Una foto del parco giochi fortificato a Sderot (foto di Giulio Meotti)

Nel sud d'Israele, mentre a Gerusalemme si litiga

Giulio Meotti

Dal confine sud dello stato ebraico si sperimenta il terrore, la sofisticata guerra agli israeliani: “I terroristi vogliono tutto e a noi ebrei cosa resta? Il mare”. Pubblichiamo la prima di tre puntate di un’inchiesta da Israele, alle prese con il fantasma della Terza Intifada.

La situazione d’Israele è tragica. Ottocento chilometri di confini terrestri, senza difese naturali. E in questa specie di Lombardia allungata, che è come se si estendesse dalle Alpi a Roma, la geografia della paura non ha risparmi da fare sulla mappa dello stato ebraico: dalla frontiera con il Libano, a nord, fino ai deserti del Sinai e Gaza, nell’ultimo sud, la vita di tutti, qui, si accompagna ogni giorno al fantasma dell’insicurezza. Il governo di Benjamin Netanyahu è diviso, fino al rischio di nuove elezioni, sulla legge che dovrebbe sancire che Israele è “lo Stato della Nazione ebraica”. Una legge che giunge in mesi in cui in Israele le relazioni fra la maggioranza ebraica e la minoranza arabo-palestinese sono molto tese (scuole miste incendiate, attentati, caos nei Territori). Contro la legge si sono schierati due ministri, Yair Lapid (Finanze) e Tzipi Livni (Giustizia).

 

L’esecutivo è diviso anche sulla legge che annullerà la residenza e gli assegni della previdenza sociale a quanti siano coinvolti “in attività terroristiche e in incitamenti alla violenza”. Se c’è una regione che incarna più delle altre l’assedio a Israele è quella meridionale. E’ fertile la pianura che conduce alla “Gaza Belt”. Sono infinite le distese bruciate in una gamma di colori dal giallo, al marrone al grigio. Come smeraldi nella polvere rossastra, di tanto in tanto spiccano i riquadri verdi dei kibbutz, simboli dell’eroismo. Qui la distanza da Gaza gli israeliani la misurano col tempo, non in metri. E’ il tempo che ti serve per trovare un riparo antimissile quando suona la sirena.

 

Affacciata su Gaza è Sderot, una cittadina di 25 mila abitanti che nella mente degli israeliani è sinonimo di povertà e di pericolo. Sderot ha, infatti, il più alto numero al mondo pro capite di rifugi antimissile: duecento. Per questo la chiamano “Sderoket”. Perché a oggi sono caduti sulla città 8.600 missili da Gaza. Nella stazione di polizia locale, i resti dei missili di Hamas sono contrassegnati in giallo, quelli del jihad islamico in grigio. Dal 2009 a oggi, dopo l’operazione Piombo Fuso, il governo israeliano ha investito 120 milioni di dollari a Sderot per fornire a ogni abitante un rifugio. La sicurezza drena il venti per cento del prodotto interno lordo d’Israele, persino più della sanità. La guerra costa. “I cieli a Sderot fanno pace fra di loro e cadono”, recita una poesia di Shimon Adaf, uno scrittore di Sderot che ha appena vinto il premio Sapiro, il maggiore riconoscimento letterario israeliano.

 

L’asilo nido del kibbutz Nahal Oz, al confine con la Striscia di Gaza, è protetto da una barriera antimissile (foto di Giulio Meotti)

 

“Sderot è la linea del fronte di Israele e Israele è la linea del fronte dell’Europa”. Così parla al Foglio Avi Suleimani, che dirige il centro comunitario della “città più bombardata del mondo”, come è stata ribattezzata Sderot. Visitiamo la città con una delegazione del ministero degli Esteri di Gerusalemme. Il centro di controllo della città è sotto un bunker antimissile e monitora con le videocamere quello che accade in ogni angolo della città. “Mai quanto oggi la vita è difficile a Sderot, e io lo dico perché sono nato qui”, dice Suleimani. “Ogni casa ed edificio a Sderot sarà protetto da barriere antimissile. Ci siamo ritirati da Gaza con i coloni nel 2005 e Hamas l’ha interpretato come un gesto di debolezza. Mentre parliamo, nuovi missili arrivano da Iran e Russia per Hamas. Un tunnel di Hamas nell’ultima guerra venne scavato dai terroristi fino a duecento metri dai confini della città. Ma nonostante tutto, loro distruggono e noi ricostruiamo”. Nel 1956 i fedayn di Gaza entrarono a Sderot e uccisero cinque israeliani in un parco. Per questo lo hanno chiamato “il parco dei cinque”. “Oggi Hamas lancia missili su questo parco”, dice Suleimani. Un altro parco in città porta il nome di Afik Zahavi-Ohayon, il bambino israeliano di quattro anni che divenne la prima vittima in città dei razzi di Hamas.

