Lo stabilimento dell'Ilva di Taranto

Tra Ilva e Iri

Massimo Mucchetti

Perché il mio Pd non riesce a fare i conti con l’esperienza storica dello stato nella nostra economia

Caro direttore. La tua indagine sulla politica industriale del governo apre due interrogativi. Il primo riguarda il Foglio. Essendo quella di noi giornalisti una parrocchietta minore, me ne libero subito chiedendo se il liberismo originario del Fondatore non stia cedendo il passo all’interventismo ben temperato del Successore. Il secondo interrogativo, ben più rilevante, si può formulare così: perché l’azione di governo verso le imprese appare un patchwork (come tu la qualifichi aderendo al vero) e non (forse, non ancora) una costruzione coerente? A rischio di apparire palloso in tempi di fulminanti tweet, rispondo osservando come l’azione di governo manchi di spessore culturale e dunque soffra i limiti politici della filiera Pci, Pds, Ds e di quella democristiana, per quanto possa apparire paradossale che il capo del governo sofferente sia anche il Rottamatore di quei mondi. Entrambe le principali famiglie politiche del Pd non hanno mai fatto i conti seriamente con l’esperienza storica dello stato imprenditore, con la politica degli incentivi e degli investimenti pubblici dell’età repubblicana e con gli esiti reali della riforma bancaria del 1993 e successive modificazioni. E quando dico i conti, intendo proprio i conti, come suggeriva invano di fare ai comunisti il grande banchiere Raffaele Mattioli, liberale anarchico quant’altro mai. I numeri non sono aridi per chi li sa leggere, tutt’altro: essi rendono misurabile il rapporto tra costi e benefici oltre le cortine fumogene delle pur interessantissime ideologie.

 

Il centrosinistra ha smantellato l’Iri ma non ha mai tirato le somme. L’avesse fatto, avrebbe scoperto che il fondamento di quella scelta non era fondato. Rappresentava solo l’opinione di Mediobanca e delle banche internazionali, in feroce concorrenza fra loro per la comune fame di commissioni e, nel caso della banca milanese, per il disegno di riorientare alcune grandi famiglie del capitalismo italiano dall’industria alla rendita. Ricordo che il saldo finale di quella liquidazione è stato positivo per oltre 20 miliardi di euro. Quella liquidazione ebbe tre padri che stanno nel Pantheon della sinistra: Andreatta, come abbiamo visto, Ciampi e Prodi. Quest’ultimo ha poi preso decisioni di segno diverso dal Vangelo degli anni 90; di più a Romano, allievo di Nino, non si può chiedere. Ma nel team che rottama ci dovrebbe pur essere qualcuno che si ricorda chi davvero fece la privatizzazione di Telecom Italia senza addossarla a D’Alema, per scopi di polemica politica immediata. Certo, il revisionismo storico erode le basi della teoria del vincolo esterno come ariete riformista contro le chiusure corporative domestiche, una teoria tipica di Carli e Andreatta, della Banca d’Italia e, ma solo quando serve, della Confindustria. Il revisionismo si fa rivoluzionario se poi fa emergere la subalternità culturale degli ex comunisti che, non avendo mai avuto il coraggio di fare una Bad Godesberg, hanno cercato legittimazione alla City seguendo, peraltro, un deriva globale che ha fatto del democratico Clinton il picconatore del Glass Steagall Act.

 

L’Italia della Seconda Repubblica e l’Europa dell’Atto unico hanno dannato la nozione stessa di politica industriale in ragione della politica dei fattori. Lo stato è acquirente di beni e servizi attraverso gare europee e regolatore della libera competizione tra le imprese, meglio se attraverso organismi burocratici come le Autorità indipendenti e comunque in regime di libera circolazione dei capitali. Gli incentivi andrebbero sradicati, e comunque giocati in chiave di mera compensazione dei fallimenti del mercato a favore di progressive riduzioni fiscali. L’intervento diretto nel capitale delle imprese diventa un tabù. L’uso del fattore lavoro va liberato dalle protezioni sindacali. Il finanziamento delle imprese va spostato dalle banche alla Borsa, comunque dando alle banche la facoltà di esercitare tutti i mestieri bancari attraverso la cancellazione della riforma del 1936 (quanto erano più bravi dei contemporanei i tecnocrati degli anni Trenta, quanto in fatto di banche e capitalisti Mussolini ebbe la vista più lunga di tanti sedicenti riformisti degli ultimi vent’anni!). Fare la storia dell’ultimo quarto di secolo porterebbe a revisionare, dati gli effetti, la teoria dello shareholder value come obiettivo dell’impresa. C’è un Rathenau da riscoprire. E allora capiremmo che non ha senso salvare l’Ilva impiegando risorse pubbliche a basso rendimento e poi voler fare la rete di nuova generazione nelle telecomunicazioni pretendendo un ritorno sul capitale del 13 per cento. Non ha senso reclamare più credito e, al tempo stesso, pretendere sofferenze basse coperte dai fondi per il 60-70 per cento. Non ha senso invocare dalle banche il sostegno agli investimenti avendo smontato il credito industriale e non avendo usato nemmeno la riforma della Banca d’Italia come occasione per costruire una nuova banca per il credito a medio e lungo termine. Caro direttore, evochi la bad bank. Ottimo.

 

Ma a che prezzo si scontano i crediti deteriorati? E come si concilia la pretesa di un capitale di vigilanza che va verso il 20 per cento degli attivi ponderati per il rischio con l’idea di remunerare bene il capitale bancario in competizione con altri settori senza che, avendo il margine di interesse ai minimi storici, le banche facciano finanza d’assalto? Basterà tagliare il personale? Si potrebbe scrivere di politica industriale per pagine e pagine, dopo lustri di damnatio memoriae. Risparmiamocelo. Certo, Missiroli direbbe: ci vorrebbe un giornale, forse un partito. Ma già sento la replica del Pierino di turno: il 27 febbraio, il premier ha ascoltato tutti quelli che avevano qualcosa da dire, un’ora Rai, un’ora Fisco…, e tu non c’eri. I giornali non hanno riferito di idee memorabili emerse dal pensatoio del Nazareno? Bella forza, i giornalisti sono i soliti scribacchini al servizio dei poteri forti che il governo vuole battere in breccia.

 

Massimo Mucchetti, senatore del Pd, presidente della commissione Industria del Senato

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