Asserragliati nei loro quartieri, i coloni spingono le carrozzine dei bambini, con il mitra a tracolla e la pistola alla cintura (qui sono a Migron, colonia non autorizzata. Foto Ap)

Fra gli ebrei più odiati del mondo

Con il mitra e il talmud per non morire sulle strade di Israele

Giulio Meotti

Viaggio con i coloni a Hebron e Nablus, dove sbagliare strada può costarti la vita. Pionieri incompresi che reggono la sicurezza del paese. A guardia di colline dove le notti sono più lunghe, oscure e feroci.

La “trampeada”, nel Gush Etzion, è piena anche di notte di ragazzi israeliani che fanno l’autostop. Come se non fosse mai successo niente. Come se alle 22.30 del 12 giugno scorso, i loro amici Eyal, Naftali e Gilad non fossero mai saliti a bordo dell’auto-trappola di Hamas e non fossero mai stati uccisi dopo il sequestro e gettati in un campo, come cani. La prima cosa che ti colpisce, entrando nelle colonie israeliane di notte, è il livello di oscurità. Sale vertiginosamente a mano a mano che ti allontani da Gerusalemme. E’ bene non bucare né scendere sotto una certa velocità.

 

Per capire la “terra incognita” di Israele, gli insediamenti e i suoi abitanti, li abbiamo visitati non come giornalisti, ma come civili israeliani. Con i coloni che ci vivono. Tutto il mondo parla di loro. E da Obama all’Onu, tutti vogliono cacciarli dalle loro case.
Senza il Gush Etzion, su Gerusalemme gli attentati si moltiplicherebbero e i missili pioverebbero come da Gaza su Sderot. “Se esiste una Gerusalemme ebraica, lo dobbiamo ai difensori di Gush Etzion”, diceva il fondatore dello stato David Ben-Gurion. Furono gli abitanti del Gush a fermare l’avanzata della Legione Araba su Gerusalemme nel maggio del 1948. Furono tutti giustiziati dagli arabi dopo essersi arresi.

 

Visitiamo Carmei Tzur, l’ultimo avamposto del Gush, un insediamento dal paesaggio pastorale, brullo, premoderno, su una collina di pietre e sterpi in mezzo al deserto della Giudea. Ci vive gente colta e religiosa dagli abiti colorati, stile hippie, e amano la terra, i tramonti, i pascoli. L’insediamento nacque in una notte del 1985. Duecento israeliani arrivarono con gli scialli di preghiera, il generatore per la luce elettrica, i mattoni per costruire gli scalini che salgono sulle case mobili, messe ad angolo retto. Chiamarono la comunità col nome della famiglia Tzur, madre e figlio uccisi in un agguato.

 

Puntiamo su Hebron, la città dove gli ebrei sono tornati a vivere e a morire dopo la guerra dei Sei giorni, l’unica città araba con una presenza ebraica, dove c’è l’unica moschea al mondo in cui pregano gli ebrei. “Prima di andarci lasciami i soldi, perché non torni indietro”, mi aveva detto scherzando, ma non troppo, un’amica israeliana. Nessun abitante della costa va a Hebron. In pochi se la ricordano, per averci fatto il servizio militare. Sotto la grotta di Macpela a Hebron, dov’è seppellito “Nostro Padre Abramo”, giace un segreto della psiche umana e della storia ebraica. Qualcosa che riguarda la struttura stessa dell’amore e dell’odio. Secondo la tradizione, Abramo avrebbe acquistato dall’ittita Efron la grotta perché servisse da sepoltura a sé e ai suoi discendenti; lì furono sepolti, dopo lui e Sara, Isacco, Giacobbe e le loro mogli Rebecca e Lea.

