Wang Qishan nel giorno della sua nomina al Comitato permanente il 15 novembre del 2014

Wang l'incendiario

Eugenio Cau

Chi è il chainsmoker che il Partito comunista ha nominato per la Grande epurazione: come il signor Wolf in Pulp Fiction di Quentin Tarantino il Partito lo chiama quando c’è un problema, lui lo risolve. Solo nel 2013 sono stati indagati per corruzione 182 mila membri del Partito. L’anno prima erano stati meno di 20 mila.

Si dice che Wang Qishan, lo zar anticorruzione del Partito comunista cinese, sia ossessionato da “House of Cards”. Dopo aver visto i primi episodi, ha scritto il giornale di Hong Kong Phoenix Weekly, Wang ha iniziato a consigliare la serie ai suoi colleghi nel Zhongnanhai, la sede del Partito, e alla fine della prima stagione ha tampinato i suoi sottoposti per sapere quando sarebbe iniziata la seconda. La seconda stagione è uscita qualche mese fa, ed è quasi tutta incentrata sulla Cina. Parla della disputa militare tra Cina e Giappone nel Pacifico, e uno dei personaggi principali è un imprenditore cinese corrotto e sessualmente ambiguo. Le produzioni americane sono state massacrate per molto meno, l’ultimo James Bond è stato censurato perché 007 a un certo punto uccide una guardia di sicurezza di nazionalità cinese. Ma “House of Cards” è andato in onda senza tagli, è diventato un successo visto da decine di milioni di persone e l’agenzia di stampa ufficiale Xinhua ha perfino scritto che “un gran numero di alti ufficiali del governo, delle imprese e molti opinion leader consigliano fortemente” lo show. Sui social network cinesi, dove tutti si sono stupiti che una serie così compromettente andasse in onda senza tagli, c’è stato chi era pronto a giurare che a salvare “House of Cards” fosse stato lo zar anticorruzione Wang, il suo fan numero uno.

 

 

Gli uomini forti dentro ai regimi autoritari di solito preferiscono i film d’azione. Il dittatore panamense Noriega, ha raccontato Kurt Campbell sul Financial Times, aveva un’intera collezione di film violenti americani. Lo stesso presidente cinese Xi Jinping ha ammesso una volta che il suo film preferito è “Scarface”, con Al Pacino, e che non disdegna “Mission impossible” con Tom Cruise. Ma Wang Qishan ha buone ragioni per amare le trame politiche di Francis Underwood. Da quando Xi Jinping lo ha nominato segretario della commissione centrale per l’Ispezione della disciplina, poco più di due anni fa, e ha fatto di lui il comandante in capo della guerra contro la corruzione dentro al Partito, che è anche la più grande purga interna dai tempi di Mao Zedong, Wang è invischiato nel più complicato e pericoloso gioco politico che la Cina abbia visto da anni – un gioco che ha fatto di lui il secondo uomo più potente del paese, secondo solo al presidente.

 

Wang ha ottenuto il suo scalpo più importante venerdì, otto minuti dopo la mezzanotte ora di Pechino, quando le agenzie hanno annunciato l’espulsione dal Partito e l’incriminazione ufficiale di Zhou Yongkang, l’ex capo dei servizi di sicurezza interni e fino a due anni fa uno degli uomini più potenti del paese. Zhou è stato accusato di corruzione e abuso di potere, di aver fatto trapelare segreti di stato e “adulterio con molte donne”. Il processo inizierà a breve, probabilmente a porte chiuse, e come ha scritto il Wall Street Journal il 99 per cento dei processi per corruzione contro i funzionari del Partito finisce con una condanna, anche con la pena di morte nei casi gravi. Zhou, membro del Comitato permanente, l’organo ristrettissimo del Partito comunista che in Cina è il vertice del potere, è il funzionario più alto in grado a essere messo sotto indagine dai tempi delle purghe maoiste. Le indagini contro di lui da parte della commissione per la Disciplina sono iniziate circa due anni fa, quando Zhou è sparito dalla circolazione ed è stato privato di ogni potere. Da allora le voci e le fughe di notizie su di lui si sono moltiplicate, mentre i suoi alleati in tutti i ranghi dello stato iniziavano a cadere sotto la scure delle indagini. L’annuncio di indagini ufficiali, venerdì, è una prova di forza enorme per Xi Jinping, che è riuscito a epurare un membro potentissimo della vecchia leadership senza provocare crisi dentro al Partito comunista. E’ anche il successo più grande di Wang Qishan, l’uomo implacabile che Xi ha scelto per guidare la sua guerra interna.

