O'Connell Bridge, al centro di Dublino (foto AP)

L'anti Grecia. L'Irlanda cresce e abbandona la periferia dell'Eurozona

Marco Valerio Lo Prete

L’Irlanda, che fu tra i primi paesi a crollare, sta uscendo a discreta velocità dal gruppo dei paesi di coda dell’Eurozona; lo dicono i dati e lo certificano i mercati.

Roma. La crisi dell’euro 2.0 potrebbe ricominciare da dove era iniziata, cioè dalla Grecia. Bruxelles e gli investitori temono che il Parlamento di Atene non riesca a eleggere il presidente della Repubblica entro il 29 dicembre e perciò il paese possa essere costretto ad andare al voto, lasciando campo aperto a Syriza, partito di estrema sinistra che si dice pronto a rigettare tutti gli accordi internazionali, inclusi quelli con la Troika (composta da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale). Tuttavia, rispetto alla crisi deflagrata nel 2010, le differenze saranno almeno due. La prima, di non poco conto, riguarda l’atteggiamento della Banca centrale europea; con Mario Draghi alla guida, l’istituzione monetaria ha annunciato un’imminente “svolta americana”, il Quantitative easing (o allentamento quantitativo). Secondo un’indiscrezione pubblicata ieri da Reuters, alle Banche centrali di paesi a rischio – come la Grecia e il Portogallo – potrebbe essere richiesto di accantonare più risorse in cambio degli acquisti di bond sovrani da parte di Francoforte. Si vedrà. Nel frattempo però i rendimenti sui debiti sovrani continuano a scendere, perché agli acquirenti di bond per ora è bastata la parola di Draghi.

 

Poi c’è un’altra differenza, apparentemente più minuta, rispetto alla slavina partita nel 2009-2010. Infatti l’Irlanda, che allora fu tra i primi paesi a crollare, sta uscendo a discreta velocità dal gruppo dei paesi di coda dell’Eurozona; lo dicono i dati e lo certificano i mercati. La sigla dispregiativa “Pigs”, che sta per Portogallo-Irlanda-Grecia-Spagna ma anche per “maiali”, nacque proprio per segnalare che Dublino aveva un’economia a pezzi, come quella di Atene seppure per ragioni diverse. In estrema sintesi, l’isola dell’Oceano atlantico fu trascinata a fondo dagli eccessi di debito privato, mentre quella che fu la culla della democrazia rimase travolta da una gestione allegra dei conti pubblici e da una costante perdita di competitività. Oggi però l’Irlanda non minaccia nessuno dei vicini, anzi. Nel 2016, per dirne una, nell’isola si terranno le elezioni politiche, ma non ci sono partiti populistici in odore di vittoria.

 

[**Video_box_2**]Non è tutto. Mentre il debito pubblico italiano a inizio mese è stato declassato dall’agenzia di rating Standard & Poor’s a “BBB–”, cioè a un passo dal livello spazzatura, la stessa agenzia ha promosso l’Irlanda, facendola passare da “A–” ad “A”. Gli analisti di Standard & Poor’s si attendono, tra le altre cose, che il debito pubblico irlandese raggiunga in questi mesi un picco pari al 117 per cento del pil, per poi scendere al 91,4 per cento nel 2017 (il nostro arriverà al 133 per cento nel 2016).

 

Nel terzo trimestre di quest’anno, il tasso di crescita della ex Tigre celtica – come veniva chiamata negli anni 90 l’Irlanda, un pezzetto d’Asia rampante nei confini dello sclerotico Vecchio continente – è stato dello 0,1 per cento. Poca cosa, potrebbe dire qualcuno, anche se sempre meglio del meno 0,1 per cento dell’Italia. Quest’anno però il paese, a differenza del nostro che dovrebbe chiudere con un tasso di crescita negativo dello 0,3 per cento, vedrà un pil in rialzo di 4,7 punti percentuali. Un’ulteriore conferma viene dai dati più recenti sulla produzione industriale: quest’ultima a ottobre è aumentata nell’eurozona di uno striminzito 0,1 per cento sul mese precedente e dello 0,8 per cento rispetto allo scorso anno; in Irlanda gli aumenti sono rispettivamente del 9 e del 38,8 per cento.

 

Numeri, numeri, numeri? Non solo. Certo, le banche del paese salvate in toto dallo stato centrale sono diventate agli occhi del pianeta il simbolo dell’azzardo morale da evitare. Oggi però, per fare un esempio, le imprese irlandesi – secondo le stime della Commissione Ue – sono tra quelle che investono di più in ricerca e sviluppo, oltre la media continentale. Il tasso di disoccupazione, che in Italia è al 13,2 per cento e in Grecia al 25,7 per cento, in Irlanda è al 10,7 per cento. Un valore ancora alto in assoluto, ma in netta e rapida discesa dal  record del 15,1 per cento che era stato raggiunto nel 2012. La conclusione degli analisti di Unicredit basati nel Regno Unito è la seguente: “We expect Ireland to gradually converge to semi-core countries”. “Ci aspettiamo che l’Irlanda converga gradualmente nel gruppo di paesi semi-centrali”.

 

Con tanti saluti alla Troika, arrivata nel paese quattro anni fa portando in dote un prestito condizionato di 67 miliardi di euro. Giovedì scorso Dublino ha detto di aver ripagato già la metà di quel prestito. In anticipo, ovviamente.

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