Matteo Renzi, Beppe Grillo e Silvio Berlusconi (foto LaPresse)

Il Nazareno, i due forni e il carbone

Alessandro Giuli

Le scaramucce tra Renzi e il Cav. e le scappatelle del premier con Grillo hanno una spiegazione (tattica) ma non portano lontano. A meno di voler consegnare la Leopolda al dott. Gribbels e perdere la patria potestà del centrodestra.

C’è forno e forno, Matteo Renzi non è Giulio Andreotti e sopra tutto il Movimento 5 stelle non è il Partito socialista. Di qui il bagno di realismo cui verisimilmente dovranno sottoporsi sia il giovane premier sia il suo alleato in solidum Silvio Berlusconi. Renzi è forte e spregiudicato, ma sa bene che la spirale della diffidenza reciproca con il Cav. rischia di soffocare entrambi e sa anche che il Patto del Nazareno è la loro principale garanzia nella manutenzione delle rispettive baruffe domestiche. Di là dalle più o meno legittime ambizioni dei luogotenenti berlusconiani, Forza Italia non trarrebbe alcun vantaggio da uno sgretolamento dei rapporti con la dirigenza democrat: perderebbe centralità nel disegno delle grandi riforme istituzionali e della legge elettorale, uscirebbe dal cono di luce del bipartitismo per fare compagnia alle piccole destre anti sistemiche (la Lega di Salvini, a sua volta impegnata a fare la ruota per farsi un po’ corteggiare da Renzi, con tutto il variopinto pulviscolo post fascista a fianco), rischierebbe di precipitare verso il voto anticipato acefala e divisa, e a pagarne il conto sarebbero anzitutto i parlamentari rumorosi e sitibondi che si sono sindacalizzati intorno all’irrequieto Raffaele Fitto.

 

Dall’altra parte del Nazareno, un Partito democratico che si consegni all’azzardo di un accordo strategico con il dott. Gribbels – e già l’espressione “accordo strategico” accostata ai pentastellati arieggia come un misterioso sberleffo – farebbe la felicità dei renziani di rito antiberlusconiano (a cominciare da Repubblica), dei mozzorecchi (la banda Travaglio), dei sognatori (benecomunisti varii) e dei feticisti della Costituzione più bella del mondo (Zagrebelsky, Rodotà, più altri ruminanti palasciarpisti); ma così il Pd andrebbe incontro a una pietrificazione della sua vocazione riformista. Come in una riedizione allucinata del vecchio e funesto ammanettamento tra Walter Veltroni e Antonio Di Pietro, aggravato dalla completa inaffidabilità di un movimento-setta a guida carismatica e conduzione becero-internettiana. Roba da pugili in disarmo come Pier Luigi Bersani, non da luccicanti sbruffoni della Leopolda. Per rimanere nei confini della metafora para-andreottiana, il forno dei grillini è alimentato da una fiamma instabile che arroventa il lievito in modo incapacitante ed è buona soltanto per carbonizzare le illusioni settarie dei blogger. Per dirne una: dopo averlo visto all’opera nella rimozione coatta di Enrico Letta, non è bello prefigurarsi Renzi che contratta l’elezione del prossimo presidente della Repubblica insieme ai gruppi parlamentari di chi fino a ieri latrava contro Giorgio Napolitano pretendendo di sloggiarlo via impeachment. A meno di voler restituire una gloria postuma alla sinistra minoritaria del Pd e ai dirigenti di quella ditta sgarrupata che farebbe coriandoli con il Jobs Act.

 

[**Video_box_2**]Non resta che indovinare l’esercizio di un’arte dissimulatoria, dietro alle incertezze dei due leader e agli appetiti sfascisti dei loro corteggi. Renzi gioca da una posizione vantaggiosa: incumbent e competitor di se stesso, si concede l’agio di provocare il Cav. con ultimatum e scappatelle, ma lo fa con la preoccupazione di conservare a Palazzo Grazioli il suo contrafforte riformista. Lo ha ammesso ieri, candida, Maria Elena Boschi alla tivù berlusconiana: “Tutto si è arrestato perché in Forza Italia litigano, non si mettono d’accordo tra di loro. Noi però non ci possiamo fermare”. E si capisce che Berlusconi debba farla pesare, la sua disponibilità, se vuole mantenere la patria potestà del centrodestra, e in attesa di poter sfidare in campo aperto il suo fortunato alunno della Leopolda.