Un manifesto elettorale di Tsipras, ad Atene (LaPresse)

GRECIA, ANNO ZERO

Marco Valerio Lo Prete

Syriza punta tutto contro Merkel, ma un piano radicale sul debito non basta. Le mille lezioni della privatizzazione (impantanata) dell’aeroporto che fu di Onassis.

Atene. Davanti ai chioschi che nella capitale greca vendono snack e giornali, le prime pagine dei quotidiani sono stese ogni mattina come panni appena lavati, appese ordinatamente a delle mollette. E i capannelli di lettori si formano continuamente, confrontandosi con un’insolita dose di politica internazionale. Sulla prima del quotidiano Ta Nea dominano due foto incrociate, quella del premier conservatore uscente Antonis Samaras con il suo collega spagnolo Mariano Rajoy che ha detto pubblicamente di sostenere la sua cura di austerity, e poi quella del leader di Syriza, Alexis Tsipras, a braccetto con il collega del movimento euroscettico iberico Podemos. Sul settimanale Hot Doc, famoso perché nel 2012 svelò e pubblico la “Lista Lagarde” con i nomi di oltre 2.000 grandi evasori greci che il Fondo monetario internazionale (Fmi) aveva segnalato all’esecutivo, la copertina invece è tutta per Samaras, disegnato come un burattino con sotto il titolo “Gli stranieri stanno governando la Grecia via e-mail”; un riferimento ad alcune missive che sarebbero state scambiate lo scorso novembre tra Atene e la Troika (composta da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale) per concordare dei ritocchi al regime fiscale. L’ossessione per quello che accadrà fuori dai confini del paese non è soltanto una bolla mediatica: il partito di sinistra radicale Syriza guida ancora i sondaggi e il suo volto più noto, Tsipras, in questo momento in campagna elettorale nel resto del paese prima della gran chiusura prevista ad Atene, non si è fatto sfuggire nemmeno un comizio per attaccare la solita Troika. Un'altra candidata di Syriza, Rachil Makri, si è spinta ancora oltre: ha detto che se la Bce dovesse smettere di finanziare Atene dopo che il paese avrà cestinato il memorandum con la Troika, allora sarà la Banca centrale ellenica a stampare in proprio 100 miliardi di euro. Convenienza tattica o convinzione strategica, dichiarazioni ponderate o mere boutade che siano, tutto ciò conferma la preminenza del dossier “Europa” in vista di elezioni nazionali pur sempre scaturite da una vicenda domestica come la mancata scelta del Presidente della Repubblica. “E’ terribile. Sembra di essere tornati indietro nel tempo alle elezioni del giugno 2012. E poi ancora a quelle prima – dice al Foglio George Tzougopolos, giornalista e studioso della copertura riservata alla crisi finanziaria greca da parte dei media internazionali – Come se nel nostro paese non ci fosse null’altro di più concreto di cui discutere. I leader politici greci vogliono convincere gli elettori che il problema sarà soltanto il rapporto con Berlino e con i propri creditori. Un rapporto su cui, a voler essere onesti, c’è ben poco margine per incidere in maniera sostanziale”.

 

