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La vera storia della grande bufala

Giuliano Ferrara

La storia della mafia a Roma è in realtà una storia di carità callejera, per dirla alla Papa Francesco, o, se volete, di turbo-assistenzialismo. La calle è la calle, la strada è la strada, e se vai al mulino spesso capita che t’infarini.

La storia della mafia a Roma è in realtà una storia di carità callejera, per dirla alla Papa Francesco, o, se volete, di turbo-assistenzialismo. La calle è la calle, la strada è la strada, e se vai al mulino spesso capita che t’infarini. Una cooperativa rossa fondata ai tempi di Rutelli da un ex omicida di prostituta in espiazione, l’interessante Salvatore Buzzi, allo scopo di redimere e salvare ex detenuti, vite fragili e violente sfuggite al loro destino, disabili, dis-integrati del mondo dei rom, cresce su sé stessa come soggetto economico e sociale assistenziale, dalla raccolta delle foglie all’ampliamento di un campo rom su quindici che ce ne sono nella capitale, più spiccioli come l’attacchinaggio comunale. La coop 29 giugno cresce, dicevamo, passando da Rutelli, poca roba, alla sindacatura Veltroni, già meglio in quel clima da missione in Africa e da festa del Cinema, e si perfeziona fino alla non magica cifra di qualche decina di milioni (dicono) di fatturato (il bilancio della spesa pubblica romana, purtroppo, è di cinque miliardi e mezzo) con altri appalti sotto Alemanno. Alemanno è sindaco della destra eletto a sorpresa nel 2008, privo di una classe dirigente, di un establishment accreditato, inseguito com’è ovvio dal suo passato di destra turbo-sociale e di missino e post-missino in una città come Roma che ha sempre avuto tinte nerastre e contaminazioni con i corpi dello stato inclini a tradire un po’ lo stato, di contorno la violenza dei picchiatori, l’isterismo degli ultras dello stadio e peggio (ora è il turno della destra inventiva perbene e manesca di Casa Pound, che dovrebbe essere se Dio vuole di altra pasta).

 

A questo punto, ma forse già da prima, entra in scena Massimo Carminati, che da come lo arrestano sembra Al Capone, dai quadri di Warhol e Pollock che colleziona sembra Marella Agnelli, e sembra sopra tutto uno stravagante e interessante personaggio criminale dalle chiacchiere di bar o di pompa di benzina (il suo luogo di lavoro) in cui racconta che quelli della banda della Magliana erano dei cialtroncelli spacciatori di droga, attività a lui estranea. Carminati è dotato di una specie di nerboruto bagnino a torso nudo detto “spezzapollici”, perché per non farsi mancare niente, oltre a insignorirsi della mafia de Roma, nelle more tratta il solito vecchio prestito a usura e taglieggia un po’ di commercianti e ristoratori. Com’è come non è, in questa Corleone dei cravattari Carminati e Buzzi si reincontrano sulla strada dostoevskiana del delitto, del castigo, dell’espiazione e ancora del delitto. In tutto il mondo quando parli di cooperazione allo sviluppo, di industria della carità callejera, di assistenza ai deboli, ecco che nasce il sospetto dell’abuso. Il perché dovrebbe essere chiaro, in particolare ai critici della società aperta di mercato. Negli scandali veri e potenti, come le Banche Carige, come le costruzioni e la sanità e gli appalti miliardari per le infrastrutture, dal Mose all’Expo, si erigono sistemi politico-illegali con tanti, tanti soldi appresso, ma è una mistura di capitalismo e politica, non sono bande, sono salotti finanziari e colletti molto bianchi: nel turbo-assitenzialismo è diverso, ci sono solo i soldi dello stato e degli enti locali, e solo quelli, ed è lì che bisogna andare a beccare.

 

A questo punto entrano in scena una dozzina o due dozzine di uomini e donne, amministratori funzionari ed eletti di tutti i partiti, la cui carne è particolarmente debole (e se la chaire est triste, hélas, come in Malarmé, non è detto che abbiano poi letto tutti i libri). Prendono stecche, fanno favori, assumono qualcuno a richiesta, s’imbrodano malamente. Vabbe’, il boy scout dice che tutto questo fa schifo, il comico vuole sciogliere il Comune di Roma, il Cav. torna moralista per caso e per convenienza, ‘o scrittore Bob Saviano tenta penosamente di diffamare un ministro che da capo delle cooperative nel 2010 partecipava alle cene sociali delle cooperative (sai che scandalo, per non parlare del collega di scrivania di ‘o scrittore, quel romanziere De Cataldo che scrive su Repubblica e sulla rivista di Buzzi). Un ordinario caso di associazione per delinquere a scopi corruttivi, tre colonne in cronaca, o anche un riquadretto in prima se vogliamo, in giorni di bassa notiziola (no news again today). Oltre tutto in questo giro assurdo o surreale pullulano calciatori, gente dello spettacolo, starlet e toyboy che chiedono favoretti perché hanno avuto un furto in casa, hanno bisogno degli anabolizzanti per figurare in palestra, e altra robina di contorno e di colore. E a queste cifre e cifrette da mantenuti e mantenute del Campidoglio, che fanno repulsione, si associano, così, tanto per diffamare ancora Roma e la politica, tanto per offrire il destro a ulteriori declassamenti di questo paese straziato da sé stesso, i finanziamenti legalissimi, il fundraising, ai comitati elettorali di Emma Bonino o di Gianni Alemanno o alla campagna piddina di raccolta fondi di Matteo Renzi, tutto sullo stesso piano: mazzetta o bonifico con tanto di iban, fa lo stesso, palate di merda e la stampa, bellezza, è contenta.

