Ritorno all’identico? La sinistra radicale di Syriza conserva un vantaggio di almeno 3,5 punti sulla coalizione dei conservatori alla vigilia delle elezioni del 25 gennaio, ma sembra il vecchio Pasok

Il virus statal-populista

Marco Valerio Lo Prete

Syriza è diventata moderata o affonderà l’Europa? Per Pappas è un falso problema: “La Grecia è malata di populismo assistenzialista”. C’è rischio contagio.

“Se è vero ciò che afferma Karl Marx, ovvero che la storia si ripete sempre due volte, una prima volta in forma di tragedia e una seconda in forma di farsa, allora Syriza è la farsa del Pasok e il Pasok l’inizio della nostra tragedia odierna”. Petros Markaris (“Tempi bui”, 2012)

 

Atene. “Tsovolas, svuota i forzieri!”. Così urlò il primo ministro greco, il socialista Andreas Papandreou, rivolto al proprio ministro delle Finanze, durante un comizio elettorale. La folla di cittadini presenti, tra urla e applausi, mostrò la propria approvazione. Era il 1989 e i forzieri della Grecia già non erano più così pieni: il numero di occupati nel settore pubblico negli anni 80 era cresciuto a una velocità quasi quadrupla di quanto non fosse avvenuto nel settore privato; il rapporto debito pubblico/pil nel paese era partito dal 39,4 per cento del 1980 e nove anni dopo aveva superato quota 100 per cento (109,2 per cento nel 1990, per la precisione). E’ alla luce di episodi e dati simili che Takis Pappas, politologo greco dell’Università della Macedonia, formatosi a Yale e oggi “visiting professor” all’Institut d’Etudes Politiques di Strasburgo, preferisce leggere le evoluzioni politiche del suo paese e il loro possibile impatto sull’Europa.

 

Nelle cancellerie del continente e tra gli analisti internazionali, la domanda più ricorrente è per il momento la seguente: Syriza, il partito di sinistra radicale favorito per le elezioni di domenica prossima in Grecia dopo avere promesso la fine dell’austerity e un robusto taglio del debito pubblico, ha davvero moderato le sue posizioni rispetto al voto del 2012, quando nemmeno l’uscita dall’euro era un tabù? Oppure ha soltanto addolcito i toni per ragioni tattiche? Domanda che può essere così riformulata: un nuovo governo che sarà guidato – secondo i sondaggi – dal leader Alexis Tsipras potrà forse compiere gesti sconsiderati e riportare il caos nei mercati? Pappas vorrebbe suonare la sveglia e dire al mondo che queste rischiano di essere le domande sbagliate: “Non c’è nessuna palingenesi dietro l’angolo. Lo schema ‘Tsovolas-svuota-i-forzieri’ del vecchio Papandreou è ancora quello dominante nel mio paese – dice il politologo in un’intervista al Foglio – Il demone populista non ha abbandonato la Grecia, anzi con Syriza sta per tornare al potere dopo che si era preso una breve pausa perché esausto. Il contagio greco per il resto del continente, se non di tipo economico, rischia di essere politico”.

 