Anche personalità indipendenti, che oggi simpatizzano per Syriza e attribuiscono una notevole importanza alla possibilità di rinegoziare il debito pubblico del paese che è arrivato a superare il 170 per cento del pil, si stanno convincendo che la strategia del “tutto-sulla-Merkel” si potrebbe presto rilevare insufficiente e perfino controproducente per il partito-outsider. E’ il caso per esempio di Elena Panaritis, dal 2009 al 2012 parlamentare per i socialisti del Pasok, scelta dall’allora primo ministro George Papandreou proprio per il suo profilo “tecnico” già visto all’opera negli Stati Uniti e alla Banca mondiale: “Grecia nell’euro o Grecia fuori dall’euro? Perfino un interrogativo così radicale diventa del tutto secondario se il paese non affronta la questione della sua capacità produttiva”, dice. Il Foglio ha incontrato la Panaritis, oggi a capo dell’organizzazione non governativa e apartitica “Thought for Action”, nella sua sede a due passi dal Parlamento greco a Piazza Syntagma. Nell’appartamento adibito a quartier generale, un gruppo di giovani attivisti – con un board di teste pensanti in cui figurano tra gli altri l’americano Francis Fukuyama e il premio Nobel per l’Economia britannico-cipriota Christopher Pissarides – si dedica a “identificare e rimuovere le barriere economiche e regolatorie che ostruiscono la creazione di ricchezza”. Verrebbe da dire che aiutate dal basso la Troika nel lavoro sporco delle riforme strutturali. “In realtà la Troika si è fermata purtroppo alla superficie, con un approccio solo fiscale e di bilancio alla situazione greca – replica la Panaritis – Risultato? Oggi il paese è ancora insolvente, nonostante i sacrifici compiuti dalla popolazione”. Il debito pubblico greco è talmente imponente che la proposta di una sua ristrutturazione che infligga perdite ai creditori, agli occhi degli accademici almeno, è fra le meno controverse di quelle avanzate da Syriza. “Noi tuttavia preferiamo concentrarci su qualcosa che purtroppo è mancato del tutto in questi ultimi sei anni di cambiamenti: la riforma delle istituzioni. Su questo, in occasione delle nostre conferenze pubbliche, siamo ormai seguiti da migliaia di persone”, continua la Panaritis. Ben venga dunque un haircut sostanziale del debito pubblico greco, sostiene l’ex politica che parla perfettamente inglese e italiano: “Se Alexis Tsipras andrà al governo, su questo punto non dovrà accettare compromessi, nell’interesse dell’Europa. Ma se nella stessa trattativa non proporrà anche un piano di sviluppo, che non sia fondato su nuova spesa pubblica in deficit, la Grecia sarà persa lo stesso”.

 

La conclusione è tranchant, ma l’approccio per arrivarvi è tutt’altro che ideologico. Panaritis ha studiato da vicino l’andamento delle privatizzazioni greche e sostiene che la loro parabola accidentata è la dimostrazione perfetta di cosa significhi avere “istituzioni medievali, letteralmente, che sbarrano la strada a una crescita autopropulsiva”. L’economista, nello specifico, ci sottopone l’esempio dell’ex aeroporto internazionale di Atene, l’“Hellinikon” come lo chiamavano qui, attivo fino al 2001. Già prima di allora, le autorità del paese si erano rese conto che i passeggeri di tutto il mondo non potevano più atterrare stretti tra il mare e le fila di palazzi che negli anni avevano attorniato le piste a sud della capitale, complice un’espansione urbana ben poco pianificata. Così, nel 2001, a est di Atene venne inaugurato un nuovo aeroporto, intitolato a Eleftherios Venizelos, leader anti-ottomano e poi primo ministro all’inizio del secolo scorso, scomparso nel 1936; allo stesso tempo i vari esecutivi greci iniziarono ad annunciare l’imminente riqualificazione del vecchio aeroporto Hellinikon, grande il triplo di quello attuale di Monaco e che il magnate Aristotle Onassis, negli anni 60, aveva ricoperto di marmi bianchi durante la sua gestione della compagnia di bandiera ellenica, l’Olympic Airways. Lì sarebbe dovuto sorgere un enorme parco commerciale con alcune aree verdi. Da allora però non se n’è fatto quasi nulla, perché nel frattempo non solo nel paese sono diminuiti i benefattori in stile Onassis, ma anche i soldi dei forzieri pubblici sono quasi del tutto scomparsi. Così, di recente, si è fatta avanti l’ipotesi della privatizzazione, con il possibile intervento di capitali stranieri. “Ecco il momento in cui si è palesata l’inesistenza di istituzioni, pure le più basilari, adeguate a un’economia di mercato”, dice Panaritis. Perché all’inizio del 2014, finalmente, la gara è pronta e il governo parla di tre possibili acquirenti in competizione tra loro: un gruppo inglese, un gruppo israeliano, e infine un gruppo greco in tandem con dei finanziatori cinesi. D’un tratto però gli acquirenti stranieri si tirano indietro: “Sa cosa si scoprì, nel 2014, a quasi quindici anni dalla chiusura di quell’aeroporto?”, chiede l’attivista, con il tono di chi è sicuro di stupire l’interlocutore. “Ci si rese conto che sulla stessa area c’erano tre diverse municipalità che rivendicavano un titolo di proprietà, poi 105 entità pubbliche che accampavano diritti di diverso tipo su piste ed edifici, e perfino alcuni piccoli proprietari privati. Ecco cosa vuol dire non avere un catasto degno di questo nome, nel XXI secolo”. In condizioni simili, nonostante le garanzie verbali dell’esecutivo, la possibilità di una serie infinita di ricorsi giudiziari trasformò il prezioso asset da privatizzare in un peso morto e un tantino radioattivo. Così alla fine, lo scorso anno, gli unici a farsi avanti con un’offerta sono stati i greci del gruppo Lamda, di proprietà dell’uomo più ricco del paese, Spiros Latsis, evidentemente convinto di poter gestire eventuali problemi futuri grazie alle sue connessioni politiche (già viste all’opera, dicono i maligni, quando si trattò di posticipare il primo haircut del debito pubblico greco che avrebbe messo in ginocchio le banche di Latsis. “Nel gergo degli economisti, si dice che lo stato è ‘catturato’ da interessi particolari”, chiosa la Panaritis). Se queste erano le ben poco incoraggianti premesse, oggi poi lo stesso gruppo Lamda sta nicchiando, ritardando un investimento che alla fine doveva valere complessivamente 7 miliardi di euro, adducendo la scusa che il Parlamento ha ancora un ulteriore passo da compiere prima di concludere la privatizzazione: “Da questa vicenda, in definitiva, emerge un ordinamento greco che è allo stesso tempo medievale e simil-comunista – aggiunge la Panaritis – Medievale per il modo approssimativo in cui sono tutelati i diritti di proprietà, e simil-comunista considerato che il Parlamento, una volta decisa la privatizzazione, deve dare un ulteriore formale via libera al piano d’investimento!”.