 

Una foto del parco giochi fortificato a Sderot (foto di Giulio Meotti)

 

A Sderot l’architetto Ami Shinar ha appena inaugurato la nuova stazione dei treni. E’ tutta completamente a prova di missile. Ma si è cercato di non dare l’impressione di un bunker, così sembra un trapezio postmoderno. Il National Security Council israeliano ha appena presentato un progetto di linea ferroviaria che passa vicino al valico di Erez. Non appena il treno raggiunge l’area per servire i kibbutzim e i villaggi della zona, il convoglio viene scortato da un treno antimissile. Di recente a Sderot è stato inaugurato anche un parco giochi per bambini dentro una struttura antimissile. Gran parte dei fondi è arrivata dal Jewish National Fund, ma anche dai cristiani evangelici americani di John Hagee. A Sderot molti automobilisti non indossano la cintura così che possano uscire dalla macchina in caso di allarme. Perché chi vive in città ha soltanto quindici secondi per trovare riparo. Chi guida a Sderot deve farlo con il finestrino abbassato: così si sente bene l’allarme quando squilla. In questo caso l’automobilista deve scendere dall’auto e sdraiarsi a terra, anche se piove. Una generazione di bambini nati e cresciuti a Sderot è clinicamente considerata in “regressione”, ovvero non vogliono dormire più da soli, vanno male a scuola, hanno il timore di lasciare le case.

 

Una foto del parco giochi fortificato a Sderot (foto di Giulio Meotti)

 

Un recente studio del vicino Sapir Academic College rivela che “il 75 per cento degli abitanti di Sderot soffre di stress post traumatico”. Qui gli psicofarmaci sono importanti, aiutano la gente assediata a vivere meglio: Lorivan, Clonex e Valium, i tranquillanti di tipo benzodiazepine subito dopo un bombardamento; Seroxat, Cipralex e Cymbalta, gli antidepressivi per la terapia più lunga; e le autentiche psicosi sono trattate con neurolettici come Zyprexa, Geodon, Clopixol. Eppure, da Sderot in pochi se ne sono andati. Per motivi economici, come durante l’Olocausto: solo i ricchi se ne vanno. E poi, per andare dove?
Israele è come Pompei, vive come alle pendici di un vulcano. E’ nel sud ebraico che si tocca con mano l’insicurezza, l’accerchiamento e l’angoscia permanente di Israele. Una analista di alto profilo del ministero degli Esteri israeliano ci spiega che “la ‘primavera araba’ è stata come la caduta dell’Unione sovietica, ha messo in discussione tutto il vecchio medio oriente”. Per Israele, questo ha significato una drammatica escalation per la sicurezza. “Il Sinai oggi è un hub mondiale del jihad. L’Isis è al confine meridionale di Israele. Negli anni Settanta fu smantellato tutto l’apparato di sicurezza di frontiere al confine egiziano. Oggi lo stiamo ricostruendo. E per la prima volta, al nord, con la Siria, abbiamo al Qaida a duecento metri dalle case israeliane”.

 

Intanto, a pochi chilometri da Sderot, al valico di Erez, i palestinesi hanno ripreso a varcare il confine. Erez, che assomiglia a un aeroporto solo che è senza passeggeri, è l’unico passaggio per i palestinesi che vogliono entrare da Gaza in Israele. Alla divisione economica di Tsahal, l’esercito israeliano, a pochi metri dalla Striscia, ci spiegano cosa stanno facendo dopo la guerra di questa estate: “Alcuni giorni fa cinquanta commercianti agricoli di Gaza sono entrati in Israele per incontrare rappresentanti del ministero dell’Agricoltura israeliano e discutere di fertilizzanti. 350 camion ogni giorno passano da Israele a Gaza per portare cibo, materiale edile, tutto. I supermercati di Gaza oggi sono pieni di beni, non manca nulla. Ogni giorno pazienti palestinesi si curano in Israele. Dieci linee elettriche israeliane riforniscono Gaza di energia. Cinque milioni di metri cubi di acqua entrano ogni anno a Gaza. Sempre noi forniamo la linea di fibra ottica. Il cinquanta per cento delle case palestinesi oggi ha la connessione internet”. Shlomo Zahan, direttore del valico di Erez, ci spiega che “700, 800 palestinesi ogni giorno passano da Erez, ma Hamas fa di tutto per impedirlo, sarebbe come ammettere che Israele è responsabile delle loro vite”.

 

Una foto del parco giochi fortificato a Sderot (foto di Giulio Meotti)

 

Iron Dome, la muraglia d’acciaio, protegge il futuristico edificio del valico di Erez, ma non i kibbutz vicini. Durante l’ultima guerra, il settanta per cento dei trentamila israeliani che vivevano qui ha abbandonato le case. Sono fuggiti in auto, “ricollocati” dallo stato, ospitati da parenti nel nord. E’ stato un assaggio di cosa intendono i nemici di Israele quando parlano di “fine dello stato ebraico”. Nel kibbutz Nahal Oz non è rimasto nessuno. In tre giorni, quattrocento famiglie hanno chiesto di andarsene. Le strade israeliane a ridosso di Gaza sono state ridisegnate con delle curve per ingannare i missili al laser lanciati dai terroristi. Sono stati aggiunti alberi, anche alla linea ferroviaria. Le chiamano “foreste difensive”. I colpi di mortaio sono così frequenti che in ebraico sono stati ribattezzati “tif tuf”, pioggerellina. Oggi Nahal Oz sembra una fortificazione militare. L’asilo nido non è neppure visibile dietro al muro di cemento armato alto oltre dieci metri. Nel kibbutz, ogni barriera è stata decorata con fiori, alberi, disegni, per renderla meno angusta.

 

Kobi Barkai è stato per vent’anni consulente agricolo dei kibbutz della regione di Gaza. Vive a un tiro di schioppo da Gaza, nel moshav Nir, fondato nel 1949 da ebrei cecoslovacchi. “Venni a vivere qui nel settembre 1986, con mia moglie e mio figlio di quattro anni”, racconta Barkai al Foglio. “Mio figlio è cresciuto in un ambiente pastorale, nonostante due palestinesi avessero appena rapito e ucciso un soldato che aspettava l’autobus. Non c’era rabbia o paura per i palestinesi. Una coppia di Gaza veniva a lavorare nel nostro moshav, compreso un giardiniere che lavorava nell’asilo. Io ero un esperto di pesticidi e mi recavo ovunque, da Eilat a Sderot. In quel tempo andavo spesso a Gaza senza pensare che qualcosa di male potesse succedermi. Quattro anni dopo, è nata la mia figlia maggiore e poi un’altra. A quel tempo la vita era bellissima, la gente lavorava per rendere pacifico questo posto e verde. Tonnellate di prodotti agricoli da qui sono partiti per l'Europa e gli Stati Uniti”.

 

Un tempo in cui i kibbutznikim della zona pensavano che i palestinesi volessero concentrare i loro attacchi alle colonie di Gush Katif, a Gaza. “Poi però Hamas ha trovato un nuovo modo per fare la guerra agli israeliani, lanciando missili sui kibbutz attorno e sulle città, usando Gaza come scudo vivente contro l’esercito israeliano. Entrambe le mie figlie sono state esposte al lancio di missili, diventati una routine. La loro scuola è stata danneggiata dalle bombe, uno choc terribile. Cercavamo di convincerle che la gente a Gaza era buona e che soffriva i terroristi come noi. Ma la nostra capacità di influenzare le loro idee diventava sempre più debole”. Kobi, nonostante tutto, non perde la speranza. “Qui pensiamo ancora che la pace un giorno verrà nella nostra regione e forse in tutto il medio oriente. Ci volteremo indietro a questi giorni e penseremo, ‘che spreco di vite’”.