 

Wang Qishan ha 66 anni, gli occhi che strabuzzano spesso dietro agli occhiali da lettura e le guance che si afflosciano sotto gli zigomi pronunciati, come se i suoi muscoli facciali si fossero allentati con il tempo. Ha un riporto che da sinistra a destra della testa gli copre la chierica, e l’internet cinese si diverte tutte le volte che gli si scompiglia. La mascella superiore è più pronunciata di quella inferiore, e quando sorride scopre i denti di sopra. Wang è uno che sorride spesso. In questo, è diverso dai suoi colleghi dentro al Partito comunista. La nomenclatura cinese è famosa per sembrare tutta tagliata dallo stesso vestito, è stata addestrata per dare l’immagine di un’uniformità monolitica. In tutta l’internet non esistono foto del presidente Xi Jinping con un’espressione diversa dal sorriso di circostanza per le occasioni mondane o dall’espressione assorta per quelle ufficiali. Ma a cercare foto di Wang lo si vede ridere, spalancare la bocca per la sorpresa, inarcare il sopracciglio con fare sarcastico, sogghignare imbarazzato. Il suo atteggiamento umano, spesso alla mano, tradisce il fatto che Wang Qishan non è nato dentro all’aristocrazia del Partito. Ma quando il potere, quello vero, è arrivato nelle sue mani, anche Wang ha recuperato la compostezza ufficiale. Nelle foto degli ultimi due anni non lo si vede sorridere quasi più.

 

Wang Qishan non è un predestinato al potere. E’ nato in una famiglia di intellettuali, non di politici, e dopo un periodo nella provincia dello Shaanxi come “giovane pioniere” della Rivoluzione culturale (anche Xi Jinping era nello Shaanxi nello stesso periodo) si laurea in Storia, il che oggi lo rende il primo storico di professione a far parte dell’altissima élite del Partito. Per un periodo lavora come guardiano in un museo, poi è insegnante di Storia moderna. L’occasione che gli cambia la vita arriva negli anni 70, quando Wang sposa a Pechino Yao Mingshan, figlia di un alto dirigente del Partito comunista, che gli apre le porte alla carriera politica.

 

Tra gli anni 80 e il 1997 Wang fa carriera nel settore bancario e della finanza di stato (nel frattempo suo suocero, Yao Yilin, era tra i dirigenti comunisti che spinsero per il massacro degli studenti di piazza Tiananmen nel 1989). A metà degli anni 90 diventa capo della China Construction Bank, e la trasforma nella prima vera banca di investimenti del paese grazie a un accordo con Morgan Stanley. Nel 1998 il governo lo chiama a gestire la più grande bancarotta della storia cinese, quella della Guangdong International Trust and Investment Corporation. Wang riesce a gestire l’operazione senza scossoni per l’economia, e a Pechino inizia a guadagnarsi la fama di problem solver. I media gli danno il soprannome di “capo dei pompieri”, per la sua capacità di risolvere anche le crisi più intricate.