 

E’ naturale dunque che le privatizzazioni, nel regno dell’incertezza sul diritto di proprietà, procedano a rilento. Nemmeno la volontà politica, che pure il governo di coalizione di Samaras ha in parte dimostrato dal 2012 a oggi, può nulla se non aggredisce tali questioni di fondo. Né sono soltanto le grandi privatizzazioni a risentire della mancata tutela del diritto di proprietà. Si prenda il caso delle Olimpiadi del 2004, da molti considerate come il canto del cigno dello stato-Pantalone ellenico. Il paese allora attraversò una fase di robusto rinnovamento strutturale per prepararsi a quell’evento. La fretta di fare e la volontà di stupire il mondo, però, hanno avuto un costo salato: molte delle espropriazioni effettuate per costruire o rinnovare le strutture sportive e ricettive sono state successivamente contestate in tribunale, spesso con somma soddisfazione economica dei ricorrenti (tra l’altro non sempre titolati, ma vallo a dimostrare!). Per non parlare della riscossione delle tasse, per esempio sui terreni: “In molte aree è ancora incerta la misurazione degli appezzamenti, vista la necessaria conversione di un titolo di proprietà che dal tempo degli ottomani è soltanto funzione della produttività – per esempio, ‘è di mia proprietà quel terreno X con otto file di ulivi’ – in un titolo di proprietà che oggi va identificato con esattezza e con il suo numero di metri quadrati. Spesso poi si pagano le tasse in base a quanto territorio è stato occupato, non invece in base al diritto di proprietà dimostrabile con gli opportuni titoli. Siamo al paradosso per cui i sistemi catastali più avanzati sono quelli rimasti nei territori sul Mar Ionio che furono oggetto della dominazione veneziana tra medioevo e Rinascimento, oppure di quella italiana sul Dodecaneso nella prima metà del Ventesimo secolo”, esclama la Panaritis. Come se poi, per i contribuenti greci, non fosse sufficiente trovarsi in un paese in cui, secondo i calcoli di Thought for Action, in media ci sono ogni giorno 8 piccoli o grandi cambiamenti al regime fiscale in vigore. “Sono tutti rischi ingenti, mai davvero calcolabili dagli operatori, che non possono che frenare l’azione di cittadini e imprenditori privati, sia greci sia stranieri”.

 

[**Video_box_2**]E’ analizzando tanti casi simili a quello dell’aeroporto Hellinikon, dimostrandone l’effetto deleterio per la ripresa economica e sociale della Grecia, che questa organizzazione non governativa sta tentando da qualche mese di popolarizzare un approccio che gli accademici chiamano di “institutional economics”. Il dibattito elettorale in corso, però, non sembra interessarsi affatto di argomenti simili. “Nessun leader politico greco, finora, ha detto davvero ai cittadini com’è che siamo arrivati fin qui – dice Panaritis – Il punto è che nei paesi senza istituzioni degne di questo nome, l’unico atteggiamento degli operatori razionali è quello che nella teoria dei giochi si definisce ‘atteggiamento opportunistico’. Cosa vuol dire? Che se limitiamo il gioco a due persone, ci sarà una che vince tutto e una che perde tutto. Atteggiamenti minimamente cooperativi diventano irrazionali, per quanto nel medio-lungo periodo sarebbero convenienti”. Si applichi lo schema “micro” a un livello “macro” e si potrà capire come la situazione dell’economia greca sia stata lentamente ma inesorabilmente compromessa: “Con uno stato che nemmeno riesce a garantire alcuni diritti fondamentali, non parliamo poi dei servizi, è inutile stupirsi se poi i cittadini sono tutt’altro che disposti a pagare le tasse come accade nel resto del mondo industrializzato”.   

 

Cosa ne sarà di tutti questi ragionamenti, dopo il voto di domenica prossima, è difficile a dirsi. La Panaritis, con il suo gruppo Thought for Action, non ha appoggiato ufficialmente nessuno dei partiti in corsa, ma non nasconde di essere personalmente d’accordo con l’ipotesi di rinegoziare in maniera sostanziale il debito pubblico greco, oggi perlopiù in mano a creditori ufficiali (Bce, Fmi e stati europei). Come è emerso di recente, una ristrutturazione del debito suggerì di farla già nel 2010 il Fondo monetario internazionale, poi frenato dai partner europei. Syriza quindi oggi è la scelta migliore per i greci? “Se la trattativa multilaterale sul debito non sarà legata dal nostro governo a un nuovo piano d’azione di riforme strutturali nel paese, andremo comunque dritti verso il default”. Syriza che propone “riforme strutturali” è difficile da immaginare, ma secondo Panaritis meno difficile di quanto sembri. Perché la Grecia, senza rianimare la sua capacità produttiva, haircut del debito o non haircut, rimarrebbe comunque insolvente. “Se all’interno di Syriza prevarranno le voci di chi già oggi apre alla necessità di cambiare quanto serve per far ripartire la crescita, di chi non accetterà compromessi su una rinegoziazione del debito e di chi – venendo da una nuova generazione di politici – non riprodurrà subito certi meccanismi di cattura dello stato da parte di interessi particolari, allora il paese potrà ripartire”. E se invece prevarranno le spinte ideologiche, quelle che chiedono solo di ricominciare a spendere e di raddoppiare per esempio il salario minimo? “Allora la Grecia andrà incontro al sacrificio estremo, un po’ come il canarino che un tempo veniva portato nei cunicoli delle miniere per testare prima di tutti e su di lui gli effetti delle esalazioni mortali – conclude la Panaritis – Perché è quasi tutta l’Europa, oggi, a essere diventata fin troppo ‘medievale’ per innovare e crescere. La Grecia è soltanto il malato più grave, ma il virus che l’ha infettata è lo stesso che colpisce Italia, Francia e Spagna”.

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