 

Per arrivarci si attraversa l’insediamento di Kiryat Arba, con le sue case di mattoni bianchi, una fortezza ebraica assediata dall’odio che le cresce attorno. Cancelli presidiati, ingressi inaccessibili. Qui gli ebrei non parlano volentieri con i giornalisti (“vogliamo un curriculum dell’intervistatore, la posizione del giornale, le domande, il controllo sulla pubblicazione delle risposte”). In effetti i giornalisti qui non mettono proprio piede, e se lo fanno è con pulmini dai vetri antiproiettili. Grandi isolati di pietra a quattro e cinque piani, con qualche fascia arancione fra un piano e l’altro, in mezzo ad aiuole e giardinetti curati con buona volontà. E’ come un ghetto europeo di lusso, isolato dalla circostante popolazione araba, e la sensazione è accresciuta dalla rete metallica che cinge l’insediamento e dal grande cancello di ferro che dà accesso al villaggio, cancello che si chiude la sera e accanto al quale vigila, in una grande garitta, un corpo di guardia composto da soldati e coloni in armi. Il rabbino capo, Dov Lior, non è in città. Alla tenera età di ottant’anni, si sta trasferendo a Gerusalemme est, in mezzo agli arabi, perché è lì che può ispirare altri insediamenti. Andrà a vivere a Beit Orot, una comunità ebraica sul Monte degli Ulivi, dove vive anche il dirigente palestinese Faisal Husseini. Beit Orot in ebraico significa “Casa delle luci”.

 

A Kiryat Arba troviamo invece il vecchio e coltissimo Elyakim Haetzni, editorialista di Yedioth Ahronoth, intellettuale, deputato, avvocato, venuto al mondo con il cognome di Bombach a Kiel, in Germania, ma di casa a Hebron dal 1968. Ha orecchi a sventola e grandi occhiali con la montatura in acciaio. Parla un inglese dallo spiccato accento tedesco, memore della sua fuga dalla Germania dopo la Notte dei Cristalli. “Israele rischia di essere la Cecoslovacchia nel 1938”, spiega Haetzni al Foglio. “Ma non penso che faremo la fine dei Sudeti con Hitler. Come il primo ministro cecoslovacco Edvard Benes che, per sottostare alle pressioni di Chamberlain, fu divorato da Hitler”. Alto e dinoccolato, Haetzni si rifà sempre al passato per spiegare cosa ha spinto un ragazzino nato e cresciuto in Germania a vivere in mezzo agli arabi. “E’ stata l’ombra del pogrom del 1929 che pesa su tutta Hebron”, ci racconta. “Fu un pogrom tipicamente europeo. C’è una poesia di Bialik sul pogrom di Kishinev. A Hebron avvenne come durante l’Olocausto, con gli ebrei senza difesa macellati”.

 

Il 23 agosto 1929 il massacro a Hebron cominciò con due talmudisti sgozzati. Non erano sionisti, erano soltanto in cerca di Dio. Il giorno dopo fu la volta di una cinquantina di ebrei rifugiatisi nella banca anglo-palestinese. Erano tutti in una stanza. Gli arabi non ci misero molto a scovarli. Tagliarono piedi, tagliarono dita e teste, bruciarono teste sopra un fornello e strapparono occhi. Un rabbino raccomandava i suoi ebrei a Dio e venne scannato. Sei studenti furono fatti sedere a turno sulle ginocchia della signora Sokolov e, lei viva, furono sgozzati. I capi arabi giustificarono così il pogrom: “Non si ammazza chi si vuole ma chi si trova. Passeranno tutti a fil di spada, giovani e vecchi”.

 

 

Gli ebrei di Hebron mi mostrano una lista con i nomi delle famiglie che parteciparono al massacro, e quelle che si rifiutarono. Gli eredi vivono ancora lì. A Hebron non si dimentica niente. “Il trauma di quell’eccidio fu così grande che il nome di Hebron ha terrorizzato la popolazione israeliana per decenni”, ci spiega Haetzni. “Conosco soldati che per andare al sud a Beersheba evitano Kiryat Arba, perché hanno paura. Hanno subìto il lavaggio del cervello, tutti i media israeliani sono nelle mani della sinistra che li incita contro di noi. Nella mia opinione lo stato ebraico invece è questo: cacciare la paura, distruggere il timore negli ebrei. Per questo venni a vivere qua. Anche per vincere la sindrome della ‘galut’, la sindrome della Diaspora. Quando l’esercito israeliano liberò la città, mi dissi: ‘Se non torniamo a Hebron, sarà una sconfitta per tutto Israele’. Non ci sarebbe stato il nuovo ebreo che difende se stesso. Inoltre, conoscevo la storia. C’è stata una comunità ebraica a Hebron per millenni. Fino a quando nel 1929 gli inglesi ci portarono via per proteggerci. Hebron è la capitale della Giudea, prima di Gerusalemme. E la Giudea fu obliterata dall’imperatore romano Adriano. Voleva porre fine alla Giudea, il nome stesso lo faceva infuriare. Così inventarono il nome ‘Palestina’. In altre parole, tornando a vivere qui ridiamo vita alla Giudea ebraica. La mia generazione doveva chiudere il cerchio, sanare questa rottura storica, e se non fa questo lo stato di Israele, cos’altro è? Davide era il re della Giudea, non di Tel Aviv”.