 

Nella storia della Cina comunista, saper governare ha per lungo tempo voluto dire saper gestire le crisi: mantenere l’equilibrio, sopire i tumulti, evitare le catastrofi e i pericoli per la stabilità politica. Saper gestire le crisi è un dono inestimabile per un funzionario cinese, e in questo Wang è il migliore della sua generazione. Dopo il caso della Guangdong Corporation, il Partito comunista inizia a usare Wang come il “signor Wolf” del film di Quentin Tarantino “Pulp Fiction”. Se c’è un problema da risolvere Pechino chiama Wang, e Wang lo risolve. Succede nel 2003, quando l’epidemia della Sars scoppia a Pechino e rischia di trasformarsi in una catastrofe mondiale. Wang arriva (è nominato per l’occasione sindaco della città), prende misure durissime (a un certo punto Pechino si trasforma in una città fantasma) e sconfigge il virus. Succede ancora nella gestione delle Olimpiadi del 2008, che se si sono svolte senza intoppi è in gran parte per merito di Wang, che prese in mano il comitato organizzatore. Nel 2007 Wang entra nel Politburo, nel 2008 è nominato vicepremier, e diventa la voce più autorevole dentro al governo per le questioni economiche. Nel periodo del massimo boom dell’economia cinese, mentre il pil cresce a doppia cifra, Wang diventa il negoziatore principale in tutte le trattative economiche e finanziarie tra Cina, America ed Europa.

 

 

Iniziano qui le fortune di Wang in occidente. Il nuovo vicepremier è spesso in America, instaura un rapporto molto stretto con l’allora segretario del Tesoro Timothy Geithner, il suo tocco umano e le sue capacità lo rendono amato. Ci sono foto di Wang nello Studio ovale mentre improvvisa tiri a basket con Obama, foto in cui indossa divertito l’elmetto dei vigili del fuoco di New York, lui che è chiamato “il capo dei pompieri” (ma sotto la giacca, un po’ tirata, gli si intravede il giubbotto antiproiettile). Si diffondono storie sulla sua abilità di trovare, anche nelle supersicure suite da vip di Washington, punti della stanza in cui si può fumare senza far scattare l’allarme antincendio. Wang è quello che in inglese si chiama chainsmoker, uno che accende una nuova sigaretta con quella che si sta per spegnere.

 

Un’altra ragione per cui “tutti amano Wang Qishan”, come scrisse la rivista Public Intelligence nel 2011, riempiendo una pagina di sue foto sorridenti, è che Wang è considerato un riformatore e un liberale, è un lettore di Tocqueville e il membro più occidentalizzato di tutta la leadership cinese. Fin dagli anni alla China Construction Bank, Wang ha sempre espresso posizioni favorevoli al liberalismo economico e al libero mercato. “La liberalizzazione dei commerci è il motore della crescita economica”, ha scritto in un op-ed pubblicato nel 2009 sul New York Times. “La Cina è fortemente impegnata nelle riforme e nell’apertura al mondo”. Le visioni liberali in economia avrebbero potuto danneggiare Wang agli occhi dell’ala più conservatrice del Partito, ma il vicepremier ha sempre messo in chiaro che il liberalismo non può essere esteso alla politica. Non c’è spazio per una democrazia multipartitica in Cina, ha sempre detto. Così nel 2012, quando per lui e gli altri leader della sua generazione arriva il momento di entrare nel sancta sanctorum del potere in Cina, Wang è in posizione privilegiata.

 

Il 15 novembre del 2012, nella Grande sala del popolo di Pechino, nessuno si stupisce di vedere apparire Wang tra i sette grandi leader che avrebbero dominato la Cina nei dieci anni a venire. Era il giorno della presentazione al mondo di Xi Jinping, il nuovo leader del Partito, e intorno a lui dei membri del nuovo Comitato permanente, l’organo ristrettissimo dotato di poteri illimitati e capace di decidere il destino dell’intero paese. Il processo di scelta della nuova generazione di leader cinesi (la quinta) era stato particolarmente laborioso, e solo tre uomini erano dati per certi tra i prescelti: Xi, da anni destinato a succedere a Hu Jintao, il premier Li Keqiang e Wang Qishan. Le quotazioni di Wang erano così elevate che a un certo punto si era detto che fosse in lotta con Li, un altro predestinato, per la carica di premier. Così ci fu molta delusione quando, nella cerimonia altamente coreografata di presentazione della nuova leadership, Wang fu nominato segretario della commissione per la Disciplina, un incarico burocratico che era visto come uno spreco dei suoi talenti. Per Cheng Li della Brookings institution, che scrisse in quei giorni, Wang era “senza dubbio il più competente policy maker negli affari politici ed economici nella leadership cinese”. Perché relegarlo a una commissione meno importante e toglierlo alla sua specialità, l’economia?