Nulla è uguale a prima, ben inteso, da quando nel 2010 passò il messaggio che uno stato sovrano poteva fallire, la Grecia nel caso di specie. “Il sistema dei partiti è collassato. Dopo trent’anni di alternanza tra i socialisti del Pasok e i conservatori di Nuova democrazia, nel 2012 abbiamo avuto una grande coalizione tra questi due partiti che fino a quel momento si erano dati battaglia all’ultimo sangue. Adesso, nel 2015, addirittura Pasok e Nuova democrazia rischiano di passare entrambi all’opposizione. Quello che non è cambiato, purtroppo, è il sistema politico”. Pappas non indugia oltre in classificazioni teoriche; nel suo libro appena uscito in inglese per la casa editrice Palgrave, “Populism and Crisis Politics in Greece”, illustra le caratteristiche fondamentali del sistema in auge prima della crisi. Si tratta di una storia avvincente che inizia quasi subito con il piede sbagliato: se infatti 40 anni fa, nel 1974, cadde il regime autoritario dei colonnelli, subito dopo deragliò però il processo di “metapolitefsi”, cioè di “regime change” o “transizione”. Konstantinos Karamanlis, primo ministro conservatore dal 1974 al 1980, gettò le basi di una democrazia “moderata e inclusiva”, capace per esempio di stilare una Costituzione pluralistica, di abbandonare la monarchia per via referendaria e di legalizzare il Partito comunista, nonché di cominciare a far funzionare un’economia di mercato e di iniziare un percorso d’avvicinamento verso l’Europa. Poi però “il liberalismo in Grecia perse la battaglia contro il populismo”. Il fondatore del Pasok, Andreas Papandreou, utilizzò tutto l’armamentario classico del populismo: “Lotta alla ‘subalternità ai poteri internazionali’ e all’‘establishment’ in nome delle ‘persone meno privilegiate’, queste erano le sue parole d’ordine. Non si nota qualche somiglianza con Tsipras?”, chiede Pappas all’interlocutore. Nel 1981 il motto del leader socialista – “con il Pasok al governo avremo il popolo al potere” – divenne realtà; da quel momento Papandreou, ininterrottamente alla guida dell’esecutivo dal 1981 al 1989, poi dal 1993 al 1996, dovette “soddisfare la moltitudine di domande e richieste della sua constituency elettorale, senza dimenticare di rifornirla di benefici materiali. Lo fece espandendo il suo controllo sullo stato e su altre cruciali istituzioni politiche ai danni degli oppositori. Negli anni 80 inoltre si assistette in Grecia a una significativa redistribuzione sociale attraverso l’intervento dello stato nell’economia. Per fare ciò il governo utilizzò tre mezzi: la spartizione di risorse pubbliche, la torsione delle istituzioni e la polarizzazione politica tra avversari”. Le guardie verdi del Pasok, come si chiamavano i nominati del Partito socialista con la bandiera verde (per distinguersi meglio dai comunisti), affollarono la macchina pubblica. Presto la politica di “patronage”, inteso come quel legame clientelare tra politici ed elettori basato su concessioni dirette e materiali indirizzate a individui o piccoli gruppi, si estese anche alla destra dello spettro politico. Un’inchiesta terminata nel 2010 ad opera dell’Ispettore generale per la Pubblica amministrazione, riuscì per esempio a dimostrare per tabulas la lottizzazione di Amel, società pubblica della metro di Atene: dalle elezioni del marzo 2004 che portarono al potere Nuova democrazia, guidata allora da Kostas Karamanlins (nipote del primo premier greco), la società assunse 549 persone, aumentando la sua forza lavoro del 50 per cento. Metà di queste assunzioni avvenne in 23 giorni di campagna elettorale, nel 2009; assunzioni che non rispettarono alcun criterio di merito se non quello che i lavoratori dovevano essere originari di due particolari regioni, collegi elettorali di un paio di ministri. “Questo caso divenne di pubblico dominio, ma fu tutt’altro che eccezionale”.

 

Pappas perciò sostiene che il modello greco è un unicum: “Bipartitismo populista, fondato sul saccheggio delle risorse pubbliche”. Ecco innanzitutto spiegato il “bipartitismo populista”: “Per il leader socialista Papandreou c’era da una parte il popolo e dall’altra l’establishment; da una parte le forze della luce e dall’altra quelle dell’oscurità, come venivano chiamati gli elettori dell’opposizione conservatrice. Così, mentre solitamente il clientelismo è indirizzato a piccoli e specifici gruppi, la società greca era stata divisa in due campi inconciliabili rappresentati da partiti populisti che si alternavano al potere, quindi tutti i cittadini potevano ragionevolmente attendersi una fetta della torta non appena il proprio partito vinceva le elezioni”.