 

Un giorno i soldati israeliani verranno a prenderla per portarla via, signor Haetzni? “Non credo. Il tasso demografico ebraico nei Territori è altissimo. Facciamo più figli degli arabi. Oggi gli ebrei sono un terzo della popolazione nella West Bank, è impossibile evacuare 600 mila persone. Siamo qui per sempre. E poi in ogni caso sarebbe la guerra civile. E la fine dello stato ebraico”.
E’ spettrale la strada che di notte porta nella zona ebraica di Hebron. Si attraversa il “sentiero dei fedeli”, dove nel 2002 i cecchini palestinesi fecero fuori, in un tiro al piccione, dodici pellegrini ebrei e ufficiali dell’esercito. Incontriamo Moshe e Tehila. Vivono con i loro nove figli a Tel Rumeida, la collina più alta di Hebron, affacciata su due quartieri palestinesi, Abu Sneineh e Hart al Sheikh, che dominano la città e da cui spesso si spara. Di fronte alla casa di Tehila, al fianco di un parco archeologico finanziato dal governo, c’è una famiglia di arabi. Ci sono spesso scontri. Chiediamo loro se non hanno paura. “No, sono loro ad aver paura di noi”, dice Moshe. La loro casa è un container per terremotati. Tripli letti a castello ancora da rifare, stoviglie accatastate in una cucina a dir poco spartana, un calorifero per quando nevica, una parete di libri religiosi, commentari della Torah e del Talmud. Ma dicono che non manca niente.

 

Alla Cava dei Patriarchi arriviamo di notte. Da una garitta i soldati ci fermano e ci chiedono i documenti. Dentro alla moschea-sinagoga di Abramo, in un angolo, a mezzanotte, ci sono ancora studenti che discutono del Talmud. I fedeli maomettani ed ebrei pregano accanto ai cenotafi con i nomi dei patriarchi e cercano di sopraffarsi a vicenda con le loro voci. Santità, follia, idealismo, di questo vive Hebron. E’ qui che nel febbraio del 1994 il dottor Baruch Goldstein, dalle cui mani erano passati tutti i morti ebrei, sparò col mitra sui musulmani in preghiera nella grotta uccidendone trenta.

 

Attraversiamo il “vicolo della morte”, dove sono stati uccisi decine di israeliani fra civili e militari. Donne velate, neanche un cinematografo, uomini in galabia, qualche asino, vecchi che fumano il narghilè e giocano a tric-trac. E’ stato eretto un monumento agli ebrei uccisi dopo Oslo. Vi si legge: “Terra, non essere quieta, non essere silenziosa e non essere più muta. Terra, non coprire il sangue dei tuoi figli scorso come acqua sulla tua terra”.

 

I coloni, asserragliati nei loro quartieri, spingono, con il mitra a tracolla e la pistola alla cintura, le carrozzine dei bambini. La Hebron ebraica è un coacervo di bambini coi riccioli laterali e di donne incinte, giovani, alternative, con il fazzoletto in testa, pudiche e determinate. Nel 1997, l’allora premier israeliano Netanyahu, falco della destra, divise la città: il settore H1, l’80 per cento della città, passava all’Autorità palestinese; il settore H2 restava agli israeliani. Oggi gli ebrei possono vivere soltanto nel tre per cento della città.

 

Ma per arrivare a quel tre per cento, con la macchina dobbiamo attraversare la zona palestinese, e si spera che non succeda niente. Guai a sbagliare strada. Qui la memoria dell’ingegnere Yahya Ayyash, il terrorista che ha ucciso cento ebrei con le bombe umane sugli autobus, è osannata. Visitiamo la casa dove viveva il rabbino Shlomo Ra’anan, nipote del primo rabbino capo d’Israele, Yitzhak Kook. Shlomo venne ucciso di sera, nel suo letto, e i rabbini promisero che un centro di studi della Torah sarebbe sorto sul luogo dell’attentato. Oggi si chiama “la luce di Shlomo”. Al funerale di Ra’anan c’erano migliaia di persone, tra cui Netanyahu. Nel visitare la casa del rabbino, dove oggi i coloni ricevono anche noi, Netanyahu disse che “le pareti sono così sottili che potresti bucarle con un dito”. Davanti alle case ci sono gli scavi archeologici che stanno facendo riemergere la Hebron vecchia di quattromila anni. Gli scavi furono iniziati non dai coloni, che oggi li gestiscono, ma nel 1960 da Philip Hammond di Princeton. Incontriamo la figlia del rabbino, Tzipi Schlissel. Come tutte le donne ortodosse, Tzipi non dà la mano agli uomini. Ha undici figli. Undici. “Siamo tornati a vivere qui a Tel Rumeida perché è qui che vivono da secoli gli ebrei di Hebron, non giù nel ghetto”, ci spiega Tzipi. “Io non posso entrare nel quartiere arabo, mentre gli arabi possono venire qui da noi se passano un checkpoint. Ecco l’ironia dell’‘occupazione’. E l’esercito ha dovuto mettere un muro di cemento a protezione delle nostre case. L’esercito ci protegge, ma ci tratta come prigionieri nella nostra città. Prima degli accordi del 1997, noi ebrei potevamo andare ovunque nella città ed era molto più sicuro. Noi ebrei di Hebron vogliamo vivere in una città, non in un ghetto. Non chiediamo permessi per vivere nella nostra città. Un secolo fa, c’era la stessa percentuale di arabi ed ebrei a Hebron. Poi c’è stato un pogrom e tutti gli ebrei sono stati cacciati o uccisi. Oggi vogliamo tornare a come era un secolo fa”.

 

L’esercito israeliano ha “sterilizzato” una zona intera di Hebron, per consentire agli ebrei che vivono lì di non morire sotto i colpi di asce, molotov e fucilate. Ogni giorno se ne trovano ai checkpoint in città. Percorrendola di notte, a Hebron capita di vedere ragazzi israeliani che corrono nel buio per fare jogging. All’uscita da Kiryat Arba, a una fermata dell’autobus, incontriamo un gruppo di ragazzini israeliani che fanno l’autostop. Diamo un passaggio a due ragazze religiose di Kiryat Arba. Salgono in auto con naturalezza, come se non ci fosse nulla di pericoloso in quello che fanno. Non parlano. Sfogliano un libriccino di preghiere. Devono arrivare a Gerusalemme.

 

Se le colonie che arrivano a Hebron sono in una conca che scende verso il deserto caldo e umido di Giudea, quelle del nord della Samaria sono alte e maestose, dominano vallate, strade, snodi strategici, freddi e piovosi. Da Tel Aviv, dirigendosi verso la Samaria, si ha subito l’impressione che quelle alture siano fondamentali per la sicurezza di Israele. Pochi chilometri dentro la Cisgiordania e già vedi tutto lo skyline della capitale economica di Israele.

 

Immensa e un po’ pacchiana è la casa di Moshe Zar, uno dei capostipiti delle colonie, che ha perso un occhio combattendo al fianco di Ariel Sharon. La sua villa in stile ebraico-nordafricano domina una collina sulla strada per Kedumim. Statue di leoni accolgono il visitatore. Zar non ricopre incarichi ufficiali, ma è una sorta di guru qui.

