Il presidente Barack Obama a Chicago mentre rilascia una dichiarazione sulla sparatoria a Fort Hood, Texas, lo scorso 2 aprile

Questo silenzio tra noi

Paola Peduzzi

Nella politica estera di Obama vince la solitudine. Non soltanto la sua, che c’è (chiedere a Kerry), ma soprattutto quella dei suoi alleati (chiedere ai ribelli siriani).

I ribelli siriani hanno attraversato il confine turco e sono arrivati a Kobane, la città simbolo della resistenza in Siria contro l’avanzata dello Stato islamico. Sono duecento circa, anche se le autorità turche dicono di aver dato il via libera a milletrecento ribelli per combattere a Kobane – non si sa a che brigate appartengano, si sa solo all’incirca il numero, e che sia stato il governo di Ankara a stabilirlo la dice lunga sulla tattica di Recep Tayyip Erdogan in questa guerra.

 

Un comandante dei ribelli, il colonnello Abdul Jabar Okaidi (che nell’agosto del 2013 conquistò l’aeroporto assadista di Minnigh assieme allo Stato islamico e che ora invece combatte strenuamente contro il Califfato), parlando al telefono con la Cnn, ha raccontato che le armi sono state fornite dal Free Syrian Army (l’esercito della Syrian National Coalition, che per la diplomazia occidentale è la legittima rappresentante del popolo siriano), che è stata calorosa l’accoglienza da parte dei curdi, i quali da sei settimane impediscono a Kobane di cadere (nonostante quel che si è catastroficamente predetto, la cittadina è l’ultimo esempio della straordinaria resistenza del popolo siriano) e che la “control room” è unificata. Poco dopo sono arrivati i peshmerga iracheni, scelti e mandati sempre dal governo di Ankara che tutto decide in questo pezzo di terra al suo confine – vuole evitare effetti collaterali, primo fra tutti lo strapotere del bizzoso partito curdo Pkk. Il primo convoglio di guerriglieri curdi iracheni, circa un centinaio, arrivati da Erbil, in Iraq, è stato accolto a Kobane con un trattamento da eroi: fuochi di artificio, falò, canti, migliaia di persone per le strade dei villaggi, con i colori della bandiera curda dipinti sul viso. “Siamo tutti uniti!”, gridavano, e possiamo immaginare il brivido lungo la schiena dei leader turchi, ma lo spettacolo è stato meraviglioso: i “boots on the ground” della guerra contro lo Stato islamico sono così tutti schierati, i curdi e i ribelli siriani assieme, un esercito volonteroso e coraggioso quanto mal equipaggiato e mal addestrato. Se non fosse che tali popoli hanno dato prova di una forza eccezionale, che dura nel tempo e si nutre di un’epica allo stesso tempo straziante e vigorosa, si potrebbe cinicamente pensare a questi uomini e a queste (tante) donne come a carne da macello. I sacrificabili. Che nel caso dei ribelli siriani ha un significato ancora più tragico, se si guardano le mostruose “regole di ingaggio” stabilite dalla Casa Bianca in cambio degli aiuti in armi e addestramento: potete difendervi ma non attaccare, potete mantenere i territori che avete ma non riprenderne altri perduti in passato, potete usare le nostre armi ma hanno una data di scadenza, sia mai che vi sognate tra qualche anno di usarle contro l’obiettivo sbagliato. Che in altre parole significa: non ci fidiamo, non abbiamo alternative e dobbiamo scendere a patti con voi, ma sia chiaro che non ci fidiamo.

 