 

Prima dell’avvento di Xi Jinping, in Cina la commissione per la Disciplina era considerata l’organo più corrotto del paese, lo strumento che i nuovi leader usavano per lo spoil system, per epurare i residui della vecchia leadership e insediare i propri uomini nei posti chiave. Il segretario della commissione non godeva di particolare prestigio, e i suoi compiti non erano di grande responsabilità. Perché allora relegare un uomo apprezzato all’estero, il miglior problem solver di tutto il Partito a una scrivania? Mentre il nuovo Comitato permanente si presentava al mondo, gli analisti ancora non sapevano che Xi Jinping avrebbe chiesto al capo dei pompieri di appiccare incendi in tutto il paese.

 

La corruzione è uno dei chiodi fissi di Xi Jinping fin dall’inizio della sua carriera. Kerry Brown, professore dell’Università di Sydney che sulla nuova generazione di leader cinesi ha pubblicato un libro quest’anno, “The New Emperors”, ha scritto che la lotta alla corruzione è un tema costante negli scritti e nei discorsi di Xi fin dagli anni 80. Ma fino alla sua nomina a segretario del Partito e poi a presidente, Xi si era limitato a discorsi teorici, e nelle province che ha governato non ha mai lasciato l’impressione di aver condotto una lotta spietata alla corruzione. Anche nel gennaio del 2013, quando Xi ha tenuto il suo celebre discorso sulle “tigri” e le “mosche”, sui funzionari di alto e di basso rango che la leadership del Partito avrebbe abbattuto senza riguardo per il potere, la posizione e i clan di appartenenza, era difficile immaginare qualcosa di diverso dalla routine con cui i nuovi leader si sbarazzano dei vecchi. Poi sono arrivati gli arresti.

 

La commissione centrale per l’Ispezione della disciplina è uno dei tanti organi oscuri e segreti dentro al Partito Comunista. Il suo compito è quello di indagare sulla corruzione e le infrazioni disciplinari dei membri del Partito, ma almeno a livello ufficiale la commissione non può assumere compiti di polizia. In realtà la commissione ha il potere di fare delle detenzioni extralegali, che possono durare mesi, o anni, durante i quali sono raccolte prove ed è istruito un processo. Infine l’indagato, che fino a quel momento non ha ricevuto accuse ufficiali ed è semplicemente “sparito dalla circolazione”, è espulso dal Partito e consegnato alla giustizia civile, insieme alle prove e alle raccomandazioni della commissione, che nella maggior parte dei casi ha già deciso il risultato del processo prima del suo inizio.

 

Zhou Yongkang, l’ex capo dei servizi di sicurezza interni, è la più forte delle “tigri” catturate da Xi e Wang, ma non l’unica. La commissione per la Disciplina ha colpito anche nell’esercito, dove centinaia di ufficiali sono stati inquisiti, tra cui il generale Xu Caihou, uno dei vertici militari del paese. Ha colpito le grandi aziende di stato, soprattutto la China National Petroleum Corporation, di cui è stato arrestato l’ex presidente Jiang Jiemin. Ha colpito la televisione di stato, ha colpito migliaia di ufficiali e membri del Partito in tutte le province, perfino nella città di Shanghai, da molti definita come il feudo dell’ex presidente Jiang Zemin, uno degli sponsor occulti di molti dei colleghi di Wang dentro al Comitato permanente. Secondo Jiang Ming’an, professore di Legge all’Università di Pechino sentito dal Wall Street Journal, solo nel 2013 sono stati messi sotto inchiesta 182 mila membri del Partito. L’anno precedente erano non più di 20 mila, e questo mostra l’ampiezza dell’operazione messa in piedi da Wang, e la misura in cui la guerra alla corruzione è al centro del programma di rinnovamento della nuova leadership. Xi Jinping è a tal punto convinto della necessità della guerra alla corruzione che non si preoccupa anche se questa sta danneggiando l’economia. In due anni il mercato dei beni di lusso in Cina è crollato, i ristoranti di alta cucina di Pechino hanno perso molti dei loro clienti abituali, perfino il sempre fiorente mercato immobiliare sta risentendo della nuova politica di austerità per i funzionari comunisti.