 

Quanto all’uso spregiudicato delle risorse pubbliche, o meglio delle rendite: “Nel nostro paese, i benefici distribuiti dalla politica sono stati storicamente di tre tipi: benefici in termini di reddito, come stipendi e pensioni; privilegi a mo’ di protezione dai rischi di mercato e infine forme di impunità davanti alla legge”. Il numero di dipendenti pubblici, per esempio, crebbe del 50 per cento negli anni 80, quindi rallentò appena: “Nel 2009, all’inizio della crisi, avevamo oltre un milione di persone alle dipendenze dello stato, il 22 per cento della forza lavoro. In tre decenni di regime democratico-populista, il settore pubblico dell’economia è raddoppiato per misura, mentre la popolazione è cresciuta soltanto dell’8,4 per cento nello stesso periodo. Nel paese, alla vigilia della crisi, la spesa pensionistica era uguale all’11,7 per cento del pil, tra le più alte dei paesi Ocse dove la media era 7,2 per cento del pil”. Quanto all’impunità, il politologo non cita soltanto l’evasione fiscale: “E’ stato stimato che in questi ultimi tre decenni siano sorte un milione fra case e costruzioni completamente abusive”. Le forze produttive del paese, secondo Pappas, non hanno mai contrastato con veemenza questa deriva: “Quasi tutti, incluse le piccole imprese a carattere familiare, si sono accontentati di un sistema poco concorrenziale, purché potessero ricorrere all’evasione fiscale e beneficiare di rendite di vario tipo elargite dal governo di Atene. La produttività negli anni 80 ha iniziato a declinare inesorabilmente. Il costo del lavoro è aumentato incessantemente. Il numero crescente di imprese pubbliche si è caratterizzato per un management inefficiente e per un’allergia alla concorrenza. Né la spesa pubblica è confluita su quelle infrastrutture, fisiche e non solo, di cui il sistema avrebbe potuto beneficiare”. Il giornalista americano Michael Lewis ha utilizzato un’immagine ancora più vivida per descrivere il “bipartitismo populista” di cui parla Pappas: “Si è dimostrato che quello che i greci volevano fare, non appena le luci erano spente e rimanevano soli al buio con un mucchio di soldi presi a prestito, era trasformare il proprio governo in una piñata – la sagoma appesa nel tradizionale gioco messicano che i giocatori bendati debbono colpire e rompere con un bastone, ripiena solitamente di leccornie o giocattoli, ndr – piena di sorprese fantastiche di cui quanti più cittadini possibili dovevano avvantaggiarsi”.

 

“Nel 2010 lo stato ha dovuto ammettere di non avere più le risorse per foraggiare questo sistema che era stato in piedi per quasi quattro decenni – dice Pappas – A quel punto il vecchio sistema è morto, indubbiamente. Però non è ancora nato un nuovo sistema”. Difficile dunque per Syriza fare peggio di quanti l’hanno preceduta? “In realtà mostrarsi populisti, senza nemmeno avere a disposizione le risorse per fare fronte alle richieste che una volta al governo dovranno poi essere soddisfatte, è l’apoteosi e la sublimazione del populismo!”, esclama Pappas. Considerazioni simili a quelle compiute tempo fa in maniera meno accademica da Petros Markaris, celebre scrittore che vive ad Atene, creatore di quel commissario Kostas Charitos che la critica internazionale ha definito “il fratello greco di Maigret” o “il Montalbano di Atene”. “L’opinione secondo la quale Syriza avrebbe assunto le posizioni del Pasok trova conferma anche nel fatto che molti quadri dirigenti dell’apparato statale e dei sindacati sono passati dal Pasok a Syriza credendo che così avrebbero potuto mantenere i privilegi che si erano assicurati quando il Pasok era al governo – scriveva Markaris in “Tempi bui” nel 2012 – C’è pero un’enorme differenza. Quando il Pasok prese il potere, i soldi e le sovvenzioni dell’Ue affluivano generosamente e senza controllo nel paese. Di conseguenza il partito era in grado di foraggiare senza risparmio i suoi quadri e la sua clientela. Oggi, a causa dei memorandum e delle relative misure di austerità, le spese sono state cancellate e decurtate ovunque. Dove dovrebbe trovare i soldi Syriza per aumentare i minimi salariali e continuare a distribuire privilegi se, oltre a ciò, il partito intende anche revocare i memorandum, l’unica risorsa finanziaria di cui dispone ancora il paese?”. La conclusione di Markaris era la seguente: “Se è vero ciò che afferma Karl Marx, ovvero che la storia si ripete sempre due volte, una prima volta in forma di tragedia e una seconda in forma di farsa, allora Syriza è la farsa del Pasok e il Pasok l’inizio della nostra tragedia odierna”.