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Soli come i ribelli siriani, nessuno. La solitudine è la cifra della politica estera di Barack Obama, il presidente americano eletto per chiudere le guerre iniziate dal predecessore considerato guerrafondaio e per fare la pace con il mondo islamico. La solitudine non è soltanto quella di Obama, che c’è, se si dà retta ai retroscena che pubblicano i giornali americani e che parlano con dettagli sempre più deprimenti dell’insularità patologica del presidente. La solitudine non è soltanto quella di Obama, che solo dev’essere davvero, se a cena invita soltanto i quattro amici dei tempi di Chicago, se le riunioni nello Studio Ovale sono talmente ristrette che molti non sanno nemmeno che sono in corso, se la comunicazione tra le varie agenzie che si occupano di sicurezza nazionale, dal Pentagono fino al Controterrorismo, è pari a quella di due separati in casa (e volano pure gli stracci). La solitudine non è soltanto quella di Obama, che ci è stata raccontata prima come freddezza da grande leader che sa fare la cosa giusta e poi come preoccupante insicurezza: a quella ci siamo, in sei anni, abituati (anche se lo choc non è stato assorbito del tutto: all’empatia ci avevamo creduto, risale la nostalgia a ogni discorso, a ogni sorriso, possibile essersi sbagliati così tanto?). La solitudine è la nostra, degli alleati dell’America, in un momento in cui da soli non vorremmo stare da nessuna parte.

 

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Secondo il New York Times, Obama potrebbe cambiare alcune persone nel suo team della sicurezza. Il giornalista che ha firmato l’articolo, Mark Landler, racconta che nell’ultimo mese Susan Rice, capo del Consiglio per la Sicurezza nazionale, ha invitato un gruppo di esperti di politica estera alla Casa Bianca per sentire il loro parere sulla performance dell’Amministrazione sul fronte internazionale. Ci sono state critiche sulla strategia in Siria e nei confronti della Cina e sul ritardo con cui è stato rilasciato il documento – gestito dal Congresso – sugli obiettivi della politica estera. Su quest’ultimo punto la Rice è stata piuttosto acida: “Se l’avessimo reso pubblico a febbraio o aprile o luglio, sarebbe stato stravolto dagli eventi nelle due settimane successive”. Cioè sarebbe stato tutto sbagliato. “Non sorprende – scrive Landler – che la strategia di lungo periodo avrebbe subìto dei cambiamenti. Ma questo fatto solleva domande inevitabili sulla capacità del presidente e del suo team di sicurezza, molto sotto pressione, di gestire e in qualche modo prevenire i fatti di tutti i giorni”. Ecco che le speculazioni su un possibile rimpasto crescono, molti fedeli del presidente e membri del gabinetto sono “esausti”, in particolare il segretario di stato John Kerry e il capo del Pentagono, Chuck Hagel. Il magazine di Politico – che produce articoli informati e belli con una frequenza invidiabile – ha pubblicato questa settimana un racconto sui rapporti tra Hagel e la Rice e più in generale sulle diverse agenzie che si occupano di sicurezza nazionale dal titolo: “Team of bumblers?”, un team di pasticcioni? Il presidente Obama ha già inserito due nuove figure nel suo gruppo: lo zar per ebola Ron Klein e prima di lui l’ex comandante in Afghanistan John Allen che gestisce la coalizione internazionale che combatte contro lo Stato islamico. Ma continua a fare quasi esclusivo riferimento al suo circolo stretto di collaboratori – ormai guidato con pieni e ampi poteri dal chief of staff, Denis McDonough, considerato l’unico zar davvero presente nell’Amministrazione, nonché l’ispiratore del non interventismo obamiano – nel quale nemmeno Kerry né Hagel riescono a trovare spazio. Al segretario di stato viene riconosciuto il successo della costruzione della coalizione che combatte contro il Califfato, ma è considerato “fuori sincrono” rispetto alla Casa Bianca: gira la battuta, tra i funzionari obamiani, che Kerry sia come l’astronauta interpretato da Sandra Bullock nel film “Gravity”, fa capriole nello spazio ma è del tutto slegato dalla Casa Bianca. Per Hagel la questione è differente: è un ex senatore molto rispettato che è stato chiamato al Pentagono più per gestire i tagli e il rigore che per fare le guerre. Al punto che la questione strategica è stata quasi del tutto delegata al capo di stato maggiore, il generale Martin Dempsey, che pare ascoltato da Obama, pur con le solite cautele (e quando osa parlare della necessità di truppe americane in Iraq viene puntualmente smentito). Così Hagel spesso non partecipa ai meeting collettivi, preferisce avere colloqui diretti con il presidente, durante i quali riesce anche a far passare alcuni messaggi: il suo ultimo memo di due pagine – in cui spiega che il problema, in Siria, è che non è stata chiarita la strategia nei confronti del regime di Bashar el Assad – pare sia stato apprezzato dalla Rice. La quale condivide con il chief of staff McDonough uno strapotere che ha cambiato il ruolo del Consiglio per la Sicurezza nazionale: è diventato più operativo e meno strategico. Ma questo è un guaio, come spiega David Rothkopf, un ex clintoniano che ha appena pubblicato un secondo libro sul Consiglio (un estratto è stato riprodotto sul sito di Foreign Policy): troppo coinvolgimento nella diplomazia impedisce di creare a monte una strategia efficace. Al punto che la stessa Rice si è trasformata nella guardiana della presidenza contro tutte le critiche (si sa che Obama non le tollera, le critiche): “Stiamo gestendo molti eventi contemporaneamente, e penso che lo stiamo facendo ragionevolmente bene – dice – Vorrei dire molto bene, se non stessi cercando di essere un po’ misurata”.

