Barack Obama al G20 di Los Cabos in Messico, nel 2012

America un po' meno global

Domenico Lombardi

Con la conquista di entrambi i rami del Congresso da parte dei repubblicani, svaniscono le speranze di Obama di conquistare spazi di manovra più ampi rispetto a quel margine angusto in cui la sua presidenza è stata relegata negli ultimi quattro anni.

Con la conquista di entrambi i rami del Congresso da parte dei repubblicani, svaniscono le speranze di Barack Obama di conquistare spazi di manovra più ampi rispetto a quel margine angusto in cui la sua presidenza è stata relegata negli ultimi quattro anni, da quando i democratici hanno perso il controllo della camera bassa.

 

L’esito elettorale spingerà lo Studio ovale di Pennsylvania Avenue a ripensare tatticamente la propria agenda di politica economica, accantonando definitivamente quelle componenti che avevano ricevuto impulso nella prima presidenza Obama, enfatizzandone altre, suscettibili di alimentare una convergenza politica con i repubblicani in Congresso.

 

Il ripiegamento tattico, tuttavia, sarà condizionato dalla capacità della Casa Bianca di potenziare la sua attitudine relazionale con il Congresso, sinora del tutto insoddisfacente, e, allo stesso tempo, da un eventuale avvicendamento di membri chiave nel gabinetto presidenziale per facilitare il collegamento con la nuova, diffidente maggioranza congressuale.

 

Procediamo con ordine. Nella sfera delle relazioni economiche internazionali, i prossimi due anni vedranno accentuare il disinteressamento degli Stati Uniti rispetto al G20 che lo stesso Obama aveva definito il foro principale per la cooperazione economica internazionale all’inizio della sua presidenza. Il G20, percepito impropriamente dai repubblicani come una creatura del presidente democratico, nonostante George W. Bush ne avesse convocato il primo vertice a livello di capi di stato e di governo nell’autunno del 2008, versa in una profonda crisi di identità. Il contratto implicito che la presidenza Obama aveva sottoscritto con le potenze emergenti prevedeva un maggiore impegno di queste ultime in termini di responsabilità nella gestione della stabilità dell’economia mondiale, in cambio di una loro integrazione nei processi decisionali mondiali che prevedeva anche una riforma della governance delle organizzazioni internazionali in tal senso. Tuttavia, quattro anni dopo, il pacchetto di riforme del Fondo monetario internazionale, che prevede un rilevante spostamento di diritti di voto alla Cina che diventerebbe così il terzo azionista, rimane ancora congelato perché il maggiore azionista, gli Stati Uniti, non lo ha ancora ratificato in Congresso. La rottura dell’implicito contratto nel nuovo assetto della global governance che la parte più illuminata della presidenza Obama aveva alimentato in una prima fase risulta, alla luce del risultato elettorale, irrimediabilmente compromesso dallo scarso incentivo che le economie emergenti avranno nell’interloquire con una presidenza che, oggi più di ieri, non è in grado di dar seguito agli impegni presi nelle sedi internazionali.

 

[**Video_box_2**]L’ultimo banco di prova sarà nelle prossime settimane quando l’esecutivo chiederà al Congresso dimissionario di approvare una serie di provvedimenti nel cosiddetto Omnibus Bill prima di congedare la legislatura, inserendovi, a sorpresa, il provvedimento legislativo relativo al Fmi.

 

A rafforzare questa sensazione di ritirata sul fronte delle relazioni economiche internazionali, vi è il cambio di testimone alla guida del G20 che a dicembre passerà dall’Australia alla Turchia, con la quale il rapporto di tradizionale amicizia è stato compromesso dall’incerta gestione della crisi siriana da parte di Washington e dalla crescente assertività di Ankara nel rivendicare il ruolo di potenza regionale.

 

L’ambito nel quale la presidenza potrebbe concentrare i suoi sforzi è quello del commercio internazionale, rispetto a cui il presidente sta perseguendo due iniziative ambiziose, una legata a un trattato con la Ue (Ttip) e l’altra con le economie del Pacifico (Tpp). La maggioranza repubblicana e la minoranza democratica potrebbero raggiungere un’intesa bipartisan su questi importanti dossier fornendo al presidente il mandato a chiudere i negoziati in tempi non lunghi. Non solo perché la prima è tradizionalmente a favore di intese commerciali ma anche perché vedrebbe con favore la finalità geostrategica del Tpp di accerchiamento della Cina che ne rimarrebbe intenzionalmente esclusa. Inoltre, la tempistica dell’azione parlamentare, idealmente nella prima parte del mandato congressuale, ridurrebbe l’imbarazzo dei rappresentanti democratici a sostenere iniziative poco gradite dallo zoccolo duro della loro base elettorale e sindacale.

 

Infine, il nodo delle relazioni con il Congresso. Gli insider di entrambi i partiti a Washington riconoscono che si tratta del vero tallone di Achille della presidenza Obama anche nei confronti della rappresentanza parlamentare democratica. Ad acuire le difficoltà, poi, vi sono stati alcuni inserimenti problematici all’indomani del secondo mandato presidenziale. Primo fra tutti, il segretario al Tesoro Jack Lew che il presidente aveva spostato dalla direzione del suo gabinetto all’edificio contiguo a Pennsylvania Avenue che ospita il Tesoro federale nella convinzione, evidentemente mal riposta, che il suo prezioso collaboratore disinnescasse la tensione congressuale sul fronte delle politiche economiche e gli conquistasse maggiori spazi di manovra sulla politica fiscale. Due anni dopo, la presidenza si ritrova, invece, con un segretario scarsamente considerato dal Congresso, non apprezzato dal settore finanziario, e senza peso internazionale. A fronte della crescente consapevolezza del problema, il presidente ne potrebbe decidere la sostituzione con un esponente centrista proveniente da una grande azienda o istituzione finanziaria che lo agevolasse nella necessaria opera di mediazione con la nuova maggioranza congressuale.

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