 

E’ a Kedumim che nacque tutto, con una roulotte appoggiata sul fianco di una collina, nel 1976. Entrando nell’insediamento, una targa ricorda “la prima casa”. Da allora, l’insediamento è arrivato a contare quattromila abitanti. Ci accolgono a casa Meir e Shoshana Shilo, nati e cresciuti in un kibbutz sulla costa, fra i primi coloni di Samaria. La loro finestra dà su un villaggio palestinese. La particolarità di Kedumim è che non ha barriere antiterrorismo. “Perché siamo contrari”, ci spiega Shoshana, portavoce della colonia. “Se stiamo dietro a un muro sembriamo codardi e deboli e ci attaccano”. Chiedo loro perché l’esercito e i coloni scelsero quella collina. “E’ uno snodo decisivo che collega Nablus e l’area di Tel Aviv. Da quando siamo qui, abbiamo fermato molti terroristi diretti a Netanya e Petah Tikva. Stando qui, proteggiamo Tel Aviv. Se non ci fossimo noi, ci sarebbero gli arabi. Siamo la cintura di sicurezza di Israele”.

 

Durante la guerra del Libano del 2006, in tanti da Haifa e dal nord trovarono riparo a Kedumim e in altre colonie, mentre nelle loro città piovevano i missili di Hezbollah. “Ogni morto, ogni guerra, ogni disastro apre gli occhi a Israele”, ci dice Shoshana. “Dicemmo a Yitzhak Rabin di non dare fucili ai palestinesi, che li avrebbero usati per spararci. Dicemmo a Ariel Sharon di non portare via gli ebrei da Gaza, che Hamas avrebbe lanciato missili su Tel Aviv. I palestinesi sono pazienti, aspettano e lavorano per prendersi tutto. Noi abbiamo fretta”.

 

Shoshana ci mostra una fotografia che tiene in cucina. “L’ho messa qui perché i miei figli la possano sempre vedere. Si vedono i miei genitori, appena arrivati dall’Europa, mentre combattevano nel Palmach a Gaza. Ai nostri figli ricordo che senza i fucili noi ebrei siamo finiti”.

 

Lasciamo Kedumim alla volta di Havat Gilad. E’ il più famoso degli avamposti dove vivono i “Noar-Gvaot”, i giovani delle colline. Giovani uomini barbuti hanno la camicia bianca e il libro di preghiere in mano, intenti ad approntarsi un giaciglio qualunque in quelle roulotte poste su una terra contesa da oltre quarant’anni. In questi avamposti vivono molti ufficiali dell’esercito e dei servizi segreti con moglie e figli. A Havat Gilad non ci sono le villette a schiera con i tetti rossi, ma caravan da terremotati. Siamo a pochi chilometri da Nablus e ci vivono quarantatré famiglie.

 

Ci accoglie in casa Itai Zar. Quarant’anni, una miriade di figli, Itai ci racconta la sua storia. Durante la Seconda Intifada, i terroristi palestinesi uccisero il fratello, Gilad, una leggenda qui perché a capo della sicurezza dei coloni. Itai fece una conferenza stampa e disse: “Non voglio morire impallinato come un capretto, voglio morire combattendo”. “Questo era un posto molto insicuro prima che arrivassimo noi”, ci dice Itai. “Le nostre colline sono al centro della via fra la Giordania e la costa israeliana. Da qui, vedi, scorgi le Azrieli Towers di Tel Aviv. Ogni terrorista passava di qui. Prima che arrivassimo noi, i terroristi sparavano alle auto da quella collina. Ci sono stati massacri qui sotto”. Lì vicino terroristi di Hamas attaccarono con armi automatiche e bombe a mano l’autobus della linea 189 che proveniva da Tel Aviv. La famiglia Tzarfati venne decimata. In queste colline le pietre volano, assieme alle bombe molotov e ai colpi di fucile. Sono ebrei che non vogliono convincere e non saranno convinti.