 

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A centinaia di chilometri dalla battaglia di Kobane, la guerra civile siriana continua nella provincia di Idlib. Le brigate del Fronte islamico, i miliziani di Jabhat al Nusra (legata ad al Qaida) e i ribelli siriani del Free Syrian Army sostenuti dagli Stati Uniti combattono contro l’esercito del regime di Damasco da molti giorni (e combattono anche tra di loro, ma ora hanno siglato una specie di tregua: sanno che disuniti non ce la possono fare contro Assad). Mercoledì sono state uccise almeno sessanta persone in un attacco su un campo profughi fatto dagli elicotteri di Assad che hanno sganciato le loro famigerate e spietate “barrel bomb”. Due giorni prima, Jabhat al Nusra aveva attaccato i soldati di Damasco, facendo almeno trenta vittime. Nel governatorato a est di Idlib, quello bello e tormentato di Aleppo, la settimana scorsa ci sono state decine di attacchi aerei da parte del regime di Assad (in tutto 210, se si considerano anche i sobborghi a est di Damasco e le zone a sud, vicino al confine con la Giordania), secondo il Syrian Observatory for Human Rights. I ribelli ad Aleppo dicono che Assad ha aumentato gli attacchi per interrompere le linee di rifornimento dentro la città. L’esercito siriano ha quasi circondato Aleppo con l’aiuto delle milizie sciite in arrivo dal Libano e dall’Iran: secondo alcuni siti di informazione iracheni e iraniani, un generale dei Bassiji, Drisawi Jabbar, è stato ucciso nei pressi di Aleppo due settimane fa.

 

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I negoziati con l’Iran di Hassan Rohani per il programma nucleare dovrebbero risolversi o collassare entro il 22 novembre. Si alternano voci ottimistiche a voci pessimistiche, e tutti, iraniani e occidentali, insistono nel dire che il dossier che comprende centrifughe e bomba atomica è ben distinto da quello della guerra contro lo Stato islamico. Ma più passa il tempo, più lo stallo sul campo iracheno e siriano rende le prospettive di guerra interminabili e i nuovi equilibri da costruire incerti, più l’alleanza di fatto tra Iran e Stati Uniti nella lotta contro lo Stato islamico diventa percepibile. Il Wall Street Journal parla di “détente” anche se gli sgarbi diplomatici non sono certo sospesi – la leadership iraniana, soprattutto la Guida Suprema Ali Khamenei, non perde occasione per irridere il Satana americano – ma che le trattative atomiche non siano influenzate da quel che accade sul campo pare piuttosto improbabile. Per di più, Obama ha da sempre, fin dall’inizio del suo mandato presidenziale, favorito la mano tesa nei confronti di Teheran, e il bilancino della solitudine può stabilire che in questi sei anni obamiani, tra sanzioni alleviate e gran consessi con il “riformatore” Rohani, l’Iran è meno isolato, cioè è meno solo.