 

A leggere i numeri della guerra alla corruzione, si capisce perché il presidente ha voluto Wang a capo della commissione per la Disciplina. In Cina la rete del potere è delicata, è un intrico spesso incomprensibile di legami famigliari, clientelari, politici, a volte feudali. Ogni membro del Partito tenta la scalata al potere puntellandosi alla sua rete, ai suoi legami, alla sua famiglia. La nuova generazione della leadership del Partito, da Xi al premier Li Keqiang, è detta dei “princelings”, dei figli dell’aristocrazia maoista, proprio perché uno dei legami più forti della loro rete è quello della famiglia. Essere figlio di un alto funzionario, aver servito come governatore in una provincia, aver militato nell’esercito, aver avuto un ruolo nelle grandi aziende di stato, aver studiato all’Università Tsinghua: tutto crea legami che possono essere usati per raggiungere il potere. Ma la guerra alla corruzione, con le sue centinaia di migliaia di arresti e indagini, sta spezzando questi legami come non avveniva dai tempi di Mao, sta squassando la rete delicata e fragile del potere. Per Xi Jinping, che è sì il leader più forte da decenni ma è membro di una società dove il potere è condiviso tra enti spesso invisibili a occhio nudo, questo è un grosso rischio, ed è comprensibile che il presidente abbia voluto l’uomo più preparato in circolazione.

 

[**Video_box_2**]Wang, poi, ha una qualità che pochi altri dentro al Partito possono vantare. Nel 2012, alla sua nomina a capo della commissione per la Disciplina, la battuta più comune fu: almeno non ha figli, come a dire che almeno sarebbe stato immune dal nepotismo (Wang e sua moglie hanno una figlia adottata). Era una battuta, ma non lontana dalla realtà. Molti analisti, tra cui Kerry Brown, hanno notato che la rete dei legami di Wang Qishan, se messa a confronto con quella dei suoi parigrado, è particolarmente lasca. Wang non è un princeling, i suoi legami famigliari sono stati acquisiti grazie al matrimonio con la moglie, e l’inizio tardo della sua carriera politica, quasi a trent’anni, insieme al vorticare degli incarichi ottenuti come “problem solver”, hanno fatto sì che non sia riuscito a crearsi un feudo in una provincia, o un seguito di fedeli nei ranghi dello stato. I suoi contatti sono innumerevoli, ma sparsi e a volte deboli, e questo fa sì che Wang non abbia padrini, non abbia debiti da saldare, non possa essere considerato il seguace di una corrente, o di una gang in particolare. Il percorso atipico di Wang, iniziato come storico e guardiano di museo, fa di lui l’uomo perfetto per distruggere la rete del potere della leadership cinese, una rete dalla quale lui è stato per molto tempo ai margini.

 

A due anni dall’inizio della guerra alla corruzione (il primo arresto è avvenuto il 2 dicembre del 2012), gli analisti ancora non riescono a dire se siamo davanti alla più grande purga della storia cinese recente o a un vero tentativo di pulizia e modernizzazione. Certo è il più grande spostamento di potere nell’ultima generazione, e Wang Qishan, battitore libero dentro al Partito, ne è l’artefice solitario. Per combattere la corruzione, ha detto una volta, bisogna anche essere in grado di “sopportare la solitudine”.

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  • Eugenio Cau
  • E’ nato a Bologna, si è laureato in Storia, fa parte della redazione del Foglio a Milano. Ha vissuto un periodo in Messico, dove ha deciso di fare il giornalista. E’ un ottimista tecnologico. Per il Foglio cura Silicio, una newsletter settimanale a tema tech, e il Foglio Innovazione, un inserto mensile in cui si parla di tecnologia e progresso. Ha una passione per la Cina e vorrebbe imparare il mandarino.