 

Ma Itai Zar spiega che le colonie non hanno soltanto uno scopo di sicurezza. “C’è il sionismo. Questa è la terra d’Israele, dal Giordano al Mediterraneo, abbiamo il diritto di vivere qui. Quando mio fratello venne ucciso, tutti, ministri e persone famose vennero a casa nostra. Ufficiali dell’esercito presero una mappa e ci diedero il permesso di costruire. Mio padre disse a Sharon: ‘Io non voglio vendette, voglio costruire’. Dopo la shiva, i sette giorni di lutto, iniziammo a venire qui. Sharon ci diede il permesso”. C’è un famoso video dopo la morte di Gilad Zar in cui Sharon fa visita alla sua famiglia e la madre del colono ucciso si rivolge così all’allora primo ministro, urlando: “Dimmi Arik, dov’eri in questi otto mesi? Fai il tuo lavoro. Non seppelliremo altri morti. Non ti abbiamo eletto in tempi di pace. Ma perché sai fare la guerra”. “Adesso vogliamo fare di Havat Gilad una grande comunità”, ci dice Itai salutandoci, mentre indica le montagne. Oltre c’è la Giordania, poi l’Iraq, infine l’Iran.

 

[**Video_box_2**]Come Itai Zar, anche Yosef Dayan di Psagot dice che gli insediamenti hanno sì una funzione di difesa, ma soprattutto ideologica. Psagot è una colonia affacciata su Ramallah, dove gli abitanti hanno calcolato che 120 mila proiettili sono stati sparati contro di loro in questi anni. Gli arabi di Ramallah sognano “di camminare un giorno sulla collina dove un tempo c’era Psagot”. Da Psagot vedi la Muqata dove era asserragliato Yasser Arafat. Chi vive lì lo fa sapendo di essere la zona cuscinetto di protezione settetrionale di Gerusalemme. Anche l’esercito la considera importante, tanto che durante l’Intifada due missili dell’Idf lanciati da Psagot hanno quasi ucciso Marwan Barghouti, il capo terrorista di Fatah. Dayan, uno dei leader dei coloni più oltranzisti, è arrivato in Israele dal Messico trent’anni fa e per vivere traduce dallo spagnolo all’ebraico opere letterarie, dai romanzi di Gabriel García Márquez e di Mario Vargas Llosa, ai trattati religiosi. Nel caso l’esercito si ritirasse da queste montagne che farebbe? “Rimarrei comunque”, ci dice. “Ma nessun politico israeliano offrirebbe questa ‘soluzione’ suicida. Inoltre nessun arabo accetterebbe la presenza di un singolo ebreo nello stato che non è mai esistito: lo ‘stato palestinese’. Il governo ha un’altra strategia: renderci la vita impossibile. Le compagnie commerciali stanno riducendo i servizi per Giudea e Samaria. Questo ha spinto molte famiglie a riconsiderare di vivere qua”. Dayan pensa che Israele abbia diritto a tutta la terra o a niente, non a queste enclave di colonie. “Se puoi costruire sei insediamenti, perché non seicento? La verità è che gli ebrei hanno diritto a tutta la terra di Israele. La mia casa è stata colpita dai cecchini. Eppure comprerei ancora e ancora la mia casa, che devo finire di pagare col mutuo. Io non rinuncerò mai all’accesso alla mia terra eterna”.

 