 

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[**Video_box_2**]All’inizio di ottobre la Reuters ha pubblicato uno special report dal titolo: “Come la politica nei confronti della Siria è entrata in stallo sotto la guida dell’‘analyst in chief’”. Dal 2012, tutte le richieste da parte di esperti e dipendenti della Casa Bianca di rivedere la strategia in Siria considerando un intervento o quanto meno l’addestramento dei ribelli siriani hanno ricevuto un’unica risposta: no. Quest’estate, gli eventi, cioè l’avanzata dello Stato islamico, hanno “sopraffatto lo status quo”. Così il presidente Obama ha ribaltato la sua strategia e ha autorizzato i bombardamenti, prima in Iraq e poi in Siria. E’ stato il primo “u-turn” in Siria della Casa Bianca, ma in questo cambiamento gli errori accumulati dall’Amministrazione sono apparsi ancora più chiari. Tre in particolare: il ritiro dall’Iraq e la mancanza del sostegno ai ribelli siriani hanno permesso allo Stato islamico di prosperare; i dibattiti interni all’Amministrazione si sono concentrati più sui costi di un intervento in Siria che su quelli di un non intervento; la Casa Bianca ha sottostimato il pericolo in termini di credibilità causato dalle minacce pubbliche fatte al regime di Assad (la linea rossa, soprattutto) che poi non hanno avuto seguito. Questi errori sono stati determinati dalla solitudine, a sua volta determinata dalla mancanza di fiducia. I sauditi volevano un’operazione convinta da parte degli Stati Uniti nei confronti del regime di Damasco già nel 2012 e non l’hanno ottenuta, infuriandosi. I francesi, sempre nel 2012, avevano pronti gli aerei per andare a colpire obiettivi in Siria legati ad Assad, dopo che erano state presentate le prove degli attacchi chimici contro la popolazione, ma una telefonata all’ultimo minuto di Obama ha bloccato la partenza, con conseguente umiliazione di Parigi. I ribelli siriani hanno atteso, resistendo, gli aiuti e l’addestramento, e ora che sono infine arrivati non possono combattere il regime di Assad, loro primo nemico (si dimentica spesso che la crisi siriana nasce da un’insurrezione popolare contro un dittatore), perché non è negli obiettivi della missione internazionale, creata unicamente per sconfiggere lo Stato islamico. La solitudine di Israele non ha bisogno di grandi descrizioni, basta ricordare il grande freddo che si è creato nei rapporti tra Obama e il premier Benjamin Netanyahu. Nell’elenco delle vittime della solitudine si possono inserire anche gli ucraini che non hanno visto garantita la loro integrità territoriale (anche Vladimir Putin, presidente della Russia, è più solo, ma a differenza degli alleati americani a lui non importa granché, anzi, ne fa un punto d’onore).

 

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In un bellissimo saggio tradotto e pubblicato dal Foglio a maggio, l’intellettuale Robert Kagan ha scritto una frase che spiega come la politica estera abbia più a che fare con la natura delle persone che con l’asettica geopolitica: un presidente solitario, freddo, calcolatore ha mostrato come si possono facilmente deteriorare le relazioni personali e di conseguenza quelle internazionali. E l’effetto si è sentito non tra chi si aspettava freddezza – i nemici – ma tra chi si aspettava calore – gli alleati. I teorici della geopolitica parlano di isolazionismo, i catastrofici di declino, e in questi anni chi si occupa di politica estera s’è tormentato per scovare una dottrina, senza ottenere nulla se non, in rari e tristi casi, qualche metafora sportiva del presidente, tra baseball e basket, e il tremendo “don’t do stupid stuff”. Più semplicemente possiamo utilizzare le parole di Kagan: “La politica estera di ogni nazione è destinata a subire più fallimenti che successi. Il tentativo di influenzare il comportamento delle persone anche nelle questioni domestiche è già abbastanza difficile. Influenzare gli altri popoli e le altre nazioni senza limitarsi ad annichilirli è la più difficile delle azioni umane. E’ anche nella natura intima della politica estera, così come nelle questioni umane in genere, che tutte le soluzioni ai problemi portino solo più problemi. Questo è sicuramente vero per tutte le guerre. Nessuna guerra finisce in maniera perfetta, anche quelle con gli obiettivi più chiari e limpidi”. Figurarsi come possono finire le guerre senza obiettivi chiari né limpidi.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi