La responsabilità personale dei Jihadi John

Redazione

Sbaglia chi si ferma al “contesto” in cui si muovono i tagliagole

Uno dei tic più ricorrenti tra commentatori, leader politici e religiosi occidentali è quello di spiegare l’islamismo radicale con tutto ciò che d’islamico e radicale ha ben poco. Di fronte al fenomeno di centinaia di europei che scelgono d’ingrossare le file di un partito armato anti occidentale – sia che operi negli stati semi-falliti del medioriente sia che lo faccia nei caffè delle nostre capitali – la tendenza interpretativa dominante è tanto chiara quanto sterile. Da qui l’attenzione al quartiere periferico e degradato in cui è cresciuto il jihadista autoctono di turno, l’inchiesta sul tasso di istruzione presumibilmente basso assicurato dal sistema scolastico, l’approfondimento sulle condizioni di povertà materiale relativa del soggetto.

 

Ogni occasione è buona per ragionare sul “contesto” in cui l’islamismo militante sarebbe avvampato. Al punto che, nel caso del cittadino britannico Jihadi John, uomo-immagine dello Stato islamico (Is) negli sgozzamenti in mondo visione, è stata avanzata la tesi che il pressing asfissiante dell’intelligence britannica – per quanto infine fallimentare – avrebbe fatto esplodere l’esasperazione di Mohamed Emwazi. In realtà, come ha scritto Adriano Sofri su queste colonne, “fra la disgustosa abitudine alla sopraffazione di troppi appartenenti alle forze dell’ordine e il coltellaccio dell’Is c’è una distanza, e a colmarla è solo la responsabilità personale di Mohamed Emwazi e dei suoi sodali”. Vero. Pure per il Wall Street Journal non è utile fingere che non esista la “moral agency” di questi fedeli islamici, cioè la loro capacità di agire scegliendo tra ciò che è bene e ciò che è male. “Deumanizzarli” è un torto verso gli altri musulmani e un tentativo di colpevolizzare noi stessi. Un regalo inutile al partito armato anti occidentale.

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