Dopo Havat Gilad, in direzione di Nablus, la strada è una roulette russa. Pochi i soldati israeliani in giro. L’intento è di raggiungere la colonia di Elon Moreh. Secondo la Bibbia, è il luogo in cui il Signore fece un patto con Abramo migliaia di anni fa. L’isolamento di Elon Moreh ha reso per forza di cose la comunità autosufficiente. Elon Moreh è famosa come scuola della safrut, la calligrafia ebraica. Per oltre mezzo secolo, fra il 1869 e il 1922, spedizioni archeologiche francesi e britanniche hanno esplorato invano la vetta alla ricerca dell’altare eretto tremila anni fa, subito dopo l’ingresso nella Terra Promessa delle dodici tribù ebraiche. Tutto è cambiato per questa comunità nel 1981, quando l’archeologo Adam Zartal ha scoperto l’altare di Giosuè sul monte Eival. Ma prima di Elon Moreh, facciamo tappa a due altre colonie di confine. Prima c’è Yitzhar. E’ altissima e incuneata fra villaggi arabi. La nebbia si mangia tutto. Giovani armati fino ai denti sono di guardia all’ingresso dell’insediamento. Da quassù si vede tutta la costa israeliana. Eppure non potremmo essere più distanti dalle amenità della vita sulla costa, l’high-tech, i ristoranti, gli alberghi. A Yitzhar vivono veterani americani, ex dissidenti sovietici, contadini yemeniti, lubavitch e peruviani convertiti all’ebraismo. E’ stato l’esercito, non i coloni, nel 1983 a scegliere di costruirci un insediamento agricolo Nahal. Se gli arabi attaccano i coloni, i coloni di Yitzhar rispondono. La colonia è l’unica della Cisgiordania circondata da sei villaggi palestinesi: Burin, Orif, Asira al Qibliya, Inabus, Madma e Hawara. Il cimitero di Yitzhar così è pieno di ebrei uccisi in attentati. Ci accoglie Ezri Tubi, il capo della sicurezza di Yitzhar. “E’ una colonia speciale. Non usiamo operai palestinesi per costruire, soltanto ebrei, non vogliamo dipendere da nessuno. Questa sinagoga è stata costruita da chi vive qui. Noi tutti qui serviamo nell’esercito, ma questo non ci ha impedito di criticare Tsahal quando non fa il suo lavoro. Yitzhar è strategica da un punto di vista ideologico. Siamo la bandiera dell’insediamento in Samaria”. Fuori c’è il rabbino capo David Dudkevich. La famiglia di sua moglie è quella di Enzo Sereni, l’italiano pioniere in Israele, fucilato a Dachau dai nazisti.

 

Lasciamo Yitzhar alla volta di Itamar, dove tre anni fa, di notte, due terroristi del villaggio vicino di Hawarta sgozzarono nel sonno i Fogel, padre, madre e tre figli, compreso uno di pochi mesi. Visitiamo la nuova grande sinagoga intitolata “agli eroi di Itamar”. Itamar è una specie di kibbutz privato, dedito all’agricoltura. Sorge vicino alla più grande base dell’esercito israeliano nei Territori. Barak Melet ci accoglie nel suo ranch. Ha un frantoio. “La mia è soltanto agricoltura organica, niente pesticidi, e anche a Tel Aviv la mangiano”. Anche se non ammetterebbero mai di mettere in tavola cibo delle colonie. La madre di Barak si è suicidata dopo che un altro figlio è morto nell’esercito.

 

Dopo tre gole strette che si affacciano su Nablus, che lambiamo a pochi metri, si arriva a Elon Moreh. Saliamo sul monte Kabir: a destra c’è Nablus, a sinistra la colonia. Visitiamo il punto dove durante la Seconda Intifada veniva Ariel Sharon per osservare le azioni dell’esercito israeliano dentro la casbah di Nablus. Poco lontano c’è la grotta dove hanno trovato Rami Haba, il primo bambino dei coloni ucciso qui. Uno dei tanti. Prima lo hanno tramortito con un colpo di martello sullo zigomo. Poi, con una pietra gli hanno maciullato la faccia e il torace. Il padre per riconoscerlo ha dovuto rovistare in quel corpo spappolato, fino a trovare una macchinetta che il piccolo portava ai denti. Solo allora ha potuto dire che era lui, che quello era suo figlio.

 

Sulla strada di ritorno, la tensione sale quando si attraversa il villaggio palestinese di Hawara. Sono cinque chilometri di paura e totale diffidenza. Che sale quando si blocca il traffico e chi la percorre diventa un facile bersaglio. Su questa strada ci sono stati molti attentati. Si inizia a respirare quando si arriva allo snodo di Tapuach e il numero di soldati israeliani torna a crescere. Poi c’è Ariel, ventimila abitanti e una famosa università, e da lì Tel Aviv. Ma prima si fa tappa a Peduel, dove un memoriale ricorda il rabbino Elimelech Shapira, ucciso a bordo della sua auto. Peduel è un piccolo insediamento abitato da ingegneri, medici, accademici. E’ famoso per la sua “terrazza”. Da qui si vede tutta Tel Aviv, e su, fino a Hadera. Si capisce la ragione per cui Israele non potrà mai ritirarsi da questi posti.

 

Si riparte, perché cala la notte e le notti in Samaria sono più lunghe e buie che altrove. Quassù si vince o si scompare.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.