 

Ora veniamo al nocciolo. Il ruolo della magistratura inquirente. Se il giornalismo è organo civico di servizio alle procure della Repubblica, qualunque cosa facciano, allora è giusto che lettori e spettatori creduloni si becchino la favola, buona per la diffamazione savianea o a cinque stelle, del sistema criminale mafioso, cupola o cupolone, che mette Roma a sacco (sacchetti sono, e di plastica ecologica), e delle complicità politiche diffuse che sputtanano tutti a favore di telecamera e di resocontisti della casta. Ma se il giornalismo serve a individuare le verità in ombra, e a razionalizzare le fregnacce idolatriche delle propagande incrociate e dei poteri in conflitto, compreso quello togato, allora sentite a ‘mmia.

 

I tre pm dell’inchiesta, che propongono al Gip, il quale conferma, gli arresti e le incriminazioni, sono valenti professionisti che non desidero diffamare o insultare. Però sono un napoletano che è stato agitatore e militante del diritto per così dire d’assalto, un fervente sindacalista in conflitto con la politica in questi anni (dottore Giuseppe Cascini); una toga fattasi nel profondo della Sicilia, che si è segnalata per avere sostenuto, contro l’avverso parere di qualche persona equilibrata, che la strategia stragista mafiosa aveva registi occulti, e che tra questi c’era Berlusconi o gente del giro di Berlusconi, e lo ha sostenuto in inchieste andate a male e in libri o pamphlet di maggior successo (il dottore Luca Tescaroli); infine il dottore Paolo Ielo, il goodfella o bravo ragazzo (senza ironia) che lavorava per Francesco Greco nel pool di Mani Pulite, al fianco di Di Pietro, e con metodiche simili poi sbocciate in una lunga campagna politica insabbiatasi come tutti sanno in un esito reputazionale douteux, come leader di Valori non proprio specchiatissimi, probabilmente un pm che trova più interessante scovare la mafia a Roma, ci sia o non ci sia, piuttosto che disbrigare le pratiche degli scippi dopo tanti anni di penombra. Inoltre da quel che si legge la prova regina è sempre la stessa: la linguistica delle intercettazioni, l’impasto di millanteria, caciara romanesca, rivelazioni da incubo telefonico, nomignoli, minacce altisonanti e altre fregnacce, più qualche appostamento e qualche spicchietto di segretaria pentita che metteva i soldi nelle bustarelle (c’è sempre una segretaria per imbustare, è il suo mestiere). Al carattere eminentemente mafioso del dossier mancano alcuni elementi: le famiglie, l’affiliazione, l’omertà e i veri denari in ballo, per non parlare dell’omicidio. Infatti il 416-bis, l’imputazione di mafia che consente ai pm l’inchiesta via grande rete telefonica intercettativa e la radicalità della eco di stampa, si risolve nelle parole del Gip in una mafia “originale”, romanesca, non affiliata, che si riunisce al bar o alla pompa di benzina. Insomma, una cupola che è un cupolone, una mafia che non è una mafia.

 

[**Video_box_2**]Ora direte che sono il solito garantista peloso, servo di Berlusconi, e getto pregiudizio in faccia a toghe tenute alla obbligatorietà dell’azione penale. Non è proprio così, vi assicuro. Il capo di questi tre pm si chiama Giuseppe Pignatone, ed è così universalmente stimato che fa paura criticarlo. Ma io mi costringo a non avere paura. Sì, il dottore Pignatone è stato l’anti-Ingroia, insieme con Pietro Grasso. Ingroia con lo stato trattativista e cianciminiano aveva il rapporto che Borrelli attribuì a Di Pietro nei confronti di Berlusconi: “Io a quello lo sfascio”. Pignatone e altri l’hanno messa più sull’istituzionale e, con i complimenti di noi persone normali, si sono dissociati da quella strategia sfascista. Ingroia com’era prevedibile ha portato l’Italia credulona delle agende rosse, dopo mille puntate diffamatorie con Massimo Ciancimino alla corte dei mejo Conduttori Unici delle Coscienze, all’impatto col suolo del suo partitino personale giustizialista, che ha raccolto pochi voti e si è dissolto nella poca importanza. Ora, come dice un mio sapido amico, canta nei matrimoni. Ma l’altra filiera è intrisa di politicità e ha fatto giustamente una bella carriera. Infatti il dottore Grasso finì presidente del Senato e corre per il Quirinale, e Pignatone è il capo del maggiore ufficio giudiziario italiano. E che ti fa, il dottore? Va a una conferenza politica del Pd romano e annuncia che tra poco si vedrà se a Roma c’è una mafia e chi la smantella. Boooooooom! Dopo tre, quattro giorni scattano arresti e incriminazioni. Ora, siccome i difetti delle cose stanno nel manico, e la verità sta sempre in superficie, vi pare una cosa seria? Vi pare un esercizio proprio dell’azione penale? Vi pare questo uno stato di diritto? Sono storie di mafia o storie de coltello?

 

Ecco il mio telegramma finale. Apprendesi a convegno di partito esistere mafia che mette a sacco Roma – stop – scatenasi retata di corleonesi usurai tutta da ridere – stop – la stampa plaude – stop – la televisione insegue – stop – Grillo strepita – stop – si fa politica con la giustizia – stop – e noi dovremmo crederci.

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.