 

Il centro di controllo di Sderot sorge in un bunker sotterraneo. Da lì le telecamere controllano quello che accade in città (foto di Giulio Meotti)

 

Vicino c’è Ashdod, la biblica città scomparsa, rinata con un triplice scopo: rompere la dipendenza dell’intero paese dall’unico grande porto di Haifa all’estremo nord; in particolare, ricevere, essa, con ben più breve percorso, il petrolio dell’oleodotto da Eilat; assorbire direttamente il traffico della Giudea e della vicina Gerusalemme.

 

Poi c’è Ashkelon. Durante l’ultima guerra di Hamas a Israele, Ashkelon è stata martellata giorno e notte dai missili. E’ l’Ascalona dei Crociati e dei poemi cavallereschi, dove lo sviluppo industriale si urta non solo contro il deserto o il mare ma contro la più inconsueta delle difficoltà: un sottosuolo troppo ricco di tesori archeologici di ogni tempo appena coperti da un velo di sabbia. Per proteggere i ricordi di ieri, i costruttori di oggi hanno dovuto creare un immenso parco dove si accumulano mura e mosaici, colonne e capitelli.

 

[**Video_box_2**]La visitiamo con una dottoressa che vive in città, Adriana Katz, psichiatra dell’ospedale Barzilai e direttrice della clinica di Sderot, dove cura le vittime dei missili. “Non sono pessimista, sono realista. La pace non arriverà mai. Credevo nell’accordo di pace fino a che i coloni di Gaza non hanno lasciato le loro case. I terroristi lanciavano missili anche prima, ma adesso è sempre più intenso. Siamo persi. Non vorrei mai oggi essere ebrea in Europa, non voglio sentire più quel ‘voi’. Obama ci ha castrato e non abbiamo nessuno fra gli arabi con cui dialogare”. Passiamo al fianco di bellissime ville costruite di fronte alla spiaggia, di proprietà dell’alta borghesia israeliana e di alcuni oligarchi.

 

“A cosa gli servono queste ville?”, si domanda Katz. “Fra dieci, vent’anni al massimo Israele rischia di non esserci più. Non vedo molta gente disposta a morire per Israele. Alla gente qui interessano le ville, il benessere, il consumismo. E pensare che quando arrivai ad Ashkelon, quarant’anni fa, c’erano soltanto sabbia e patate. Dove sorgono ora questi grattacieli c’erano delle piantagioni di arance. Ed è strano, perché gli ebrei continuano ad arrivare in città, come se si fossero persi. Qui si costruisce in continuazione. Fa uno strano effetto. Intanto, nessuno ferma i terroristi, che vogliono tutto. Darei loro metà Gerusalemme se servisse per la pace, ma non serve, gli arabi vogliono Haifa, Jaffa, Ashkelon. Quando me lo dicevano ridevo, ma oggi sono d’accordo. E a noi cosa resta? Il mare”.

 

E’ bello il mare ad Ashkelon, solcata da piccole barchette di israeliani che cercano un po’ di svago nell’assedio permanente. “Adesso si prepara Hezbollah, che sappiamo ha 30-40 mila missili”, ci spiega Katz. “Nell’ultima guerra Hamas ha lanciato missili anche di notte. Sono sempre più sofisticati nella guerra a Israele”. Attraversiamo Majdal, l’antica Ashkelon araba, dove è nato lo sceicco fondatore di Hamas, Ahmed Yassin. “Non ho paura di morire, di morire chissenefrega”, dice la psichiatra israeliana. “Ho paura di soffrire”. C’è l’ospedale Barzilai. “Ecco, stanno costruendo adesso un gigantesco bunker sotto l’ospedale. Durante la prossima guerra, porteranno tutti i pazienti sotto terra”. Poi si scorge Nitsan, su una collina. “E’ il villaggio dove hanno messo tutti i coloni evacuati da Gaza nel 2005. Questo posto doveva essere ‘provvisorio’. Sono trascorsi quasi dieci anni. Siamo tutti provvisori qui. E’ Israele a essere un grande itnahalut”. Un insediamento. Israele farà la fine di Gush Katif? Ma stavolta dove li metteranno i sei milioni di ebrei?

 

Pubblichiamo la prima di un’inchiesta in tre puntate da Israele, alle prese con il fantasma della Terza Intifada

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.