottobre 2012 vede la Santa Sede partecipare come Osservatore fondatore al Centro internazionale per il dialogo interreligioso e interculturale, organizzazione intergovernativa con sede a Vienna”. La risposta a Parolin non ha tardato, ed è giunta direttamente da una delle massime autorità religiose dell’Arabia Saudita, che quel luogo di dialogo in terra d’Austria l’ha fondato e, dopo averlo intitolato al da poco defunto re Abdullah, continua a finanziarlo. Il gran muftì Sheikh Abdul Aziz bin Abdullah ha invocato il falò di tutte le chiese cristiane presenti sulla penisola araba, dal Kuwait allo Yemen, passando per ogni altro stato che nei secoli abbia concesso uno spazio di preghiera ai non musulmani. L’appello è stato lanciato nel corso di un colloquio con una delegazione di parlamentari del Kuwait, dove da tempo si dibatte circa la possibilità di fare piazza pulita degli edifici di culto cristiani. Dopo lunghe mediazioni e pressioni internazionali, il piccolo emirato affacciato sul Golfo Persico ha deciso di vietare la costruzione di nuove chiese, lasciando però in piedi quelle che già ci sono. Una mediazione annunciata un mese fa dal parlamentare Osama al Munawer, che però non ha soddisfatto il gran muftì saudita, che in qualità di capo del Supremo consiglio degli ulema e del Comitato per la ricerca e la stesura delle fatwa ha chiesto misure ben più drastiche: radere al suolo le chiese – ha chiarito – “è assolutamente necessario e richiesto dalla legge islamica”.

 

E pazienza se questo potrà incrinare l’asse – ancora assai fragile – tra paesi arabi e occidentali nella comune battaglia alle milizie dello Stato islamico. Il vescovo caldeo di Erbil, in Kurdistan, mons. Bashar Warda, ha detto in un’intervista al programma della Cbs “60 Minutes” che (seppur a malincuore) “la guerra contro l’Is, mediante l’uccisione dei suoi combattenti, è l’unico modo per fermare gli islamisti radicali dalla distruzione della cristianità in Iraq”. “Per me il Daesh è un cancro” e quindi a volte è necessario “adottare misure dure per affrontare e curare questo tumore”. Già il mese scorso il presule caldeo aveva invocato un intervento armato: “E’ difficile per un vescovo cattolico dire che si deve sostenere un’azione militare, ma bisogna farlo. Non c’è altra scelta, ora. Ciò cui stiamo assistendo è ben peggiore rispetto a quanto accaduto in Afghanistan, con un numero maggiore di giovani che vanno a combattere per lo Stato islamico. L’azione militare – aveva detto intervenendo alla Camera dei Lord britannica – è necessaria per cacciarli dai villaggi, così che la nostra gente e le altre minoranze possano farvi ritorno”. Mons. Warda, in quella sede, aveva osservato inoltre che solo “con il dispiegamento di truppe di terra” si sarebbe potuto ottenere qualche risultato nella lotta alla minaccia impersonata dai tagliagole al servizio dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al Baghdadi.