 

[**Video_box_2**]Tsipras sostiene che le risorse per le sue politiche riuscirà a trovarle, innanzitutto intavolando una trattativa serrata con l’Europa per ridurre il fardello del debito pubblico e poi per rafforzare le politiche di investimento: “Considerate certe risposte che sono già arrivate da paesi come Germania e Finlandia, appare evidente che fare i populisti con i soldi degli altri contribuenti europei sarà più difficile di quanto non lo sia stato finora utilizzando i soldi dei greci”, scherza Pappas. Se il suo ragionamento è corretto – gli chiedo – vuol dire che perfino di fronte al collasso del sistema e al venir meno delle risorse che lo rendevano concepibile, i greci non vogliono lasciarsi alle spalle quel passato: “La classe politica greca è del livello che è. Tuttavia oggi, se il populismo resta in vita dopo uno choc come quello del 2010, è anche perché per 40 anni, a fronte di un sistema populista, abbiamo avuto pure un elettorato che è diventato populista. Che si è adeguato a quello schema. Oggi quell’elettorato, orfano di Nuova democrazia e Pasok, ritrova Syriza”.

 

Questa l’analisi di fondo. Figurarsi quanto saranno radiosi gli scenari futuri tracciati da Pappas. “Semplifichiamo all’estremo. Poniamo che domenica Syriza vinca le elezioni e formi un governo”. Ci sono due ipotesi su quello che può succedere dopo. Ipotesi numero uno: “Il premier Tsipras va al tavolo della trattativa europea senza portare nulla con sé, se non il ricatto di far saltare il banco con decisioni unilaterali. Si può escludere forse che gli altri leader europei, nel frattempo, abbiano maturato la decisione che l’Eurozona può fare oramai a meno di Atene? E se dunque anche loro si recassero al tavolo della trattativa senza nulla da offrire? Default e uscita dall’euro a quel punto non si potrebbero escludere”. Ipotesi numero due: “La Merkel e gli altri in realtà non attendevano altro che l’arrivo di Tsipras a Bruxelles. Appena lo incontrano gli concedono uno sconto sul debito pubblico greco da pagare. Diciamo un taglio del 20 per cento? Diciamo del 50 per cento? Bene, ma cosa succede quando Tsipras torna in patria? La Grecia tornerà forse da un giorno all’altro a essere competitiva e a esportare?”. Secondo il professore, nessuno dei grandi partiti in corsa per le elezioni ha dimostrato di voler rispondere a queste domande.

 

Confermando così che “i problemi economici del paese saranno pure enormi, ma è il sistema politico ad averli generati. Mutare il funzionamento dell’economia, senza incentivare una riforma profonda del sistema politico, questo è stato l’errore più grave compiuto dalla comunità internazionale con il suo intervento in Grecia dal 2010 a oggi”. Un errore che Bruxelles e le altre capitali rischiano di pagare caro: “Se quella greca è l’apoteosi patologica del populismo, il suo effetto-contagio verso altri paesi non è da sottovalutare – conclude Pappas – Vorrei soltanto far notare che il primo leader europeo a complimentarsi pubblicamente con Tsipras per aver fatto cadere il governo greco in occasione della scelta del presidente della Repubblica è stata Marine Le Pen, del Front national francese”. Non a caso il Financial Times, in una delle sue recenti analisi, ha suggerito che “l’Europa teme più un accordo con Tsipras che l’uscita della Grecia dall’euro”; il quotidiano della City, mettendosi per un momento nei panni degli euroburocrati e degli altri leader europei che finora hanno sostenuto la Troika o le politiche di rigore fiscale, si è chiesto: “Raggiungere un’intesa con Syriza non rafforzerebbe forse altri movimenti radicali in giro per il continente, come il partito spagnolo di estrema sinistra Podemos?”. Tra qualche mese lo sapremo. Domani intanto, a chiudere la campagna elettorale in piazza ad Atene, a fianco del quarantenne Tsipras ci sarà proprio Pablo Iglesias, segretario ed eurodeputato 38enne del movimento iberico Podemos.

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